Violenze endofamiliari

La violenza domestica è fisica, psicologica e sessuale. Quali misure per la tutela del minore e della donna?

Decliniamo gli ambiti di espressione e di collocazione dei comportamenti che riconducono le persone nella dinamica della violenza domestica, premettendo la definizione che ne fa l’organizzazione Mondiale della Sanità , secondo la quale la violenza domestica è ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale, che riguarda tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo.

Inserendo i dati successivamente illustrati nella giusta cornice giuridica, possiamo individuare il soggetto agente, la fattispecie parentale ed ancora la conoscenza diretta delle conseguenze cui detti comportamenti mirano.

Come noto, a partire dalla Legge n. 154/2001 denominata “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari“, è stata introdotta la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare prevista dall’art. 282 bis c.p.p., misura che va ad ampliare il ventaglio delle misure cautelari e che, di recente, è stata prevista anche con una morfologia di misura precautelare (art. 384 bis c.p.p.), vale a dire di allontanamento d’urgenza

Prima ancora dell’affermazione del nuovo concetto di famiglia, e quindi della pluralità delle forme delle stesse non necessariamente stigmatizzate all’interno di una famiglia-tipo, l’introduzione nel nostro codice degli ordini di protezione all’art. 342-bis cc. andava ad individuare il “disturbatore” in chiunque limitasse la libertà dell’altra persona quale diritto fondamentale, quindi anche l’estraneo, quindi anche il convivente, quindi anche il familiare in ordine diverso di relazione, preferendo l’elemento della convivenza su ogni altro. I presupposti  quindi sono :

la convivenza ed una  condotta gravemente pregiudizievole all’integrità fisica, morale e/o alla  liberta’ personale.

 L’applicazione delle misure di protezione presuppone che la vittima ed il soggetto cui viene addebitato il comportamento violento vivano all’interno della medesima casa, in quanto l’art. 5 della L. 154/2001 fa esclusivo riferimento al nucleo costituito dai familiari conviventi (Cfr. Tribunale di Rieti, sentenza 6/03/2006, in Fam. Pers. Succ., 2007, 7, 606. Conformi, sul punto, Tribunale di Napoli, sentenza 1/02/2002, in Famiglia e Diritto, 2002, 5, 504; Tribunale di Napoli, sentenza 18/12/2002, in Gius., 2003, 2, 230)

Per la verità in talune ipotesi come lo stalking e come lo stesso 342 bis secondo alcune pronunce di merito i provvedimenti detti possono intervenire e concretizzarsi anche a convivenza interrotta perché il bene protetto è appunto la libertà di espressione della persona. (Trib. Napoli 19/12/2007 – Trib. Bologna 22/03/05).

Il concetto di libertà di espressione della persona si è radicato nella giurisprudenza di legittimità e di merito attraverso una ricostruzione progressiva dei diritti costituzionalmente garantiti laddove lentamente e attraverso riforme significative che hanno avuto il coraggio di leggere i mutamenti antropologici, il diritto della famiglia si è trasformato in diritto delle persone componenti la famiglia, nel senso che il bene famiglia non può più prevalere sull’interesse e sulle priorità dei singoli componenti la stessa.

Un sentenza bellissima del 2001 della Cassazione ci ricorda che la famiglia non è più un’istituzione verticistica, ma “un luogo di fioritura delle singole originalità”. In quest’ottica vanno rivisitati i diritti e i doveri coniugali e/o dei conviventi,  i diritti e doveri dei genitori verso i figli e i diritti e i doveri dei figli verso i genitori. Il benessere è quindi soddisfatto soltanto dalla capacità di favorire un processo di crescita e di autoresponsabilità di ciascuno.

Tutto ciò che interferisce con questo quadro normativo o con questi comportamenti è VIOLENZA.

Violenza è non amare, non curare, non assistere, non sostenere economicamente, non rispettare.

Violenza è umiliare, sottomettere, confondere, abdicando ai propri ruoli di compagni, genitori e quant’altro.

La violenza è una “comunicazione”. E la complessita’ del fenomeno e’ data proprio dalla disfunzionalita’ della relazione che ne e’ alla base.

L’effetto è quello di controllare emotivamente a volte anche fisicamente una persona che fa parte del nucleo familiare.

Le condizioni di chi subisce violenza sono tanto più gravi quanto più la violenza si protrae nel tempo o quanto piu esiste un legame consanguineo tra l’aggressore e la vittima.

Gli indicatori che si riscontrano nella persona vittima di violenza sono la perdita dell’identità e dell’autostima correlati a minacce, isolamento, perdita della rete amicale (il famoso vuoto attorno), silenzio, indifferenza, non soddisfare i bisogni essenziali, costringere alla dipendenza economica e/o all’assunzione di impegni finanziari, vietare o impedire il lavoro o la formazione, atteggiamenti che rendono possibile una sottomissione ad un modello di vita non profondamente condiviso né scelto e inducono la persona a subire conseguenze devastanti dall’interruzione violenta del proprio progetto di vita che viene praticamente annullato.

Accanto a queste manifestazioni ci sono poi gli episodi e/o i comportamenti reiterati a sfondo sessuale imposti contro la volontà del partner che comportano ogni forma di denigrazione sessuale sino allo stupro. Quando questi comportamenti si verificano all’interno di un nucleo convivente con figli minori si parla della “violenza assistita” che e’ un vero e proprio abuso.

Nel 1978 il Consiglio d’Europa  fornisce una definizione sostenendo che:

“l’abuso è rappresentato dagli atti e le carenze che turbano gravemente il bambino, che attengono alla sua incolumità corporea, al suo sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cure del bambino”.

Il genitore che si trova nelle condizioni di essere a sua volta maltrattato e/o in una condizione costante di infelicità e/o di incapacità a superare lo stallo conseguente all’”attacco” è un genitore che inevitabilmente coinvolge il bambino in situazioni assolutamente destabilizzanti perché diventa incomprensibile e non decodificabile il pati da un lato e il facere dall’altro. E’ ovvio che il danno del minore è un danno più forte perché interferisce con l’equilibrio psico-fisico e con la crescita serena.

Questi descritti sono “fatti” che incidono sulle relazioni familiari e sulle decisioni del giudice civile non necessariamente riconducibili ad ipotesi di REATO, gestiti il più delle volte dall’intervento di urgenza dei carabinieri, dei servizi o anche dai Centri Antiviolenza CAV.

 

Esiste pero un ALTRO TIPO di violenza meno eclatante, ma forse ancor più persistente e dannosa ed è quella che si può svolgere nel processo della separazione di genitori e/o di regolamentazione dell’accesso dell’altro genitore.

Le ipotesi sono quelle del genitore alienato, quello del genitore che abdica al proprio ruolo per un conflitto con l’altro, non esercitando a soddisfazione assistenza morale e materiale, non visitando adeguatamente il figlio, non trattenendolo presso di se, non avendo verso lo stesso un atteggiamento empatico e di lettura dei suoi bisogni.

Sembrano situazioni apparentemente opposte, ma in realtà producono lo stesso effetto e hanno la stessa matrice di violenza psicologica nella misura in cui, mettendo al centro il proprio conflitto e le proprie individualità, i genitori  isolano il figlio facendo in modo che lo stesso non possa considerarli punti di riferimento, ma in molti casi favorendo un inversione di ruoli (i figli protettivi, sostitutivi, consolatori che non hanno spazio per la loro crescita e per i loro percorsi).

I provvedimenti dall’ammonimento alla sanzione ed alle limitazioni della responsabilità genitoriale di cui all’art. 709 ter rispondono all’esigenza di “dissuadere” dall’ulteriore verificarsi della condotta pregiudizievole. In quest’ottica l’ulteriore applicazione delle sanzioni di cui al 614 c.c.

Tale norma è stata inserita dalla legge 69/2009 che ha previsto uno strumento di coercizione indiretta al fine di incentivare l’adempimento spontaneo degli obblighi che non risultano facilmente coercibili. La norma, infatti, prevede in capo al soggetto inadempiente l’obbligo di pagare una somma di denaro, al fine di indurlo a realizzare la sua obbligazione.

Il giudice, previa richiesta della parte, unitamente al provvedimento di condanna ad un fare o a un non facere, fissa una somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, al fine di esercitare una pressione psicologica sulla parte obbligata in modo tale da indurlo all’adempimento spontaneo.

Nel determinare la somma dovuta per ogni violazione, il giudice dovrà tenere conto di alcuni parametri come il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o quello prevedibile, le condizioni personali e patrimoniali delle parti, accanto ad ogni altra circostanza utile.

La giurisprudenza di merito piu’ recente ha ritenuto applicabile tale norma in materia di diritto di famiglia “con la precisazione che la tutela del superiore interesse del minore cui l’obbligo di cooperazione genitoriale e’ sotteso consente a differenza del procedimento esecutivo in cui e’ regolamentata l’attuazione di un diritto di credito per sua natura disponibile, l’applicabilita’ d’ufficio della sanzione volta sotto forma di dissuasione indiretta alla cessazione del protrarsi dell’inadempimento degli obblighi familiari che attesa la loro natura personale e indisponibile non sono di per se’ suscettibili di esecuzione diretta” In questi termini  Tribunale Milano sez. IX sent. 7/1/2018; Tribunale di Napoli Nord sez. 1 sent. 26-7-2017 Tribunale Roma sez. 1 sent. 27/06/2014 – Tribunale Napoli Nord  ord. 15/3/2018 –

Associare quindi la tutela delle donne e del minore all’interno della famiglia sembra essere la risposta più efficace ad un fenomeno purtroppo pericolosamente in crescita, iniziando dai bambini e quindi da una capacità educativa particolare.

Secondo l’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo l’educazione, oltre ad essere un diritto fondamentale è decisiva per il riconoscimento dei diritti civili, politici, economici, sociali, culturali e di solidarietà. E’ importante quindi, per educare ai diritti umani, rispettare questi diritti nella vita quotidiana.

La famiglia nelle diverse forme in cui si presenta è il contesto principale dei processi di socializzazione e di trasmissione culturale tra le generazioni. Da essa deriva qualsiasi forma di riproduzione culturale e le sono attribuite funzioni educative che contribuiscono in modo decisivo al processo di formazione della persona. La famiglia è il primo agente di controllo sociale che dovrebbe restringere le alternative di comportamento a quelle socialmente approvate.

Si parla di diritti RELAZIONALI perché attraverso l’educazione i minori possano entrare in contatto nel pieno rispetto con l’esterno da se e considerarlo parte della propria vita relazionale, declinando in quest’ottica la possibilità di contenere l’amore per il prossimo sia come individuo, sia nei contesti sociali in cui si esprime, affinando l’accoglienza, i comportamenti antidiscriminatori, il rispetto del diverso, perché attraverso la relazione e la partecipazione attiva possa allargare il proprio mondo interno.

L’ incidenza della capacità educativa di un genitore è non solo d’interesse pubblico per la formazione del nuovo cittadino, ma soprattutto deve tendere ad interrompere quei cicli disperati in cui un minore, soggetto anche indiretto di violenza, possa poi da adulto esprimere le stesse modalità danneggiando irreparabilmente la propria vita e perseguendo inesorabilmente un modello dal quale non sia stato aiutato ad affrancarsi.

