Asse pubblico – privato per la legalità

Legge 231/01 e sgravi fiscali per le imprese

L’articolo di Repubblica di qualche giorno fa a firma del Consigliere di Stato dott. Roberto Garofoli, titolato “Un’alleanza per la legalità: l’asse pubblico-privato contro i reati economici” permette di svolgere una attenta riflessione sull’importante argomento trattato dal Magistrato.

Tale articolo ha come premessa il dibattito suscitato dalle drammatiche vicende di Genova dello scorso agosto che confermano quanto sia riduttivo ragionare in termini di sola sostenibilità economica nella disciplina e nella gestione dell’attività d’impresa, e quanto decisivo sia, invece, valorizzare e rilanciare il paradigma della cosiddetta responsabilità sociale di impresa.
Ne discende, quindi, un’enfatizzazione alla lotta alla criminalità economica attraverso gli strumenti disciplinati dal  D.L.vo n. 231 del 2001, che ha introdotto una responsabilità autonoma e diretta in capo alle imprese per l’omessa adozione delle cautele organizzative idonee ad impedire la commissione di reati da parte degli amministratori o dei dipendenti.

L’articolo è molto critico col fatto che nella pratica misure previste da questa legge non  vengono frequentemente applicate.

Se può considerarsi condivisibile l’idea che la lotta alla criminalità economica possa svolgersi  anche attraverso misure come quelle previste dalla l. nr. 231/01, al giudizio del dott. Garofoli può opporsi una prima obiezione, in quanto dall’esperienza giudiziaria emerge chiaramente che la scarsa applicazione della legge 231 deriva anche da un’incertezza applicativa degli strumenti di difesa messi a disposizione per le imprese colpite dalle predette misure, nello specifico relativamente  allo sviluppo e utilizzo dei cd. modelli organizzativi.

Per addentrarsi concretamente nel discorso va fatta, prima una breve disamina sull’argomento. Il modello cd. 231 ha la funzione di salvaguardare le società e gli enti stessi da eventuali reati commessi dai propri dipendenti o soggetti apicali. Mediante la sua adozione, la società che lo sottoscrive può chiedere legittimamente l’esclusione o la limitazione della propria responsabilità derivante da uno dei reati menzionati nella norma.

Il modello cd. 231 è un modello di organizzazione e gestione: non è obbligatorio, ma dà la possibilità per le imprese di ridurre il rischio di essere chiamate a rispondere per uno degli illeciti sanzionati dal la legge. Tutte le aziende esposte al rischio di contestazione delle violazioni citate nella norma possono sottoscrivere il modello 231, anche le piccole e medie imprese; in tal senso non ci sono limiti a riguardo.

Le tipologie di reato previste dal decreto 231/2001 sono molto varie e coprono, idealmente, tutte le aree di attività di una impresa:

  • reati contro la salute e la sicurezza sul lavoro
  • reati contro la Pubblica Amministrazione
  • reati societari
  • delitti contro la personalità individuale
  • delitti con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico
  • reati transnazionali (traffico di migranti, riciclaggio…)
  • illeciti ambientali
  • reati di criminalità informatica
  • manipolazioni del mercato e abuso di informazioni privilegiate

Il modello organizzativo di gestione e controllo, quindi, consiste in un insieme di elementi che compongono un vero e proprio sistema di gestione preventiva di rischi.

Ecco alcuni di questi elementi:

  • disposizioni organizzative
  • procedure
  • modulistica
  • codici comportamentali
  • software
  • commissioni

Non esiste un modello generico che vada bene per ogni tipo di azienda ma ognuno di esso viene stilato in base alle caratteristiche proprie di ogni azienda, alle attività che svolgono, ai processi produttivi e agli interlocutori con cui si  interagisce. 

L’effettiva realizzazione del modello 231 prevede 5 distinte fasi:

  1. mappatura delle aree a rischio di reato
  2. valutazione del sistema di controllo interno
  3. analisi comparativa e piani di miglioramento
  4. redazione del modello vero e proprio
  5. formazione e diffusione

 

1 – Mappatura delle aree a rischio di reato

In questa prima fase bisogna individuare le possibili modalità di attuazione degli illeciti. L’analisi dei rischi dev’essere rigorosamente svolta con una visione prettamente aziendale con la valutazione dei seguenti punti:

  • quali sono le attività a rischio di reato
  • quali sono le modalità di possibili commissioni di reato
  • la gravità/intensità del rischio e le misure di prevenzione in atto

E’ fondamentale definire con molta attenzione la mappa dei processi aziendali e delle relative attività.

