Processo penale: quali sono i limiti che giustificano la non ammissione di un testimone?
L’art. 468, comma 1, c.p.p. prevede che “le parti che intendono chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210 devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame”.
Come chiarito anche dalla Suprema Corte, la parte che abbia omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge ha la facoltà di chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, “considerato che il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni è stabilito, a pena di inammissibilità, dall’art. 468, comma 1, soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria, e che l’opposta soluzione vanificherebbe il diritto alla controprova, il quale costituisce espressione fondamentale del diritto di difesa” (Cass. pen., Sez. V, 12 novembre 2013, n. 2815; negli stessi termini, Cass. pen., Sez. V, 3 novembre 2011, n. 9606).
Tale orientamento giurisprudenziale risulta essere aderente ai principi che regolano il diritto dell’imputato alla controprova, tenuto conto, in primo luogo, del disposto dell’art. 495, comma 2, c.p.p., che sancisce il diritto dell’imputato di ottenere l’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a e soprattutto, dei principi costituzionali in materia (art. 111, comma 3, Cost.) ed è rispettoso della Cedu (art. 6, paragrafo 3, lett. D),Cedu).
In altri termini, l’imputato ha sempre diritto all’ammissione delle prove che tendono a negare i fatti di cui è chiamato a rispondere ed analogo diritto spetta al pubblico ministero in ordine alle prove a discarico indicate dall’imputato.
Tale breve inquadramento tematico si è ritenuto necessario per affrontare la questione relativa al bilanciamento tra la discrezionalità, riconosciuta dal Legislatore, in capo al Giudicante nel valutare la necessità o meno di ammettere un mezzo istruttorio ed il diritto costituzionalmente garantito all’imputato a vedersi ammessa prova diretta o contraria. Tale delicato tema unitamente a quello relativo alla cd. prova decisiva è stato affrontato dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione con la pronuncia n.53823/2017.
La Suprema Corte in accoglimento dei motivi della difesa del ricorrente ha emesso il seguente principio di diritto: la circostanza per la quale in sede dibattimentale siano già stati sentiti numerosi testimoni non vale, di per sé, a giustificare la compressione del diritto della difesa di assumere la deposizione di un teste rilevante (rectius, decisivo), essendo ovviamente scopo del processo quello di pervenire ad una decisione “giusta” all’esito di un processo “giusto”, il che impone e presuppone la più ampia disponibilità di elementi di prova al fine di evitare che residuino lacune “colmabili” attraverso, appunto, l’ammissione di uno o più elementi probatori.
La vicenda processuale: la Corte d’appello aveva confermato la condanna irrogata nei confronti dell’imputato in primo grado per il reato di maltrattamenti in famiglia per fatti commessi anche in presenza dei figli minori. Secondo quanto argomentato dai Giudici di merito, la prova era stata desunta dalle dichiarazioni della vittima e da quelle rese dalla nonna materna che avrebbe riferito in dibattimento di fatti e di vicende apprese dal racconto fattole dalla nipotina minorenne. La testimonianza della minore, però, veniva ritenuta dal Giudice del primo grado superflua senza che venisse addotta alcuna specifica e necessaria motivazione trattandosi di un testimone che non solo risultava essere stato indicato nella lista testimoniale ammessa della difesa, ma anche soggetto che avrebbe dovuto essere escusso a conferma delle dichiarazioni de relato della nonna.
Proponeva ricorso per cassazione, avverso la sentenza di condanna, l’imputato censurando sotto molteplici profili la decisione della Corte di Appello. Non solo la ritenuta configurabilità del reato contestato e delle ritenute aggravanti, ma anche l’assenza di motivazione in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e la conseguenziale lesione del diritto alla prova contraria erano oggetto degli specifici ed analitici motivi di impugnazione.
La Cassazione ha accolto le doglianze difensive riconoscendo come nel caso di specie vi fosse la necessità, in considerazione degli elementi emersi nel contraddittorio, ad escutere la figlia minore per poter ottenere la reale e riscontrata ricostruzione degli accadimenti. Decisiva, sotto tale profilo, appariva per la Cassazione la prova omessa, in quanto, la concreta assunzione della testimonianza avrebbe potuto concretamente intaccare la trama della sentenza impugnata erta sulle sole dichiarazioni della p.o., e su quelle prive di conferma rese “de relato” dalla nonna.
I Giudici di legittimità hanno criticano, inoltre, la motivazione della Corte d’appello che, senza in alcun modo soffermarsi sull’importanza della testimonianza richiesta, si era limitata a rappresentare che erano stati escussi ben 7 testimoni della difesa. Da qui l’annullamento della sentenza essendo sempre necessario l’ approfondimento delle fonti di prova disponibili al fine di giungere ad una sentenza giusta.
Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.
E’ stato cultore della materia in Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.