Quindi il primo mezzo di tutela è l’EDUCAZIONE al rispetto di se’ e degli altri a riconoscere l’amore positivo attraverso l’esperienza di cura quando tutto questo per fatti assolutamente improvvisi, ma anche contenuti all’interno di uno spazio ben definito (quale quello della separazione) viene meno e’ compito delle istituzioni, dei servizi e di quant’0altri si impattino con il nucleo disagiato ad intervenire tempestivamente e con mezzi adeguati affinché le relazioni si curino e si riparino. L’intervento infatti in primis deve essere salvifico delle relazioni familiari, protettivo per conservare la propria identità e le proprie origini. Soltanto in un momento successivo, e all’esito di verifiche purtroppo non positive, si può pensare di interrompere la relazione genitoriale per dare al minore un’altra possibilità di crescita.

Il processo che vede coinvolto questo nucleo familiare,  NUCLEI DISAGIATI MA NON COLPEVOLI DI REATI, deve essere necessariamente sinergico con i servizi ed efficace nei provvedimenti e nei tempi perché il radicarsi di una condotta negligente e trascurante renderebbe vanifico/vano ogni provvedimento finale.

I mezzi di tutela nelle varie declinazioni (ordine di protezione, allontanamento del minore, percorsi di sostegno alla genitorialità, potere e discrezione del Centro antiviolenza) in uno alla giurisprudenza di legittimità e di merito che ne hanno sostenuto l’efficacia e ne hanno letto i limiti devono essere letti necessariamente in contemporanea all’esperienza sul territorio, ai dati che veramente emergono dai Tribunali, all’incidenza dei provvedimenti sul recupero e/o allo smarrimento esistenziale dei minori protagonisti di storie di dolore familiare.

Sarebbe interessante approfondire l’efficacia degli strumenti che il sistema ci offre per interrogarci e capire se all’interno di un mutato sistema di interazione di valori e di conoscenze essi siano ancora validi o se necessitano di una rilettura – pensavo ad esempio all’approvazione, ancora ritardata, dei LIVEAS come strumento di tutela del cittadino, alle linee guida approvate dall’Ordine Nazionale degli assistenti sociali e dalle Procure dei Tribunali per i Minori sull’allontanamento familiare e sulla necessità di informazione del Minore, ancora alla disciplina dei collocamenti in Casa Famiglia e ai criteri di individuazione delle stesse allorché un minore coinvolto in un conflitto familiare “viene messo in protezione” e per questo sradicato dal suo contesto amicale-relazionale e scolastico e ospitato in territori lontanissimi, costretto a cambiare tutte le sue abitudini di vita, ANCHE QUELLE SANE, anche quando il collocamento è solo temporaneo, sostenuto esclusivamente dall’organizzazione interna della struttura.

Accettare che qualsiasi provvedimento, anche quello cautelare, incidera’ sulla vita e sullo sviluppo del minore , orientera’ certamente ad evitare ricadute negative in termini dell’altro emergente fenomeno del maltrattamento istituzionale.

Nata a Napoli il 24/08/55 si e’ laureata in giurisprudenza nel 1982, presso l’Universita’ di Napoli,  discutendo una tesi finale sperimentale sull’imputabilita’ dei tossicodipendenti alla luce della L. basaglia.
Segue il corso biennale del CRF di animatore di comunita’ psichiatrica discutendo la tesi finale Il nuovo concetto di salute mentale.
Segue master Psicologia della comunicazione
Segue il corso seminariale biennale Mediazione familiare, conflittualita’ di coppia e responsabilita’ genitoriale presso l’Universita’ degli Studi di Napoli, discutendo la tesi finale La mediazione familiare, storia e modalita’ di approccio (2003)
Segue il master in diritto di famiglia presso il CEIDA in Roma e discute la tesi finale La genitorialita’ giuridica e le liberta’ fondamentali(2005).

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Mantenimento e spese straordinarie per i figli: le Linee Guida

Le Linee Guida del CNF e della Corte di Appello di Milano in materia di spese straordinarie. La fine di un conflitto?

Con la riforma del titolo IX capi I e II del primo libro del Codice Civile, il legislatore italiano è intervenuto nel modificare la materia dei rapporti di filiazione cancellando la figura del genitore affidatario in via esclusiva ed introducendo il principio della natura “meramente perequativa” dell’assegno di mantenimento, allo scopo di garantire la c.d. bigenitorialità posta a base dell’affidamento condiviso. Un aspetto che da sempre è stata foriero di discussioni giurisprudenziali e motivo di conflitto tra i coniugi è la questione relativa alle spese di mantenimento ordinario e straordinario, riguardo alla natura delle stesse ed alle modalità dell’esborso.

Ed è all’interno di tale diatriba che si inserisce il documento elaborato da CNF, così come quello della Corte d’Appello di Milano, con i quali si è cercato di fare chiarezza e di tracciare delle linee guida, appunto, per gli operatori del diritto coinvolti nelle vicende che seguono la crisi di un rapporto familiare.

Punto di riferimento imprescindibile sono gli  artt. 316 bis e 337 ter del Codice Civile che pongono come prioritario il perseguimento del benessere della prole minore o non autosufficiente.

Dunque, come noto, oltre alle spese ordinarie che attengono alla gestione quotidiana gestione dei compiti di cura, educazione e istruzione, va sempre affiancata la previsione di un’equa ripartizione delle spese straordinarie.

Queste ultime, solitamente, presuppongono un esborso più ingente rispetto all’assegno di mantenimento omnicomprensivo delle spese ordinarie e dunque, nel momento il cui il giudice ne determina la misura della contribuzione, è tenuto ad applicare il principio della natura perequativa dell’assegno di mantenimento ex art. 337 ter, IV comma c.c. in forza del quale ciascun genitore partecipi al mantenimento dei figli ed i genitori in modo proporzionale alle proprie risorse.

In merito all’obbligo di contribuzione il documento della Corte d’Appello di Milano assume una posizione più esplicita, affermando “il potere – dovere del genitore di cura degli interessi del figlio, contribuendo economicamente alla sua protezione, educazione ed istruzione, in continuità con quanto già accadeva prima della crisi familiare”.

Dunque, la contribuzione alle spese per le esigenze ordinarie della vita del minore (vitto giornaliero, mensa scolastico, canone di locazione, utenze e consumi, abbigliamento ordinario, compresi cambi di stagione, per la cancelleria scolastica ricorrenti nell’anno e l’acquisto di medicinali) si realizza mediante il versamento dell’assegno di mantenimento al genitore collocatario.

Mentre i versamenti aggiuntivi per le spese straordinarie si distinguono in diverse tipologie a seconda che siano “obbligatorie” – ossia quelle per le quali non è richiesta una previa concertazione – e quelle che sono subordinate al consenso di entrambi i genitori.

In via generale, nella giurisprudenza di legittimità si è consolidato il principio per cui non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese ordinarie, trattandosi di decisione di maggiore interesse per il figlio. A ciò consegue, pertanto, che sussiste a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.

Nelle ipotesi di mancata concertazione preventiva o successivo rifiuto al rimborso per la propria parte, spetta al giudice verificare se la spesa è stata effettuata nell’interesse del figlio ed alla successiva commisurazione rispetto alla utilità e sostenibilità della stessa in relazione alle condizioni economiche dei genitori.

L’importanza delle Linee Guida sta nell’aver definito preventivamente la natura delle spese extra sulla scorta di quanto canonizzato dalla giurisprudenza.

La Corte d’Appello di Milano, inoltre, individua un principio più generale per cui le spese extra sono tutte quelle che presentano almeno uno dei tre requisiti: voluttuarie (dato funzionale), occasionali (dato temporale) o gravose (dato quantitativo). Ulteriore requisito è che siano debitamente documentate.

A questo punto, si distinguono:

  • Le spese extra assegno obbligatorie, per le quali non è richiesta la previa concertazione e vengono individuate in: libri scolastici, spese sanitarie urgenti, spese per interventi chirurgici indifferibili sia presso strutture pubbliche che private, acquisto di farmaci prescritti ad eccezione di quelli da banco, spese ortodontiche, oculistiche e sanitarie effettuate tramite il SSN in difetto di accordo sulla terapia con specialista privato, spese protesistiche, spese di bollo ed assicurazione per il mezzo di trasporto quando acquistato con l’accordo di entrambi i genitori.
  • Le spese extra assegno, subordinate al consenso di entrambi i genitori: 1) scolastiche: iscrizioni e rette di scuole private, iscrizioni, spese ed eventuali spese alloggiative, ove fuori sede, di università pubbliche e private, ripetizioni, frequenza del conservatorio o scuole formative, spese per la preparazione di esami di abilitazione o alla preparazione di concorsi, viaggi di istruzione organizzati dalla scuola, soggiorni all’estero per motivi di studio, corsi di apprendimento per le lingue straniere (…); 2) spese di natura ludica o parascolastica: centri estivi, corsi di informatica, viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente senza i genitori, spese di acquisto e manutenzione straordinaria di mezzi di trasporto, conseguimento della patente presso autoscuola private; 3) spese sportive: attività sportiva comprensiva dell’attrezzatura e di quanto necessario per lo svolgimento dell’eventuale attività agonistica; 4) spese medico sanitarie: spese per interventi chirurgici, spese odontoiatriche, oculistiche e sanitarie non effettuate tramite SSN, spese mediche e di degenza per interventi presso strutture pubbliche o private convenzionate, esami diagnostici, analisi cliniche, visite specialistiche, cicli di psicoterapia e logopedia; 5) organizzazione di ricevimenti, celebrazione e festeggiamenti dedicati ai figli.

Il CNF ha, infine, stabilito che per le spese straordinarie per le quali è prevista la concertazione, il genitore manifesta la propria volontà con formale richiesta scritta avanzata all’altro (a mezzo sms, email, fax, pec, ecc…) che, a sua volta, dovrà manifestare un motivato dissenso, sempre per iscritto, entro venti giorni dalla data di ricevimento della richiesta in quanto, in caso di mancata risposta, il silenzio viene considerato come consenso. Per ottenere il rimborso della quota il genitore che ha anticipato la spesa è tenuto ad esibire e consegnare idonea documentazione entro un mese dalle stesse mentre il genitore che è tenuto al rimborso deve provvedere entro un mese dalla richiesta.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Privilegio dei crediti degli agenti costituiti in forma societaria in sede concorsuale

Agenti, sì alla concessione del credito in privilegio alle società di persone

 

Le SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza depositata il 16 dicembre 2013, hanno risolto un contrasto giurisprudenziale su una materia molto sentita dagli agenti.

Le pronunzie anche del giudice di legittimità, difatti, erano sempre state ondivaghe tra il doversi concedere il privilegio o meno ai crediti degli agenti costituiti in forma societaria per le provvigioni dell’ultimo anno del rapporto e per le indennità di fine rapporto.

L’articolo 2751 bis del c.c., difatti, al punto 3, prevede che detti crediti degli agenti beneficiano, nelle procedure concorsuali delle mandanti, quindi in ipotesi di fallimento o di concordato delle stesse, del privilegio, con preferenza quindi rispetto al soddisfacimento dei crediti chirografari.
Nonostante la nota sentenza della Corte Costituzionale del 2000 già di tenore negativo per gli agenti costituiti in forma di società di capitale e cioè s.r.l. e S.p.A. il giudice, ripetesi, anche quello di legittimità, alcune volte aveva affermato il principio che non bisognasse fare distinzione tra agente costituito in forma di ditta individuale da un lato e agente costituito in forma societaria dall’altro.