 

2 – Valutazione del sistema di controllo interno

Questa seconda fase prevede la valutazione del sistema di controllo presente in azienda e, nello specifico:

  • poteri di firma e autorizzativi
  • regole comportamentali in vigore
  • tracciabilità delle operazioni svolte in azienda
  • separazione delle varie funzioni aziendali

 

3 – Analisi comparativa e piani di miglioramento

Questa è una sorta di fase “fulcro” in cui si cominciano a tirare le somme e a organizzare nel vero senso della parola. Si confrontano i controlli esistenti in merito alle attività considerate maggiormente rischiose e gli eventuali standard richiesti per tenere sotto controllo questo rischio.

 

4 – Redazione del modello

Dopo tutte le valutazioni arriva il momento di creare il modello effettivo che, solitamente, è suddiviso in 3 parti:

  • parte generale: codice etico, regolamento dell’Organismo di Vigilanza, sistema disciplinare
  • parte speciale: per ogni tipo di reato sono indicate la sintesi del reato e le modalità di commissione, le funzioni e i processi aziendali coinvolti, la procedura per la formazione e l’applicazione delle decisioni
  • documenti da allegare al modello

 

5 – Formazione e diffusione

A questo punto, a modello compilato, è il momento di rendere partecipe l’intera azienda in merito al modello di organizzazione, gestione e controllo realizzato.

 

L’Organo di Vigilanza

L’organo di vigilanza rappresenta il cuore del modello 231, può essere collegiale o monocratico con componenti interni e/o esterni.

Nelle piccole aziende il decreto 231/2001 prevede che possa coincidere con l’organo amministrativo.

Questo Organo è responsabile di:

  • proporre adattamenti e aggiornamenti del modello organizzativo
  • vigilare e controllare l’osservanza e l’attuazione del Modello da parte dei destinatari
  • gestire le informazioni ricevute in merito al modello
  • gestire e tenere sotto controllo le iniziative di formazione e informazione per la diffusione della conoscenza ma, soprattutto, della comprensione del modello stesso

 

I modelli organizzativi, quindi,  hanno l’effetto di distinguere le varie responsabilità dei singoli da quelle dell’ente e, sopra ogni cosa, attribuire a ciascun individuo o funzione la propria responsabilità differenziandola nettamente da quella degli altri e da quella dell’ente mediante l’attribuzione di compiti ben precisi.

Il modello organizzativo 231, come già specificato, non è uguale per tutti, perché varia in base all’ente che lo adotta e, in tal senso, quando si parla di costi di realizzazione, si parla di quantificare tali costi in base alla complessità e al livello di rischio dell’azienda.

Tale specificità, connotata dal fatto che non esistono veri e propri strumenti pubblicistici che certificano o agevolano lo sviluppo dei predetti modelli, evidenzia la necessità di un alto tecnicismo a seconda delle esigenze richieste.

Questo richiede, quindi, un iter molto dispendioso di risorse, non solo di tempo, ma soprattutto economico.

Orbene se davvero si deve parlare di asse pubblico-privato questo può concretizzarsi davvero laddove “il pubblico” predisponesse in concreto  determinate misure agevolatrici.

 Una proposta  potrebbe esser quella di stabilire degli sgravi fiscali per le spese sostenute per la predisposizione di tali modelli, anche perché è nel tutto interesse pubblico prevenire la commissione di determinati reati.

 Un’altra idea è quella di predisporre degli organi consultivi cui i privati possono rivolgersi al fine di avere precise direttive circa i modelli e le procedure da adottare.

Un’impostazione di tal guisa, che valorizza il principio di leale collaborazione tra pubblico e privato, è stata adottata in materia di appalti pubblici, presso le prefetture, non soltanto per prevenire la commissione di determinati reati, e ciò che ne consegue, ma altresì per non lasciare le imprese in quell’incertezza circa la misura da adottare laddove siano destinatarie di interdittive o atti equiparabili che le impediscono la partecipazioni a gare o di beneficiare di autorizzazioni e concessioni.

E, infatti, in diverse prefetture è stato  istituto l’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, operanti nei settori esposti maggiormente a rischio,  c.d. “White List“, previsto dalla Legge 6/11/2012, n. 190 e dal D.P.C.M. del 18 aprile 2013 pubblicato in G.U.il 15 luglio 2013 ed entrato in vigore il 14 agosto 2013.

L’iscrizione nella White-List tiene luogo della comunicazione e dell’informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipulazione, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è stata disposta.