Con la pronunzia delle SS.UU. accennata sopra, l’assestamento è definitivo perlomeno su un lungo periodo, sino a eventuale nuovo indirizzo. Esse hanno statuito che ai crediti degli agenti costituiti in forma di società di capitale non va riconosciuto il privilegio, bensì solo l’inserimento nel ceto chirografario nelle procedure concorsuali delle loro preponenti.

Hanno contestualmente statuito che ai crediti delle agenzie costituite in forma di società di persone, va, invece, riconosciuto il privilegio in sede fallimentare.

L’esigenza di rappresentare tanto al fine di far porre attenzione a tutti gli agenti al riguardo invitandoli a considerare questo aspetto, di non poco conto, specie visti i tempi che viviamo laddove sono sempre di più le mandanti che arrivano allo stato di dissesto.

E’ appena il caso di ricordare come solo per i crediti privilegiati spesso vi sono speranze di soddisfazione totale o parziale, mentre per i crediti ammessi in chirografo le speranze sono pressoché nulle o scarse se non limitatamente, in casi fortunati, ad una soddisfazione parzialissima.
Nel costituire o modificare quindi la forma societaria con cui si opera, gli agenti costituiti in forma di società di capitale valutino con attenzione anche questa non trascurabile evenienza e considerino, assieme ovviamente a tutte le altre emergenze peculiari della propria attività, il caso di operare tramite altre forme societarie, come ad esempio quello della s.a.s., semmai trasformando la loro s.r.l. per non perdere il diritto alla eventuale indennità di fine rapporto maturata.

Pur non entrando troppo in tecnicismi della pronuncia delle SS.UU., viene qui sintetizzata la motivazione per far comprendere come la Cassazione è arrivata alla decisione.

Già da tempo la Cassaz. aveva esattamente individuato la ratio dell’art. 2751 bis, a seguito del suo inserimento nel codice ad opera della L. n. 426 del 1975, art. 2.

Infatti, ad esempio, la sentenza n° 8979 del 1993, aveva affermato che i limiti previsti dall’art. 2751 bis, anche alla luce dei lavori preparatori della citata L. n. 426 del 1975, nonché del raffronto con le altre ipotesi contemplate dai nn. 1-4 (crediti del lavoratore subordinato od autonomo, dell’agente, del coltivatore, ecc.), evidenziavano che obiettivo della norma era quello di assegnare un trattamento preferenziale ai diritti che avevano natura di compensi di attività sostanzialmente lavorative, in quanto frutto prevalentemente dell’esplicazione delle risorse fisiche od intellettuali di una persona, od anche di più persone, inserite e coordinate in una determinata struttura organizzativa, cioè quella societaria (cfr. Cass. n° 5640 del 21/10/1980).

Comparando tale motivazione con quella della Corte  Cost.le nella sentenza n. 1/2000 (che aveva denegato il privilegio alle società di capitali sia pure in fattispecie diverse dall’agenzia), sembrava però difficile contestare che la ratio dell’art. 2751 bis c.c. fosse comunque quella di riconoscere il privilegio ai crediti derivanti da prestazioni di attività lavorative subordinate o autonome, destinate direttamente al sostentamento del lavoratore.

Questa linea interpretativa, fondata sulla così individuata ratio della novella del 1975 (che richiama anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 2000), è stata sostanzialmente seguita da molte pronunce successive alla sentenza costituzionale, sia pure anche emesse in fattispecie diverse dall’agenzia, nelle quali, conformemente a detta ratio, i criteri per il riconoscimento della prelazione ai crediti considerati da tale articolo discendono sempre da applicazioni specifiche del principio costituzionale di tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”, di cui all’art. 35 Cost , che – com’è noto – si riferisce non soltanto al lavoro subordinato, tipico od atipico, ma anche a quello parasubordinato ed a quello non subordinato (professionisti, artigiani, componenti di imprese familiari, soci di cooperative, ecc.), come pure, nei casi dubbi, il criterio della “prevalenza” o della “preminenza”  del fattore lavoro rispetto al capitale.

Per contro – quantomeno in linea generale -, nelle società di capitali, le somme che rappresentano il corrispettivo dell’attività prestata (nella specie, provvigioni e indennità di fine rapporto per lo svolgimento dell’attività di agenzia) spettano alla società e non al socio e costituiscono non già un compenso del lavoro prestato ma una eventuale remunerazione del capitale conferito, sicchè le provvigioni spettanti a società siffatte, che esercitino l’attività di agente, risolvendosi in “utili” di tale attività di impresa, sono crediti estranei rispetto alla complessiva ratio giustificatrice della prelazione riconosciuta dall’art. 2751 bis c. c. n. 3.

A conclusione di tale ragionamento le SS.UU. hanno enunciato il principio di diritto che la disposizione, di cui all’art. 2751 bis c.c. n° 3, secondo la quale “hanno privilegio generale sui mobili i crediti riguardanti: … 3) le provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia dovute per l’ultimo anno di prestazione e le indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo” -, deve essere interpretata, in conformità con l’art. 3 Cost., ed in sintonia con la ratio dello stesso art. 2751 bis c.c., nel senso che il privilegio dei crediti ivi previsto non assiste i crediti per provvigioni spettanti alla società di capitali che eserciti l’attività di agente.

 

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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I contratti bancari e finanziari cd. “monofirma”

Le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate sulla validità dei contratti finanziari predisposti con la sola sottoscrizione del cliente riconoscendone la validità

 

L’art. 1325 c.c. prevede che la forma del contratto può essere un requisito essenziale dello stesso, se è espressamente prescritto dalla Legge.

Sia l’art. 117 T.U.B. che l’art. 23 T.U.F. prevedono, con formule analoghe,  che i contratti bancari (T.U.B.) ed i contratti relativi alle prestazioni dei servizi d’investimento ed accessori (T.U.F.) devono essere redatti per iscritto e che un esemplare deve essere consegnato al Cliente.

Si è posto in discussione la validità di quei contratti, bancari e/o finanziari, sottoscritti esclusivamente dal Cliente ovvero ci si è chiesto se la mancanza di una sottoscrizione riferibile all’Intermediario Bancario e/o Finanziario possa incidere sulla validità del contratto.

La questione ha animato la giurisprudenza sia di merito che di legittimità ed è stata rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite della Cassazione (Ordinanza n. 10447/2017) come questione di massima importanza, ex art. 374, II comma, c.p.c..

In precedenza la Corte di Cassazione aveva avuto modo di affermare, in ordine ai contratti relativi alle prestazioni di servizi finanziari, la nullità del contratto qualora vi fosse stata la sola sottoscrizione dell’Investitore (Cass. n. 3623/2016; n. 5919/2016; n. 7068/2016; nn. 8395 – 8396/2016), anche se vi erano state isolate pronunce che avevano riconosciuto la validità dei contratti  cd.mono-firma” (Ordinanza del 7.9.2015, n. 17740, in merito ad un contratto di intermediazione finanziaria e Cass. n. 4564/2012, in merito a contratti bancari).

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono, pertanto, intervenute con la Sentenza n. 898/2018, affermando il seguente principio: “Il requisito della forma scritta del contratto – quadro relativo ai servizi di investimento, disposto dall’art. 23 del D. Lgs. 24.2.1998, n. 58, è rispettato ove sia redatto il contratto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore, non necessitando la sottoscrizione anche dell’intermediario, il cui consenso ben si può desumere alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti”.

Il predetto principio è stato affermato in un contenzioso avente ad oggetto i contratti di servizi finanziari (ex art. 23 del D. Lgs. 58/1998) ma si può ritenere applicabile anche ai contratti bancari, in considerazione delle motivazioni adottate dalla Suprema Corte.

In particolare, la Sentenza ha affermato la necessità per i Giudici di fornire interpretazioni rispondenti al complesso equilibrio tra interessi contrapposti e, nell’ipotesi in cui, come nel caso in esame, è prevista una nullità relativa l’Interprete è tenuto a considerare che la disposizione normativa è rivolta a tutelare un interesse particolare e non già un interesse generale.

L’Interprete è tenuto, quindi, ad individuare, con attenzione, l’ambito della tutela privilegiata prevista dalla norma che deve essere circoscritta nei soli limiti in cui è coinvolto l’interesse particolare protetto dalla disposizione legislativa e ciò per evitare “conseguenze distorte o anche opportunistiche”.

Nel caso in esame ovvero nel caso della disposizione legislativa innanzi richiamata (ex art. 23 del D. Lgs. 58/1998) relativa ai contratti dei servizi finanziari, che prevede da un lato il requisito della forma scritta e dall’altro la consegna della copia al Cliente, l’interesse protetto dall’Ordinamento è quello dell’Investitore di avere modo di conoscere, adeguatamente, i specifici servizi forniti dall’Intermediario, le caratteristiche rilevanti degli stessi e di potere, all’occorrenza, verificare nel corso del rapporto il rispetto delle modalità di esecuzione.

La nullità relativa, per difetto di forma, è posta nell’interesse dell’Investitore e la finalità propria della previsione normativa non viene in alcun modo minata, secondo quanto affermato con la Sentenza n. 898/2018, dall’assenza di sottoscrizione riferibile all’Intermediario, che non contribuisce, in alcun modo, a raggiungere la predetta finalità.

Si è, pertanto, affermata l’interpretazione secondo la quale il requisito della forma imposta dall’art. 1325 c.c. va inteso in senso strettamente funzionale e non strutturale, avendo riguardo alla finalità propria della norma in questione.

In conclusione si può affermare che la questione sollevata con l’Ordinanza n. 10447/2017 dalla Prima Sezione Civile, rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite e cioè “se il requisito della forma scritta del contratto di investimento esiga, oltre alla sottoscrizione dell’investitore, anche la sottoscrizione ad substantiam dell’intermediario” è stata così risolta: 1) la nullità prevista dall’art. 23 T.U.F. è una nullità relativa, che tutela l’interesse dell’Investitore di essere correttamente informato sul contenuto del Contratto e di poter esercitare un adeguato controllo sull’esecuzione dello stesso; 2) la mancanza della sottoscrizione riferibile all’Intermediario non incide sull’interesse tutelato dell’Investitore e, quindi, non consente l’applicazione della sanzione civile prevista dall’Ordinamento.

 

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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PROCEDURA ESECUTIVA E DIRITTO ALL’ABITAZIONE

Secondo la Corte di Giustizia Europea va bloccato il pignoramento eseguito sulla prima casa del consumatore, se il contratto di mutuo contiene clausole vietate dalla Direttiva UE/93/2013

 

Il Giudice nazionale può bloccare provvisoriamente la Banca o la Finanziaria che mette all’asta la casa se nel contratto di mutuo sono presenti delle clausole “abusive”, ovvero tutte quelle clausole vietate dalle direttive UE e che la banca o la finanziaria hanno fatto comunque firmare al cliente. Essendo secondo la Corte di Giustizia Europea il diritto all’abitazione un diritto intangibile ed è tutelato anche dalla Unione Europea.

E’ quanto ha stabilito la Corte di Giustizia Europea con la sentenza del 10 settembre 2014 III Sezione Causa C-34/13.
Infatti la Corte Europea ricorda che va rispettata la direttiva 93/13/CEE relativa alle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
Così se la banca o la finanziaria ha fatto firmare clausole abusive, l’ipoteca è nulla ed il pignoramento (come la successiva vendita all’asta) vanno bloccate.

Il diritto all’abitazione in sostanza prevale nel caso di applicazione di clausole vietate dall’UE.
Inoltre al fine di preservare i diritti attribuiti ai consumatori dalla direttiva 93/13, gli Stati membri sono tenuti, in particolare, in forza dell’articolo 7, paragrafo 1, di tale direttiva, ad adottare meccanismi di tutela tali da far cessare l’utilizzazione delle clausole qualificate come abusive. Ciò è del resto confermato dal “ventiquattresimo considerando” di tale direttiva che precisa che le autorità giudiziarie e gli organi amministrativi devono disporre di mezzi adeguati ed efficaci rispetto a tale obiettivo.

In particolare, in base alla giurisprudenza costante della Corte europea relativa al principio di leale cooperazione, ora sancito dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE, pur conservando la scelta delle sanzioni applicabili alle violazioni del diritto dell’Unione, gli Stati membri devono vegliare a che esse abbiano un carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo.
Per quanto riguarda il carattere proporzionale della sanzione, occorre prestare particolare attenzione alla circostanza che il bene oggetto del procedimento di esecuzione stragiudiziale sulla garanzia di cui al procedimento principale è il bene immobile che costituisce l’abitazione della famiglia del consumatore.
Infatti, la perdita dell’abitazione familiare non è solamente idonea a violare gravemente il diritto dei consumatori, ma pone i familiari del consumatore interessato in una situazione particolarmente delicata.

A tale proposito, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato, da un lato, che la perdita dell’abitazione costituisce una delle più gravi violazioni al diritto al rispetto del domicilio e, dall’altro, che qualsiasi persona che rischi di esserne vittima deve, in linea di principio, poter far esaminare la proporzionalità di tale misura (v. sentenze Corte EDU, McCann c. Regno Unito, n. 19009/04, § 50, CEDU 2998, e Rousk c. Svezia, n. 27183/04, § 137).
Nel diritto dell’Unione, il diritto all’abitazione è un diritto fondamentale garantito dall’articolo 7 della Carta, che il giudice del rinvio deve prendere in considerazione nell’attuazione della direttiva 93/13.

Per quanto riguarda in particolare le conseguenze che comporta l’espulsione del consumatore e della famiglia dall’abitazione che costituisce la loro residenza principale, la Corte ha già sottolineato l’importanza, per il giudice competente, di emanare provvedimenti provvisori atti a sospendere un procedimento illegittimo di esecuzione ipotecaria o a bloccarlo, allorché la concessione di tali provvedimenti risulta necessaria per garantire l’effettività della tutela voluta dalla direttiva 93/13.
Nella fattispecie, la possibilità per il giudice nazionale competente di adottare un qualsiasi provvedimento provvisorio, sembra costituire uno strumento adeguato ed efficace per far cessare l’applicazione di clausole abusive, il che deve essere verificato dal giudice del rinvio.

Dalle considerazioni svolte risulta che le disposizioni della direttiva 93/13 devono essere interpretate nel senso che non ostano ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che consente il recupero di un credito fondato su clausole contrattuali eventualmente abusive, attraverso la realizzazione stragiudiziale di un diritto reale di garanzia costituito sul bene immobile dato in garanzia dal consumatore, qualora tale normativa non renda praticamente impossibile o eccessivamente arduo l’esercizio dei diritti che tale direttiva conferisce al consumatore, il che deve essere verificato dal giudice del rinvio.

Infatti, il quadro normativo dell’unione su cui si è mossa la Corte di Giustizia è stato così succintamente rappresentato prevede all’articolo 7 della Carta così recita: «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni».
L’articolo 38 della Carta prevede che nelle politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori.

L’articolo 47 della Carta prevede quanto segue:
«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo».

Il dodicesimo, tredicesimo, quattordicesimo e ventiquattresimo considerando della direttiva 93/13 sono formulati come segue:
«considerando tuttavia che per le legislazioni nazionali nella loro forma attuale è concepibile solo un’armonizzazione parziale; che, in particolare, sono oggetto della presente direttiva soltanto le clausole non negoziate individualmente; che pertanto occorre lasciare agli Stati membri la possibilità di garantire, nel rispetto del trattato [CE], un più elevato livello di protezione per i consumatori mediante disposizioni nazionali più severe di quelle della presente direttiva;
considerando che si parte dal presupposto che le disposizioni legislative o regolamentari degli Stati membri che disciplinano, direttamente o indirettamente, le clausole di contratti con consumatori non contengono clausole abusive; che pertanto non si reputa necessario sottoporre alle disposizioni della presente direttiva le clausole che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative (…); che a questo riguardo l’espressione “disposizioni legislative o regolamentari imperative” che figura all’articolo 1, paragrafo 2, comprende anche le regole che per legge si applicano tra le parti contraenti allorché non è stato convenuto nessun altro accordo;
considerando che spetta agli Stati membri fare in modo che clausole abusive non siano incluse nei contratti stipulati con i consumatori; (…)
considerando che le autorità giudiziarie e gli organi amministrativi degli Stati membri devono disporre dei mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione delle clausole abusive contenute nei contratti stipulati con i consumatori».

L’articolo 1 della direttiva 93/13 prevede quanto segue:
«1. La presente direttiva è volta a ravvicinare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti le clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore.
Le clausole contrattuali che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative (…) non sono soggette alle disposizioni della presente direttiva».

L’articolo 4, paragrafo 1, della sesta direttiva così stabilisce:
«Fatto salvo l’articolo 7, il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende».

L’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva dispone che «[g]li Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali (…)».

L’articolo 7, paragrafo 1, della medesima direttiva così dispone:
«Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori».

Ci si domanda a questo punto quali siano le clausole abusive previste dalla direttiva 93/13.
Ne fornisce la definizione il suo art. 3 dove sono indicate come clausole contrattuali, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto.
Si considera che una clausola non sia stata oggetto di negoziato individuale quando è stata redatta preventivamente in particolare nell’ambito di un contratto di adesione e il consumatore non ha di conseguenza potuto esercitare alcuna influenza sul suo contenuto. Il fatto che taluni elementi di una clausola o che una clausola isolata siano stati oggetto di negoziato individuale non esclude l’applicazione del presente articolo alla parte restante di un contratto, qualora una valutazione globale porti alla conclusione che si tratta comunque di un contratto di adesione.

Qualora il professionista affermi che una clausola standardizzata è stata oggetto di negoziato individuale, gli incombe l’onere della prova. E’ la stessa Direttiva 93/13 che nell’allegato alla stessa contiene un elenco indicativo e non esauriente di clausole che possono essere dichiarate abusive a cui poter far riferimento per poter fermare e bloccare il pignoramento della prima casa ad opera delle procedure esecutive di banche e finanziarie per mutui concessi con clausole considerate nulle dalle previsione della Direttiva 93/13.

 

 

 

Avvocato presso il Consiglio dell’Ordine di Napoli. Diritto civile, in particolare nel contenzioso, procedure esecutive immobiliari, diritto comunitario, arbitrato e mediazione nazionale ed internazionale, diritto di famiglia, risarcimento del danno nell’ambito della responsabilità medica.

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Il diritto della Unione Europea nei rapporti di agenzia

Il contratto di agenzia in Europa: affinchè gli agenti e rappresentanti ne sappiano l’influenza.

 

Incentreremo l’attenzione sulla materia dell’agenzia come trattata nel diritto e nella giurisprudenza comunitari.

L’agenzia, come sapete, è quel contratto, di cui il nostro codice civile si interessa negli articoli dal 1742 al 1751bis e che riguarda la figura d’un particolare tipo di lavoratore, che la dottrina ha definito parasubordinato, perché dotato di autonomia organizzativa e non sottoposto a potestà disciplinare cogente, ma che, pur tuttavia, ha un rapporto coordinato, continuativo e stabile con un mandante (ciò che lo distingue dal procacciatore d’affari,  che lo ha discontinuo ed occasionale).

L’agente di commercio assume, verso retribuzione, in genere provvigionale, l’incarico di promuovere affari per la propria azienda preponente, in una zona determinata.

Solo quando vi è  il potere anche di concludere i contratti impegnando la propria mandante (ciò che avviene di rado) si ha invece la figura del rappresentante di commercio. Quando sentiamo, nel comune parlare, di rapporti di rappresentanza, noi addetti ai lavori, dobbiamo sapere, quindi, che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta, in effetti, di rapporti di agenzia.

A conferma della posizione peculiare dell’agente di commercio ( e ovviamente anche del rappresentante di commercio) v’è la previsione contenuta, nel ns. codice civile procedurale civile, all’art. 409, della devoluzione al Giudice specializzato del Lavoro delle controversie che li riguardano, ovviamente allorquando essi non siano costituiti in forma societaria.

Anche il legislatore comunitario si è interessato di disciplinare, tra gli altri rapporti di lavoro, quello dellagenzia.

Il 18 dicembre 1986 il Consiglio della Comunità Europee emanò difatti la Direttiva 653/86, la quale fissa anche dei presupposti, necessari per la liquidazione della indennità alla cessazione del rapporto agenziale, in essa prevista.

Nei nostri AEC, per le indennità lì previste, v’è da dire che tali presupposti non sono previsti e quindi vedremo che, almeno in subordine, la nostra fonte contrattualistica collettiva resta in vigore quando non vi siano i presupposti di cui ho appena accennato, per il riconoscimento della invero spesso migliore indennità di derivazione comunitaria.

La direttiva venne emanata, in effetti, per armonizzare i sistemi normativi europei e per creare un sistema di principi uniformi (il cosiddetto “ tronco comune”, termine che si sente spesso discettando di diritto comunitario), volto ad incentivare le relazioni tra agenti e preponenti appartenenti a paesi diversi.

L’obiettivo dichiarato era, inoltre, quello di garantire all’agente, all’atto della cessazione del rapporto, una indennità certa (ovvero, secondo alcuni che ritengono l’emolumento in questione di natura risarcitoria, che sono in minoranza, la riparazione del danno subìto in conseguenza del venir meno del rapporto di lavoro per disdetta o per colpa del mandante.

Il legislatore comunitario si è avvalso dello strumento normativo della Direttiva, obbligando pertanto gli stati membri ad adottare le misure necessarie a garantire all’agente la corresponsione di siffatta indennità, lasciando però la possibilità agli Stati membri, in sede di recepimento della Direttiva, di optare per due sistemi alternativi: il modello compensativo ovvero quello risarcitorio di cui dicevo prima, mutuati, rispettivamente, dai sistemi tedesco e francese.

La direttiva prevede, in particolare che Gli Stati membri prendono le misure necessarie per garantire all’agente commerciale, dopo l’estinzione del contratto, un’indennità in applicazione del paragrafo 2 o la riparazione del danno subito in applicazione del paragrafo 3”.

V’è da dire che l’esigenza del legislatore comunitario di disciplinare la materia era  sentita e pressante anche perché non tutti gli stati membri avevano una compiuta disciplina in materia di indennità agenziali vuoi sotto il profilo legislativo (e più strettamente codicistico) che, soprattutto, della contrattualistica collettiva.