Tale strumento, rispetto alla genericità dei citati modelli organizzativi consente alle società un’immediata percezione di quali misure adottare in via preventiva al fine di non risultare poi compromesse nello svolgimento delle loro attività e affari.

Formatosi alla Scuola del Maestro Avvocato Renato Orefice (a sua volta allievo di Giovanni Pansini), a lungo ai vertici dell’Ordine partenopeo e del Consiglio Nazionale Forense, l’Avv. Alfredo Sorge, iscritto a Cassa Forense dal 1983, primo classificato e Toga d’Onore agli esami di Avvocato nel 1985, ha preso parte a molti dei più importanti processi penali per reati contro la Pubblica Amministrazione e non solo che nel corso degli anni hanno segnato la storia giudiziaria in sede napoletana, campana e romana.

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Una pericolosa carenza

Un vuoto legislativo in caso di sentenza di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione in presenza di errori materiali o di fatto.

 

La sentenza della S.C. (la nr. 53415 della VI sezione penale in data 22 ottobre – 22 dicembre 2014, Pres. Ippolito, Rel. Bassi) permette una riflessione che evidenzia la necessità di studiare un rimedio legislativo finalizzato ad ovviare una pericoloso “vuoto” che appare esistere nel nostro codice di rito in tema di rimedi esperibili avverso decisioni (non ultimative, ma di annullamento con rinvio) della Corte di Cassazione frutto di vizi in procedendo.

Giova anzitutto ricordare brevemente la fattispecie concreta giudicata dalla S.C.: il P.M. proponeva ricorso diretto per cassazione avverso una sentenza assolutoria che fondava il suo giudizio sull’inutilizzabilità di dichiarazioni acquisite ex art. 512 c.p.p. di un teste-persona offesa che, a dire del giudice di primo grado, avrebbe dovuto essere sentito ab initio con l’assistenza del difensore ed avvertito della facoltà di non rispondere ai sensi dell’art. 63 c.p.p. in quanto indiziato di reato probatoriamente collegato, mentre, a dire del P.M. ricorrente, giacché il soggetto rivestiva la qualità di p.o., le di lui dichiarazioni erga alios erano comunque utilizzabili.

La II sezione penale della S.C., con sentenza del 22.05.2009, accoglieva il ricorso e annullava la sentenza assolutoria con rinvio stabilendo il principio di diritto secondo il quale erano utilizzabili le dichiarazioni del teste-p.o. come invocato dal P.M.: la S.C., però, procedeva senza avvisare il difensore di fiducia, che dunque rimaneva estraneo al giudizio (l’avviso dell’udienza era inviato a un iniziale difensore da tempo revocato).

Davanti alla Corte di Appello, giudice del rinvio, il difensore di fiducia, stavolta avvisato dell’udienza, preliminarmente eccepiva quanto sopra, chiedendo, in osservanza degli artt. 178 lettera c), 180, 185 c.p.p., l’annullamento della sentenza della Corte di Cassazione per violazione del diritto di difesa.

La Corte di Appello disattendeva l’eccezione del difensore e, in applicazione del principio di diritto statuito dalla S.C., giudicava utilizzabili le dichiarazioni erga alios della p.o., dichiarando gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti.

La Corte di Appello sulla questione processuale per cui si discute osservava che a norma del quarto comma dell’art. 627 c.p.p. (“giudizio di rinvio dopo annullamento”) le eventuali nullità, anche assolute, verificatesi nel corso delle precedenti fasi del procedimento non possono essere rilevate nel corso del giudizio di rinvio, trovando applicazione in via analogica il divieto previsto dall’art. 627, comma quarto, c.p.p., essendo la sentenza resa dalla Corte di Cassazione impugnabile solo con il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto di cui all’art. 625 bis c.p.p.. Pertanto, pur rilevando che effettivamente risultava avvisato per il giudizio di Cassazione solo l’avvocato revocato e non il difensore di fiducia, concludeva affermando che la suddetta nullità non può essere rilevata in sede di giudizio di rinvio.

Gli imputati ricorrevano per cassazione proponendo quale principale motivo procedurale la questione sopra esposta: in particolare sul punto deducevano la nullità della sentenza emessa dalla Corte di Appello ex artt.178 segg.-185 e 606 lett. b), c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità concernenti: la citazione degli imputati davanti al giudizio della Cassazione, laddove venne dato avviso al difensore revocato e non già al difensore di fiducia, patologia da cui, ad avviso dei ricorrenti, conseguiva la nullità del giudizio e della sentenza della S.C. del 22.5.09, nullità specificamente e preliminarmente dedotta all’udienza davanti alla Corte di Appello, e la nullità di tutti gli atti consecutivi e dunque del giudizio di rinvio e della gravata sentenza.