V’è da dire che l’Italia, in verità, al riguardo già faceva un figurone sia sotto un profilo (quello legislativo) che sotto l’altro (della contrattualistica collettiva).

Quanto all’ultimo perché la rappresentatività sindacale nel ns. paese era molto sentita

Peraltro gli AEC per gli agenti di commercio esistevano già dal primo  trentennio del secolo scorso e il primo accordo del 1935, nel 1938 era stato addirittura reso valido erga omnes e quindi con efficacia di  legge, con regio provvedimento legislativo.

Ciò a conferma dell’ottimo impianto del nostro Ordinamento, rispettoso  degli insegnamenti del Diritto  romano, che faremo bene a seguire ancora pur senza chiuderci nell’esaminare ed a compararci anche con altre tradizioni giuridiche.

Sull’efficacia delle Direttive Comunitarie vi hanno detto e vi diranno altri ben più qualificati relatori e ci limiteremo qui, quindi, a ricordarne la caratteristica saliente di fonte cosiddetta verticale:

“le direttive, che hanno come destinatari i singoli Stati membri, vincolano ciascuno di essi solo per quanto riguarda il risultato finale da raggiungere, che deve esserle conforme. Impongono un’obbligazione di risultato, lasciando liberi, però,  gli Stati di adottare le misure ritenute opportune al fine dell’armonizzazione al tronco comune fissato dalla direttiva. Esse hanno un’efficacia mediata nel senso che creano diritti ed obblighi per i singoli soltanto in seguito all’adozione da parte dei singoli Stati membri degli atti con cui vengono recepite. Ma il Giudice nazionale, come poi ripeteremo, in caso di confliggenza, deve disapplicare la norma nazionale a favore della fonte comunitaria. Qualora, poi,  uno Stato non dovesse adeguarsi alle prescrizioni di una determinata direttiva, esso sarà inadempiente e costretto, quindi, a pagare una sanzione per avere violato gli obblighi comunitari e il singolo non potrebbe che solo stimolare la stigmatizzazione e la sanzione nei confronti dello Stato che non abbia recepito le direttive”.

La Direttiva era quindi lo strumento comunitario da utilizzare da parte del legislatore comunitario per fare quello che voleva fare qui e che abbiamo detto poco fa e cioè per armonizzare e per stabilire una volta per tutte il “tronco comune” di cui abbiamo detto più volte, per gli ordinamenti di tutti gli Stati membri, che statuisse un’indennità a favore degli agenti di commercio alla fine del rapporto quando disdetto dalla preponente.

C’è da dire più specificamente e chiaramente che addirittura, prima della Direttiva, non in tutti gli Stati membri era addirittura prevista una indennità.

In Italia abbiamo detto che era prevista.

Pertanto il recepimento della Direttiva 653/86 nel nostro ordinamento non avrebbe dovuto causare grossi mutamenti nella disciplina indennitaria per gli agenti di commercio, in quanto appunto già erano previste le indennità  nel ns. c.c. e negli A.E.C. anche se questi ultimi non validi però erga omnes nelle numerose elaborazioni successive al 1935/1938., quand’anche sempre di largo utilizzo in giurisprudenza.

Invece, come approfondiremo appresso, i problemi principali (anche se non esclusivi) sono poi sorti al riguardo della misura dell’indennità, che era ciò che l’Italia doveva adattare, col recepimento della Direttiva, nel proprio ordinamento e sono stati problemi, per dipanare i quali è occorso, addirittura, un ventennio.

La Direttiva è intitolata: Direttiva del Consiglio relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti (Pubblic. in G.U.  31/12/86 n. 382 )

Il Consiglio delle Comunità Europee, vista  la interinale soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione dei servizi e in particolare per le attività degli intermediari del commercio, dell’industria e dell’artigianato, considerando che le differenze tra le legislazioni nazionali in materia di rappresentanza commerciale che influenzavano sensibilmente, all’interno della Comunità, le condizioni di concorrenza e l’esercizio della professione potevano pregiudicare il livello di protezione degli agenti commerciali nelle loro relazioni con il loro preponente, considerando che gli scambi di merci tra Stati membri dovevano (e devono) effettuarsi in condizioni analoghe, come quelle di un mercato unico, imponendosi così il ravvicinamento dei sistemi giuridici degli Stati membri, concedendo termini transitori supplementari a taluni Stati membri per compiere gli sforzi per adeguare le loro regolamentazioni alle esigenze della Direttiva, in particolare per quanto riguarda l’indennità di fine rapporto, adottò la Direttiva, che, per quel che qui ora ci riguarda, è particolarmente rilevante al suo art. 17, le altre parti limitandosi principalmente a definire l’attività dell’agente, i suoi obblighi, gli obblighi del preponente e cosi via.

Detto art. 17 stabilisce tra l’altro che:

a) L’agente commerciale ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui:
– abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente abbia ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
– il pagamento dell’indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

b) L’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente commerciale negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione.

L’art. 19 prescrive poi che:

Le parti non possono derogare, prima della scadenza del contratto, agli articoli 17 e 18 a detrimento dell’agente commerciale.

Seguono altre norme che qui, per limitatezza di tempo, non esaminiamo.

**********************************

Il nostro ordinamento recepì, perché doveva recepirla, la Direttiva, coi decreti legislativi 303/’91, quindi già un po’ lentamente e precisamente dopo circa cinque anni e poi con il correttivo decr. legislat. 65/’99, modificando gli artt. 1742 e segg. del c.c., che, abbiamo detto, sono quelli che si occupano dell’agenzia, introducendo per l’agente meritevole (quello, come abbiamo visto, che avesse incrementato il numero dei clienti o il volume degli affari, a condizione d’un permanente vantaggio del preponente), una indennità parametrata, nel suo massimo, alla media annua provv.le degli ultimi cinque anni del rapporto o del minor tempo della sua durata.

Veniva quindi, con la Direttiva, introdotto per la prima volta un criterio meritocratico, che porta taluni a definirla impropriamente “indennità meritocratica” quando, non ancor più banalmente, “indennità europea”.

Il range dell’indennità parte da zero. Quindi da zero alla media annuale degli ultimi 5 anni.

Per il riconoscimento dell’indennità e per la sua quantificazione, entro questo range, la Direttiva introduce anche il criterio dell’equità. Il  suo  riconoscimento  deve  esser  equo.

Il concetto di equità è un po’ nebuloso, a noi italiani, ci appare astratto, soggettivo, quando non arbitrario.

Si pensi a come poteva apparirci nel 1986.

Altri stati membri ne avevano e ne hanno maggior dimestichezza.

Abbiamo, quindi, dovuto fare uno sforzo per metabolizzarlo almeno un po’.

La Germania, poi, relativamente alla quantificazione dell’indennità adottò criteri tanto rigidi quanto complessi e basati su calcoli aritmetici (durata del mandato, numero di clienti e di affari incrementati, aliquota del mantenimento di tali miglioramenti da parte della mandante dopo la fine del rapporto, ecc.).

In Italia decide il Giudice senza eccessi di rigidità matematica, ma indubbiamente i riferimenti “tedeschi” vengono tenuti in genere in conto sia pure se elasticamente e non uniformemente.

Ho accennato già di un secondo nostro decreto legislativo, il n° 65/’99.

L’Italia difatti subì un procedimento di infrazione per non aver correttamente recepito la Direttiva nella parte in cui i requisiti di incremento della clientela o degli affari e il mantenimento dei vantaggi della preponente era stato previsto come alternativo invece che cumulativo, come era invece previsto  nella Direttiva.

Solo per il recepimento corretto ed esaustivo quindi, come si vede, passarono tredici anni.

In questo lasso di tempo la Giurisprudenza è stata ondivaga tra l’applicazione dell’indennità prevista dalla Direttiva che chiamiamo solo per un attimo qui meritocratica, per intenderci facilmente e quelle (codicistiche e contrattualistica collettiva) previste ante la direttiva.

Intervenne poi un accordo sindacale cosiddetto “ponte” nel 1992, che, in pratica, eludeva la Direttiva sostenendosi, in esso, che il sistema indennitario previsto della contrattualistica collettiva vigente (principalmente riconducibile ad una indennità lì nominata esattamente indennità suppletiva di clientela) già soddisfaceva i criteri fissati dal recepimento in Italia della Direttiva.

La cosa non era affatto vera, perché pressochè in nessun caso o comunque in rari casi, l’indennità suppletiva di clientela raggiunge il tetto massimo di quella prevista nella Direttiva e quindi nel novellato (dai decreti legislativi del 91 e del 99) art. 1751 c.c. che è l’articolo che tratta appunto dell’argomento). Perché, inoltre, la parametrazione dell’indennità prevista della contrattualistica collettiva (una percentuale, peraltro bassa, sulle provvigioni) è del tutto diversa in quanto, invece, il legislativo comunitario primo e quello nazionale poi, la avevano individuata, in una media provv.le annua (quindi non semplicemente in una percentuale sulla provvigione).

In tal stato di assoluta incertezza giurisprudenziale si è andati avanti sino al 2004.

La giurisprudenza che propendeva per la disapplicazione delle indennità introdotta dalla Direttiva ne sosteneva il minor vantaggio in astratto per tutto il ceto degli agenti, alcuni dei quali non erano nelle condizioni di beneficiare dell’indennità detta meritocratica per assenza o difficoltà di prova dei requisiti di merito e di vantaggio per la preponente e quindi un’indennità, quale quella prevista dagli accordi economici, che era come suol dirsi “automatica alla disdetta della preponente” senza bisogno d’altro, sarebbe stato più conveniente.

Altra considerazione era che in Italia la rappresentatività dei sindacati era molto elevata e quindi i contratti collettivi dovevano esser quelli da tenere a riferimento.

Venivano in pratica ritenuti prevalenti sulle norme di rango primario, anche in caso di minor vantaggio in concreto!

Una alchimia di pensiero che i più hanno sempre fatto fatica a comprendere.

Tale orientamento, difatti, sarebbe stato plausibile,  solo se in concreto e non in astratto, cioè in tutti singoli casi specifici, i contratti collettivi avessero previsto una disciplina in melius per ogni agente, insomma se l’agente, con l’indennità suppletiva di clientela prevista dagli accordi economici, avrebbe visto  riconosciuto almeno il massimo o più del massimo previsto dalla Direttiva. Quest’ultima ed i suoi recepimenti nel nostro ordinamento d’altronde prevedevano specificamente l’inderogabilità a svantaggio dell’agente dell’indennità riconosciuta dalla Comunità Europea col criterio meritocratico.

Orbene, già prima del primo recepimento del 1991 col decr. legislativo 303 e quindi tra la data di entrata in vigore della Direttiva (1986) e per i cinque anni successivi, il Giudice, nel contrasto tra la norma nazionale e quella comunitaria, avrebbe dovuto, come abbiamo detto, disapplicare la prima e applicare la seconda quale norma “verticale” .

Figurarsi dopo il recepimento di quest’ultima!

Eppure non sempre fu così, anzi!

Ciò fa comprendere come non sia stato sempre facile e come non sia stato certo immediata, la metabolizzazione, come già dicevo, delle norme comunitarie nei vari stati membri e in particolare in Italia laddove anche i giudici nazionali spesso sono stati tempestivi nell’applicarla.

E’ stata necessaria allora, in subiecta materia, una questione pregiudiziale che la Corte di Cassaz., appunto nel 2004, pose alla Corte di Giustizia Europea con la sua ordinanza n° 20410 nella causa DE ZOTTI contro HONEYWEM informaz.ni comm.li.

Dell’agenzia, quindi, s’è interessato non solo il legislatore, ma anche il Giudice comunitario.

Il 23 Marzo 2006, a vent’anni come vi ho detto all’esordio di questo intervento, dall’entrata in vigore della Direttiva, la Corte del Lussemburgo, emetteva difatti la sentenza 465 C 04, conforme alla relazione del Procuratore Generale, che era il portoghese POJARES MADURO.

Il contenuto era del tenore, invero già ovvio ai più, che in tutti quei casi in cui il calcolo secondo il criterio meritocratico fissato dalla Direttiva può esser  applicabile, per l’esistenza dei requisiti di merito dell’agente e per il persistente vantaggio del preponente e porti ad un risultato migliore in concreto, nel singolo caso in esame, di quello previsto da qualsiasi altra fonte di diritto degli stati membri, anche di quello eventualmente degli A.E.C. , va preso in considerazione il trattamento migliore.

Subito dopo, il 3 Ottobre 2006, con la sentenza n° 21309,  la nostra Corte di Cassazione recepì l’indirizzo fissato della Corte Lussemberghese ed oggi finalmente nessun Giudice italiano sostiene più la questione dell’esame in astratto e non in concreto.

Per la verità già prima la Corte di Giustizia Europea si era interessata della materia dell’agenzia, anche se non in materia di indennità di fine rapporto, ma riguardo ad altra non meno importante questione, sempre riguardo alla Direttiva 653/86.

Era avvenuto con la sentenza del 30 aprile 1998 nella causa BALLONE contro YOKOHAMA, la ditta orientale produttrice di pneumetici.

In questo caso la Corte Europea era stata tirata in ballo da una questione pregiudiziale non postale dal Giudice nazionale di nomofiliachia, cioè dalla Cassazione, bensì da un giudice di merito, il Tribunale di Bologna.

Non sfuggirà allora come importante può essere che gli avvocati stimolino i Giudici nazionali a porre questioni pregiudiziali, quando ne ricorre il caso.

La vicenda qui riguardava una agente, la Sig.ra BALLONE, la quale richiedeva i diritti retributivi agenziali dalla Società YOKOHAMA nonostante l’eccezione di nullità del suo mandato svolta da quest’ultima (che pure lo aveva stipulato), per carenza del requisito soggettivo della Sig.ra BALLONE per non essere la stessa iscritta all’albo degli agenti, iscrizione prevista come obbligatoria dalla legge del nostro Stato n° 204/’85.

Sapete bene che uno dei principi informatori del legislatore comunitario è la libertà di stabilimento e di esercizio delle proprie attività in ambito comunitario e quindi di liberalizzazione dell’attività con l’ostativa, quindi, per quanto possibile, alle  restrizioni in ambito lavorativo prevista da norme degli stati membri a mezzo degli albi.

Orbene la Direttiva 653/86, che come abbiamo potuto notare, è la pietra miliare nella elaborazione della figura dell’agente e del rappresentante di commercio europeo, non prevedeva e non prevede quale requisito necessario ed indispensabile per poter esercitare l’attività di agente, quello dell’iscrizione ad uno specifico albo.

La pronuncia del Lussemburgo fu coerente a ciò e, anche in questo caso, dopo della sentenza BALLONE / YOKOHAMA e assolutamente non prima, i Giudici nazionali hanno recepito il principio comunitario in questione scandito dalla Direttiva che per esercitare l’attività di agente di commercio, non è necessaria l’iscrizione all’albo prevista dalla legge 204/85.

Pensate che, prima di ciò, l’agente non iscritto all’albo, veniva definito abusivo e, se conveniva in giudizio la sua preponente, vedeva respinta la sua domanda non solo al riguardo di indennità di fine rapporto, ma anche per le provvigioni maturate a seguito del suo lavoro di procacciamento d’affari, in quanto la sua attività veniva considerata come svolta illegittimamente.

Ciò che appare ancora più paradossale è che la legge 204 del 1985, che prevedeva l’obbligatorietà dell’iscrizione all’albo, non solo non fu oggetto di modifica con l’abolizione di tal obbligo di iscrizione, come doveva avvenire l’anno dopo della sua emanazione del 1985 e, quindi nel 1986, a seguito dell’entrata in vigore della Direttiva 653/86 che non la prevedeva, ma neppure a seguito della sentenza della Corte Europea del ‘98!

E’ stato mantenuto in essere l’obbligo di iscrizione nell’albo, ormai non più efficace, per esigenze tutto sommato inspiegabili o, semplicemente, per la cronica  lentezza del legislatore quando non vi è grosso interesse di legiferare velocemente.

I fautori del mantenimento della norma invero presero pure a giustificarla con la considerazione che la stessa potesse ancora valere sotto il profilo amministrativo.

Pensate allora che solo il decreto legislativo del 26/03/2010,  n. 59 (in recepimento invero anche della Direttiva Servizi CE 123/06) ha soppresso, con decorrenza dal giorno 8 maggio 2010, il ruolo oltre che degli agenti di affari in mediazione anche del ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio.

Il suddetto decreto non ha abrogato peraltro le altre norme che disciplinano le attività in questione.

In particolare l’esercizio delle suddette attività rimane subordinato alla sussistenza di requisiti normativamente previsti.

Solo per gli agenti e rappresentanti di commercio sono state comunque apportate alcune modifiche alla normativa di settore.

In particolare, sono stati, come si diceva,  abrogati i requisiti di cui alle lettere a), b), e d) della L. 204/1985.

I requisiti mantenuti sono:

  • La cittadinanza italiana o di uno degli stati UE ovvero la residenza nel territorio italiano per gli stranieri;
  • Il godimento dei diritti civili;
  • L’assolvimento dell’obbligo scolastico con conseguimento del relativo titolo.

Inoltre, solo per gli agenti e rappresentanti di commercio, il fallimento non è più considerato ostativo all’esercizio dell’attività.

Le attività di mediatore e agente e rappresentante di commercio restano attualmente soggette, quindi, semplicemente a segnalazione certificata di inizio attività – la cosiddetta SCIA (in sostituzione della precedente dichiarazione di inizio attività) da presentare alla Camera di Commercio, corredata delle autocertificazioni e delle certificazioni attestanti il possesso dei requisiti prescritti.

La Camera di Commercio verifica il possesso dei requisiti e iscrive i relativi dati nel registro delle imprese e nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA).

Ad ogni effetto di legge, i richiami al ruolo contenuti nella normativa di settore si intendono solo riferiti alle iscrizioni previste nel registro delle imprese e nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA).

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Da ultimo evidenziamo che pure in altre occasioni la Corte di Giustizia Europea si è interessata di agenzia, come nella recente Sentenza 31.10.2010, che ha statuito che l’agente ha diritto all’indennità ex Direttiva 653/86 se un suo inadempimento anche grave è avvenuto dopo il recesso fosse anche in costanza del periodo di preavviso.
La sentenza della Corte è quella resa nel proc.nto C‑203/09 ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, dall’Autorità Giudiziaria Tedesca in data  29 aprile 2009, nella causa tra la  VOLVO e la sua concessionaria AWG
La Corte (Prima Sezione), era presieduta  tra l’altro, dal napoletano Prof. TIZZANO.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione dell’art. 18, lett. a), della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti (GU L 382, pag. 17; in prosieguo: la «direttiva»).
L’art. 18 della direttiva prescrive tra l’altro che:
«L’indennità o la riparazione ai sensi dell’articolo 17 (che è quella indennità a contenuto meritocratico di cui abbiamo detto) non sono dovute:
a) quando il preponente risolve il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente commerciale, la quale giustifichi, in virtù della legislazione nazionale, la risoluzione immediata del contratto;
La disposizione era stata ovviamente recepita dall’ordinamento tedesco.

Nel caso di specie la VOLVO Germany aveva rescisso il mandato concedendo il preavviso alla propria agente , poi si era accorta che durante il periodo di preavviso quest’ultima aveva tenuto un comportamento di tal gravità da giustificare a suo avviso,  il recesso senza preavviso, per giusta causa.

La Direttiva però cristallizza al momento della comunicazione di recesso l’imputazione di giusta causa non prevedendo l’ipotesi sottoposta alla Corte del Lussemburgo di successiva imputazione fosse anche dovuta ad avvenuta conoscenza di fatti nuovi successivamente.

E, poiché la previsione della non debenza dell’indennità all’agente è prevista dalla Direttiva come ipotesi eccezionale, la Corte ha ritenuto tassative le ipotesi, appunto, di privazione di questa sorta di trattamento di fine rapporto.

Ha escluso cioè applicazioni estensive.
Costituendo cioè un’eccezione al diritto dell’agente ad ottenere un’indennità, l’art. 18, lett. a) della direttiva, va interpretato restrittivamente e tassativamente.

Pertanto, tale disposizione non può essere interpretata in un senso che finirebbe per aggiungere una causa di decadenza dal diritto all’indennità da essa non prevista espressamente.

La Corte osserva più precisamente che, qualora il preponente prenda conoscenza di un inadempimento grave  dell’agente commerciale soltanto dopo la fine del contratto avvenuto a mezzo di recesso da essa proponente operato, non è più possibile applicare il meccanismo previsto dall’art. 18, lett. a) della direttiva, che esclude il riconoscimento dell’indennità appunto per inadempimento grave dell’agente.

Di conseguenza, l’agente commerciale non può essere privato del suo diritto all’indennità sulla scorta di tale disposizione qualora il preponente, dopo avergli notificato il recesso dal contratto mediante preavviso, dimostri l’esistenza di un inadempimento di tale agente che avrebbe potuto giustificare un recesso immediato dal contratto in parola.
La Corte aggiunge che, ai sensi dell’art. 17, n. 2, lett. a), secondo trattino, della direttiva, l’agente commerciale ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso. Non può dunque escludersi quindi, però, che del comportamento di detto agente si tenga conto nell’ambito della valutazione intesa a stabilire il carattere equo dell’indennità che gli spetta.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, comunque la Corte ha dichiarato che l’art. 18, lett. a), della direttiva osta a che un agente commerciale indipendente venga privato della sua indennità di clientela qualora il preponente dimostri l’esistenza di un inadempimento di tale agente, verificatosi dopo la notifica del recesso dal contratto mediante preavviso e prima della scadenza di quest’ultimo, che avrebbe potuto giustificare un recesso immediato dal contratto in parola.
Si deve notare come la pronunzia è particolarmente importante ed interessante per gli operatori del diritto, perché la nostra giurisprudenza è attestata nel senso contrario. Quando successivamente al recesso la preponente venga a conoscenza di comportamenti integranti gli estremi di giusta causa, viene ritenuta legittima una imputazione anche tardiva. Dovremo quindi valutare l’impatto di tale pronuncia del Giudice Comunitario sui nostri Tribunali.

Spero, quindi, di aver dato, sia pur rapidamente, un’idea di come e quando, appunto legislatore e giurisprudenza comunitari, si siano interessati, nell’ambito del diritto del lavoro, anche dei rapporti parasubordinati come quello dell’agente e del rappresentante commerciale e di come vi siano state lungaggini e a volte qualche resistenza, nel raggiungere l’attuale assetto, stabile sino a nuove modifiche, di autentica ed effettiva applicazione della Direttiva 653/86, come è capitato per tante altre Direttive.