La difesa, in sintesi, sosteneva che una lettura costituzionalmente orientata della norma permettesse di affermare che la preclusione di cui all’art. 627 comma 4 si pone per sua natura come eccezione alla regola generale in tema di rilevabilità della cause di invalidità processuali e, quindi, come tale, insuscettibile di applicazione analogica, peraltro in malam partem, quale risulta l’esito interpretativo adottato dalla Corte territoriale.

D’altra parte, la difesa adduceva di non avere altri rimedi per far valere l’omesso avviso al difensore di fiducia del giudizio davanti alla S.C., per far cioè rilevare la grave e sostanziale lesione del diritto di difesa in quanto, per espresso dettato normativo e per costante giurisprudenza, il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625 bis c.p.p. è ammissibile soltanto a favore del condannato e dunque non afferisce alla fattispecie concreta in cui il provvedimento inaudita altera parte della Corte di Cassazione non è stato un verdetto ultimativo bensì una sentenza di annullamento con rinvio (di un precedente verdetto assolutorio).

In via gradata, la difesa sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 4, c.p.p. – per contrasto quantomeno con gli artt. 3 (tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge e dunque a situazioni processuali uguali il sistema deve assicurare uguale rimedio), 24 (la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dunque anche davanti al giudice della legittimità) e 111 (in tema di giusto processo) della nostra Costituzione – nella parte in cui sarebbe impossibile al giudice del rinvio rilevare una nullità di ordine generale posta in essere dalla Corte di Cassazione.

***

Con la sentenza citata in apertura del presente lavoro la VI sezione della S.C. (che, va detto, ha comunque annullato la sentenza, accogliendo altro motivo di ricorso della difesa su un diverso profilo di inutilizzabilità delle dichiarazioni de quibus ex art. 512 c.p.p. ovvero la non imprevedibilità della sopravvenuta impossibilità di ripetizione) ha disatteso le doglianze della difesa affermando che la regula iuris di cui al chiaro disposto di cui all’art. 627 comma 4 del codice di rito “…fa sì che non siano deducibili vizi che siano in corso nei precedenti giudizi neanche allorché essi riguardino il giudizio celebrato innanzi alla Suprema Corte, come appunto nel caso in oggetto”.

La Corte di Cassazione ha altresì stabilito che non è possibile una lettura della norma nel senso di ritenere ammissibile la deduzione nel giudizio di rinvio dei vizi occorsi nella fase celebrata innanzi alla Corte di Cassazione affermando che “il dettato normativo – avuto riguardo al senso fatto palese dal significato proprio delle parole usate secondo la connessione di esse (in ossequio al disposto di cui all’art. 12 delle Preleggi) -, è netto nel precludere la deduzione di qualunque nullità o inammissibilità verificatasi nei precedenti giudizi, con ciò segnando un limite invalicabile fra il giudizio di rinvio e tutte le fasi processuali ad esso precedenti. D’altra parte, la preclusione scolpita nell’art. 627, comma 4, costituisce naturale corollario della inoppugnabilità delle sentenze della Corte di Cassazione che – salvo non contengano errori materiali o di fatto emendabili con il mezzo straordinario di cui all’art. 625 bis c.p.p. – coprono il dedotto ed il deducibile e, quindi, anche l’implicita decisione negativa in ordine all’esistenza di eventuali cause di nullità, di inutilizzabilità o di inammissibilità”.

La S.C. ha articolato, poi, la sua motivazione richiamando la decisione della Corte Costituzionale (la nr. 501 del 17.11.2000) che aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 627 comma 4 c.p.p. osservando che “la norma denunciata risulta pienamente rispondente all’obiettivo di evitare la perpetuazione dei giudizi che costituisce un interesse fondamentale dell’ordinamento e che risponde alla logica che ispira il sistema delle impugnazioni ordinarie rispetto alla quale è incompatibile un controllo del giudice del rinvio circa la sussistenza o meno di vizi in procedendo nella fase del giudizio svoltasi dinanzi alla Corte di Cassazione”. Ed invero, per la Corte delle Leggi “è connaturale al sistema delle impugnazioni ordinarie che vi sia una pronuncia terminale – identificabile positivamente in quella della Cassazione per il ruolo di supremo giudice di legittimità ad esso affidato dalla stessa Costituzione (art. 3, settimo comma) – la quale definisca, nei limiti del giudicato, ogni questione dedotta o deducibile al fine di dare certezza alle situazioni giuridiche controverse e che, quindi, non sia suscettibile di ulteriore sindacato ad opera di un giudice diverso”.