Di questo ne va assunta consapevolezza, ma chi si appassiona al diritto comunitario da ciò non può che ricevere stimoli per contribuire, ciascuno per quanto può, a rimuovere le residue disapplicazioni di Direttive per la verità ormai, sempre più rare.

Uno strumento per gli Avvocati, va ribadito, è quello della sollecitazione al Giudice a proporre la questione pregiudiziale al Giudice comunitario.

Nei casi, poi, come quello della sentenza del Lussemburgo del 2010 di cui ho detto da ultimo bisognerà allegare al Giudice Nazionale il precedente giurisprudenziale del Giudice Comunitario.

 

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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L’A.E.C. agenti commercio settore industriale del 30/7/2014. Differenze col previgente del 20/3/2002.

Nuovo Accordo Economico Collettivo nel settore industria: affinché gli agenti siano consapevoli della contrattualistica collettiva che li riguarda

 

Esaminiamo questo accordo intervenuto dopo oltre dodici anni dal precedente a conferma del travaglio e delle difficoltà che vi sono state con la controparte stipulatrice.

Quello del settore commercio, come sapete, fu sottoscritto già nel 2009.

Sappiamo bene che gli A.E.C. sono frutto di mediazioni a volte, come qui, difficili per contemperare e trovare un punto di incontro tra le diverse posizioni delle parti stesse.

Dobbiamo dire che le associazioni stipulanti di parte agenziale hanno fatto un buon lavoro.

Rispetto ad altre stesure si nota un impegno notevole da parte di tutte le componenti sindacali, ma un buon risultato il ceto degli agenti ha ottenuto grazie all’opera di chi ha lavorato per loro e quindi, per quel che ci riguarda, della F.N.A.A.R.C.

L’oggetto della chiacchierata che andiamo a fare sarà quello di verificare le differenze rispetto all’accordo previgente del 20/3/2012 così sarà pure più agevole il raffronto per apprezzare le modifiche in melius.

Esaminiamole anzitutto, cominciando con l’articolo riguardante le variazioni di zona, territorio e prodotti, che è l’art. 2.

Vi sono qui importanti novità.

E’ diminuita l’aliquota che fa divenire di rilevante entità, le modifiche al mandato, che passa dal 20% al 15 %, con vantaggio per l’agente, il quale vede limitata a questa minore aliquota le modifiche in peius definite, come detto,  rilevanti.

Le variazioni restano quindi così previste:

Restano considerate di lieve entità le variazioni che incidono fino al 5%

Di media entità se incidono sino al 15% del valore del rapporto.

Di forte entità se incidono sul valore oltre al 15%

Le variazioni di lieve entità, come prima, possono essere imposte previa semplice comunicazione scritta all’agente senza diritto neppure al preavviso.

Quelle di media entità, sempre come prima, previa comunicazione scritta da darsi all’agente almeno due mesi prima, ovvero quattro mesi nel caso di agenti monomandatari.

E ancora come nell’A.E.C. precedente nel caso di variazioni di rilevante entità, il preavviso deve esser pari almeno a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Solo che qui il discrimine tra media e rilevante entità delle modifiche scende dal 20 al 15%.

E sempre come prima l’agente, entro 30 giorni, può comunicare alla mandante di non voler accettare le variazioni di rilevante entità.

Una ulteriore novità consiste che ora lo può fare anche per le variazioni di media entità (5/15%).

In tal caso, la comunicazione dell’agente costituisce preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza come se provenisse dalla casa mandante, con riguardo a tutti i diritti indennitari dell’agente, che restano salvaguardati.

Inoltre, il nuovo A.E.C. porta da 12 a 18 mesi per i plurimandatari e da 12 a 24 mesi per i monomandatari, il periodo precedente l’ultima variazione, in cui la singola modifica apportata dal mandante, o le varie modifiche, anche se realizzate mediante più modifiche ciascuna di lieve entità, si sommano ai fini del superamento del 5%  di variazione, considerandosi unitariamente, come detto, sia ai fini del diritto di preavviso che alla possibilità di cessare il rapporto con gli stessi diritti indennitari come se il rapporto fosse cessato ad iniziativa della preponente.

Pertanto il nuovo art. 2 rappresenta un sensibile miglioramento rispetto all’analogo dell’accordo precedente.

E giungiamo all’ARTICOLO 3: – DOCUMENTI – CAMPIONARIO

L’articolo 3 dell’accordo economico collettivo precedente recita :

All’atto del conferimento dell’incarico, all’agente o rappresentante debbono essere precisati per iscritto, in un unico documento, oltre al nome delle parti, la zona assegnata, i prodotti da trattarsi, la misura delle provvigioni e compensi e la durata, quando questa non sia a tempo indeterminato.

In ogni contratto individuale dovrà essere inserito l’esplicito riferimento alle norme dell’accordo economico collettivo in vigore e successive modificazioni.

Nel caso di affidamento del campionario, sarà altresì previsto che il valore dello stesso potrà essere addebitato all’agente o rappresentante in caso di mancata o parziale restituzione o di danneggiamento.

Nell’accordo del 2014 è stato aggiunto, in calce all’art. 3, la frase :

Non è previsto l’addebito del campionario all’agente o rappresentante per motivi diversi da quelli sopra indicati.

Si è trattato, quindi, di un rafforzamento di un concetto già espresso precedentemente, che però era opportuno per le diatribe che vi erano state e che ora la nuova formulazione intende eliminare.

E così passiamo all’ARTICOLO 4- CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO

Nell’A.E.C. del 2002 si legge:

Le norme previste nel presente accordo si applicano anche al contratto a tempo determinato in quanto compatibili con la natura del rapporto, con esclusione, comunque, delle norme relative al preavviso (di cui all’art 9).

Nei contratti a tempo determinato di durata superiore a 6 mesi, la casa mandante comunicherà all’agente o rappresentante, almeno 60 giorni prima della scadenza del termine, l’eventuale disponibilità al rinnovo o proroga del mandato.

Nell ‘accordo del 2014 è stata aggiunta in coda la frase:

In caso di rinnovo di rapporti a termine aventi lo stesso contenuto di attività (zona, prodotti e clienti) la casa mandante può stabilire un periodo di prova solo nel primo rapporto.

Questa è una modifica importante perché precedentemente si era ritenuto che la prova potesse riguardare anche i vecchi rapporti, invece qui la prova viene prevista come possibile solo avuto riguardo alla persona fisica o giuridica dell’agente per cui, se già la mandante ha avuto affidamento verso questa, non v’è motivo di effettuare nei suoi confronti nuove prove, perciò inammissibili.

E’ quindi un’altra norma a salvaguardia dell’agente, della sua professionalità e del suo diritto al preavviso.

E quindi esaminiamo l’ARTICOLO 6 – PROVVIGIONI

Il nuovo accordo disciplina, sempre ovviamente, il momento in cui sorge il diritto alla provvigione.

In sintesi:

  1. I) l’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi durante il rapporto, quando l’operazione sia stata conclusa per effetto del suo intervento;
  2. II) l’agente ha diritto alla provvigione per gli affari che non hanno avuto esecuzione per causa imputabile al preponente;

III) l’agente o rappresentante che tratta in esclusiva gli affari di una ditta ha diritto alla provvigione anche per gli affari conclusi senza suo intervento, sempreché rientranti nell’ambito del mandato affidatogli;

  1. IV) qualora la promozione e l’esecuzione di un affare interessino zone e/o clienti affidati in esclusiva ad agenti diversi, la relativa provvigione verrà riconosciuta all’agente, che abbia effettivamente promosso l’affare, salvo diversi accordi fra le parti per un’equa ripartizione della provvigione stessa;
  2. V) in caso di cessazione o risoluzione del contratto di agenzia, l’agente o rappresentante ha diritto alla provvigione sugli affari proposti prima della risoluzione o cessazione del contratto ed accettati dalla ditta anche dopo tale data;
  3. VI) l’agente o rappresentante ha diritto alla provvigione sugli affari proposti e conclusi anche dopo lo scioglimento del contratto, se la conclusione è effetto soprattutto dell’attività da lui svolta ed essa avvenga entro un termine ragionevole dalla cessazione del rapporto.

E’ nell’ultimo caso che il nuovo accordo economico collettivo aumenta, rispetto al precedente, il periodo successivo alla fine del rapporto da prendere in considerazione per il diritto all’agente disdettato alla provvigione sugli affari conclusi dopo la fine, appunto, del rapporto. E lo porta da 4 a 6 mesi.

Così infatti recita il comma 12:

Qualora nell’arco di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto, alcune delle trattative iniziate dall’agente vadano a buon fine, quest’ultimo ha diritto alle relative provvigioni. Decorso tale termine, la conclusione di ogni eventuale ordine non verrà più considerata conseguenza dell’attività da svolta dall’agente e non sarà quindi a lui dovuta alcuna provvigione.

E veniamo agli articoli di sempre maggior interesse e cioè gli

ARTICOLI 10 E 11 – INDENNITA’ DI FINE RAPPORTO

Le modifiche più importanti riguardano la quantificazione e determinazione dell’indennità meritocratica nonché la nomenclatura stessa dell’indennità in questione.

Precedentemente l’aggettivazione meritocratica era stata ammessa solo dalla controparte preponente delle aziende commerciali.

Quella delle aziende industriali non aveva mai voluto così nomenclarla volendo rimanere ancorata ad una dizione generica di indennità o componente della indennità di fine rapporto.

La introduzione della parola meritocratica ha, quindi, la sua importanza e valenza.

A questo punto è opportuno ricordare ancora una volta il sistema binario delle indennità di fine rapporto.

Uno è quello codicistico, scandito nell’art. 1751 c.c. la cui formulazione dal 1990 in poi ha inteso dare applicazione alla Direttiva Comunitaria del 1986 e che prevede, quando vi siano i requisiti meritocratici (attività performante dell’agente, vantaggio per la preponente ed equità), una assolutamente unica indennità da quantificazione in un range da zero alla media provvigionale annua dell’ultimo quinquennio o del minor periodo comunque lavorato.

L’altro, secondo la contrattualistica collettiva, che prevede il F.I.R.R. o la I.R.R., la indennità suppletiva di clientela nonché, quando presenti, i requisiti meritocratici (gli stessi fissati dall’art. 1751 c.c., attività performante dell’agente e vantaggio per la preponente) la ulteriore indennità prima qualificata come componente della indennità di fine rapporto e ora, col nuovo accordo 30/7/2014, finalmente, anche definita, meritocratica.

E’ ovvio che nei casi in cui l’indennità codicistica è migliore nel caso concreto alla somma di indennità risoluzione rapporto, suppletiva clientela e meritocratica secondo l’accordo economico collettivo, si dovrà applicare a mente dell’orientamento della Corte di Giustizia europea del 2006, l’indennità codicistica.

Non c’è dubbio però che la migliore (rispetto alla precedente) indennità meritocratica secondo l’A.E.C. 30/7/2014 rappresenta un indiscutibile ulteriore atout per così dire alle giuste pretese dell’agente.