La S.C. ha inoltre richiamato una precedente decisione della Corte Costituzionale (la nr. 224 del 26 giugno 1996) che aveva giudicato infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 384 c.p.c., in quanto i vizi in procedendo (non emendabili attraverso lo strumento della revocazione ex art. 391 bis c.p.c.) posti in essere nel procedimento davanti al giudice di legittimità non possono essere rilevati e rimossi dal giudice del rinvio in assenza della previsione “di idoneo mezzo straordinario di impugnazione che rientra nelle attribuzioni discrezionali del legislatore”.

La S..C., infine, riteneva non vi fosse spazio per sollevare la questione, pure invocata, in via subordinata, dalla difesa dei ricorrenti, di legittimità costituzionale dell’art. 624 comma 4 giacché in ogni caso “la Corte di Appello, ammessa l’eccezione e rilevatane la fondatezza, non potrebbe mai addivenire ad una pronuncia di annullamento della sentenza della Corte di Cassazione con rinvio avanti alla stessa, non essendo tale iter processuale percorribile nell’ambito del nostro ordinamento, giusta il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e l’impossibilità di inquadrare un giudizio di gravame siffatto negli schemi processuali tipici”.

***

La sentenza della S.C., dunque, permette di evidenziare la sussistenza di un vulnus, di una carenza codicistica che va emendata attraverso una riforma legislativa che a questo punto urge proprio a seguito della interpretazione fatta dalla S.C..

L’urgenza della riforma è dettata proprio dal contenuto della decisione della S.C. che ha respinto la proposta, avanzata dalla difesa ricorrente, di una lettura costituzionalmente orientata della norma in parola (art. 627 comma 4), lettura che pure sembrava possibile in quanto il testo codicistico non si riferisce alle nullità verificatesi davanti alla Corte di Cassazione e fa solo riferimento alla impossibilità nel giudizio di rinvio di rilevare nullità, anche assolute, verificatesi nel corso delle indagini preliminari o nei precedenti giudizi (il legislatore ovviamente esamina la fattispecie fisiologica delle nullità poste in essere nei gradi di merito che avevano preceduto il giudizio della cassazione).

D’altra parte, anche e soprattutto a fronte dei casi dubbi ed incerti, deve sempre esservi una lettura costituzionalmente orientata del diritto in generale e del codice di rito nella fattispecie concreta, lettura che permetta alla parte che abbia subito una ingiusta disavventura processuale di chiedere ad altro giudice la eliminazione e la riparazione dell’errore alla base di quella disavventura.

Diversamente, ci troveremmo di fronte ad un sistema che renderebbe impossibile l’eliminazione del vizio per cui si discute e, dunque, ad un sistema in parte qua palesemente incostituzionale: un sistema processuale non può mai essere imperfetto, non può cioè non prevedere rimedi ad un errore, dalle gravi conseguenze peraltro, come la fattispecie concreta ben dimostra.

Ed allora, alla luce della decisione della S.C., che ha pure ritenuto di non sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 4, c.p.p., appare ineludibile (ed urgente) una novella legislativa che completi la riforma introdotta al codice di rito con l’art. 6, comma 6, della legge nr. 128 del 26 marzo 2001 (che innovò il codice con l’inserimento della norma ex art. 625 bis), novella che estenda la possibilità di richiedere la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione non soltanto in favore del condannato ma anche in favore di tutti gli interessati ovvero anche nel caso di decisione non ultimativa ad opera della S.C. (all’uopo potrebbe essere sufficiente sostituire alla parola “del condannato” contenuta nei primi due commi dell’art. 625 bis c.p.p. il termine “di tutti gli interessati”, modificando anche il comma 2 prevedendosi che il termine decorra “dal momento in cui si è avuto conoscenza del deposito del provvedimento”).

Formatosi alla Scuola del Maestro Avvocato Renato Orefice (a sua volta allievo di Giovanni Pansini), a lungo ai vertici dell’Ordine partenopeo e del Consiglio Nazionale Forense, l’Avv. Alfredo Sorge, iscritto a Cassa Forense dal 1983, primo classificato e Toga d’Onore agli esami di Avvocato nel 1985, ha preso parte a molti dei più importanti processi penali per reati contro la Pubblica Amministrazione e non solo che nel corso degli anni hanno segnato la storia giudiziaria in sede napoletana, campana e romana.

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