Gli elementi che danno diritto all’indennità meritocratica, secondo il nuovo accordo economico collettivo, vengono indicati all’articolo 10, capo III) che precisa che l’indennità sia dovuta qualora, alla cessazione del contratto, l’agente o rappresentante abbia più precisamente apportato al preponente un sensibile incremento della clientela e/o del giro d’affari e procurato al preponente, anche dopo la cessazione del contratto, sostanziali vantaggi.

Il diritto di percepire l’indennità meritocratica viene perduto dall’agente qualora il contratto si sciolga per un fatto a lui imputabile.

Viene precisato che non si considerano fatti imputabili all’agente o rappresentante le dimissioni:

  1. i) dovute ad accertati gravi inadempimenti del preponente;
  2. ii) dovute ad invalidità permanente e totale;

iii) dovute ad infermità o malattia che non consentano la prosecuzione del rapporto;

  1. iv) successive al conseguimento della pensione di vecchiaia ENASARCO
  2. v) successive al conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata ENASARCO;
  3. vi) successive al conseguimento della pensione di vecchiaia INPS;

vii) successive al conseguimento della pensione anticipata INPS

Un po’ come prima, con la opportuna specificazione di entrambe le pensioni I.N.P.S. e ENASARCO.

MODALITA DI CALCOLO

Il calcolo per la quantificazione dell’indennità meritocratica passa attraverso alcune fasi:

La prima è la determinazione dell’incremento della clientela

E’ necessario innanzitutto individuare l’incremento di clientela che si è avuto durante lo svolgimento del mandato.

Detto valore si calcola tra la differenza degli imponibili complessivi [cioè ogni tipo di emolumento (vedasi art. 11, comma 1)] del periodo finale del rapporto rispetto a quello iniziale.

I periodi (finali e iniziali) da prendere in considerazione per operare il raffronto sono diversi secondo la durata prevista dalla tabella che ora dico:

primi 5 anni di rapporto – si prendono in considerazione le ultime 4 liquidazioni trimestrali rispetto alle prime 4 liquidazioni trimestrali;

dal 6° al 10° anno  –  si prendono in considerazione  le ultime 8 liquidazioni trimestrali rispetto alle prime 8 liquidazioni trimestrali; 

rapporti in corso da oltre 10 anni  – si prendono in considerazione le ultime 12 liquidazioni trimestrali rispetto alle prime 12 liquidazioni trimestrali-

II valore iniziale deve essere rivalutato applicando secondo i dati ISTAT di rivalutazione per i crediti di lavoro.

Il raffronto tra i due periodi deve essere fatto su dati omogenei e, pertanto, quindi, se ci sono state variazioni in melius o in peius nel corso del rapporto (per territorio, clientela, prodotti, ecc.)  ne va tenuto conto.

In base alla durata del rapporto va poi individuato un periodo c.d. di “prognosi” previsto secondo la ulteriore tabella, che anche se noiosa vi accenno, ma che poi ovviamente è da andarsi a vedere di volta in volta:

In pratica è un coefficiente da applicare, come vedremo in un esempio che Vi farò.

 

TIPOLOGIA                                                                                    PERIODO DI PROGNOSI

                                                                                                                                 (anni di proiezione)

Agente monomandatario con durata del mandato fino a 5 anni                                         2,25

Agente monomandatario con durata superiore a 5 anni e fino a 10 anni                          2, 75

Agente monomandatario con durata superiore a 10 anni                                                    3,25

Agente plurimandatario con durata fino a 5 anni                                                                   2,00

Agente plurimandatario con durata superiore a 5 anni e fino a 10 anni                            2,50

Agente plurimandatario con durata superiore a 10 anni                                                      3,00

Va poi determinato un ulteriore coefficiente e cioè il c.d. “tasso di migrazione” che si individua secondo la seguente tabella

TIPOLOGIA                                                                        TASSO DI MIGRAZIONE

Agente monomandatario con durata inferiore o uguale a 5 anni                                       15%

Agente monomandatario con durata superiore a 5 anni e uguale o           inferiore a 10 anni  20%

Agente monomandatario con durata superiore a 10 anni                                                    35%

Agente plurimandatario con durata inferiore o uguale a 5 anni                                         17%

Agente plurimandatario con durata superiore a 5 anni e uguale o inferiore a 10 anni  22%

Agente plurimandatario con durata superiore a 10 anni                                                      37%

Si sottrae, per il primo anno di “prognosi” il tasso di migrazione che si è dato dal valore dell’incremento degli imponibili provvigionali dell’agente.

Per gli anni successivi di prognosi lo stesso tasso di migrazione va sottratto dal valore determinato per l’anno di prognosi precedente e si sommano i risultati così ottenuti.

Vi è poi da calcolare una diminuzione forfettaria.

L’importo ottenuto si diminuisce quindi di una percentuale variabile pari:

al 10% per i contratti di agenzia di durata inferiore o uguale a 5 anni;

al 15% per i contratti di agenzia di durata superiore a 5 anni e uguale o inferiore a 10 anni

al 20% per i contratti di agenzia di durata superiore a 10 anni

Il tutto poi va confrontato con il massimo dell’indennità prevista dall’articolo 1751 c.c.

L’indennità meritocratica secondo l’A.E.C. come risultante dai complessi conteggi detti viene confrontata con quella massima dell’articolo 1751 del cod. civ.(media annua delle provvigioni degli ultimi 5 anni di durata dal rapporto, oppure nel minor periodo lavorato).

Qualora l’importo calcolato ecceda il tetto massimo del 1751 c.c. , l’indennità non potrà esser superiore a quest’ultimo.

V’è da applicare comunque la detrazione da quanto ottenuto degli importi dell’indennità di risoluzione rapporto (FIRR) e dell’indennità suppletiva di clientela.

All’indennità meritocratica come sopra calcolata va difatti sottratta l’indennità di risoluzione del rapporto (FIRR) e l’indennità suppletiva di clientela.

Il calcolo della meritocratica, lo dico più volte qui, è complesso.

Un esempio di calcolo può far meglio comprendere il sistema appena descritto, ma sinceramente la complessità permane.

Si ipotizzi allora un rapporto di agenzia con agente plurimandatario e con una durata di 7 anni.

Secondo la tabella di cui all’articolo 11, il periodo di prognosi è pari a 2,50 anni e il tasso di migrazione è del 22%.

Si ipotizzi un valore dell’incremento apportato dall’agente di € 100.000,00.

Applicazione del tasso di migrazione

Si applica il tasso di migrazione al valore dell’incremento (€ 100.000,00) per il periodo di prognosi:

1° anno     € 100.000,00 – 22%    – € 78.000,00     intero                   €   78.000,00

2° anno     €   78.000,00 – 22%    – € 60.840,00     intero                   €   60.840,00

3° anno     € 60.840,00  – 22%     – € 47.455,00     0,5             €   23.727,00

                                                                           TOTALE             € 162.567,00

Riduzione forfettaria (art. 11 comma 5)

Si abbatte l’importo di € 162.567,00 del tasso di migrazione, con la percentuale forfettaria del 15%, pari ad € 24.385,00, essendo il contratto di durata superiore a 5 anni e inferiore a 10 (art. 11 punto 5).

Si ottiene quindi la somma di € 138.182,00.

Confronto col massimo ex art. 1751 c.c.

La somma ottenuta di € 138.182,00 rispetto al massimo ex art. 1751 deve esser inferiore (cfr. art. 11, punto 6).

Ipotizzando che sia superato e che tale tetto massimo ex art. 1751 c.c. sia di                        € 100.000,00, l’importo di indennità meritocratica è ridotto a € 100.000,00.

Sottrazione di I.R.R. ( o F.I.R.R.) e indennità suppletiva di clientela.

Dalla indennità meritocratica ex A.E.C. 30/7/2014 vanno sottratte I.R.R. e I.S.C.

E’ prevista, poi, una disciplina transitoria per i mandati in corso al 30 luglio 2014 e stipulati prima del 1 gennaio dello 2014.

In questi casi si applicherà fino al 31 dicembre 2015 la disciplina prevista dall’A.E.C. 2002 e a decorrere dal 1° gennaio 2016 quella del nuovo accordo.

Il tutto sempre che il rapporto termini dopo il 31 marzo 2017.

Se cessa prima di tale data i conteggi vanno eseguiti soltanto secondo quanto previsto dall’A.E.C. 2002.

Riepilogando avremo:

  1. a) immediata applicazione del nuovo A.E.C. per i mandati in vigore dopo il 1° gennaio 2014;
  2. b) applicazione della precedente contrattazione per i mandati in vigore dal 1° gennaio 2014 e cessati prima del 31 marzo 2017;
  3. c) applicazione sia dell’A.E.C. 2002 (fino al 31.12.2015) che dell’A.E.C. 2014 (dal 1° gennaio 2016) per i contratti stipulati prima del 1° gennaio 2014 e terminati dopo il 31 marzo 2017.

Il sistema di calcolo della meritocratica, avete visto, necessita il più delle volte degli specialisti o di agenti particolarmente portati ai conteggi e ai calcoli.

Anche in altri stati membri, in verità, come la Germania, hanno elaborato complessi sistemi di calcolo.

Possiamo rilevare come questo sistema di calcolo ottemperi al dettato della fonte normativa (Direttiva Comunitaria e suo recepimento nell’art. 1751 c.c.) senza incorrere in alcuni dei motivi di censura formulati circa gli accordi previgenti dalla sentenza della Corte del Lussemburgo, che è la n° 465C/04 del 03/03/2006.

Vale a dire che l’indennità è rapportata alle provvigioni (come prevede la Direttiva)  e non ad una percentuale delle stesse. Una obiezione che potrebbe resistere è che il raffronto viene sempre fatto in seno all’incremento che ha avuto l’agente durante il suo rapporto e non rispetto all’incremento che l’agente ha apportato avuto riguardo alla situazione quo ante, cioè precedentemente alla sua assunzione del mandato.

Un altro rilievo è che la nostra giurisprudenza ha spesso affermato che il massimo previsto dall’art. 1751 c.c. (la media annua) è la misura base dell’indennità, da decrementare solo in casi poi da giustificare e motivare (ex multis: Cassazione 16347/2007).

Certamente questi sono argomenti ancora da considerare per le precedenti stesure.

Ma s’è detto pure della esigenza di mediare tra gli interessi contrapposti e ora questo è quello che si è evidentemente riusciti a strappare.

Ed invero è un buon passo avanti.

Per – GRAVIDANZA E PUERPERIO, l’art. 13 del A.E.C. porta a 12 mesi la sospensione momentanea del rapporto di agenzia nel caso di gravidanza e puerperio (prima fino a 8 mesi).

Ultima differenza sull’ ARTICOLO 14 – PATTO DI NON CONCORRENZA POST CONTRATTUALE

Le differenze rispetto alla quantificazione previgente sono di scarso contenuto perché relative solo al caso di dimissioni dell’agente, di rapporto plurimandato e solo nel caso di un mandato che non rappresenti più del 25% degli introiti dell’agente.

Nell’ipotesi in cui dovessero concorrere le tre circostanze appena descritte l’accordo economico precedente stabiliva una riduzione dell’indennità al 70% qualora le dimissioni dell’agente non fossero state determinate da:

  1. a) inadempimento della preponente;
  2. b) pensionamento di vecchiaia (ENASARCO);
  3. c) grave inabilità che non consenta più all’agente lo svolgimento dell’attività.

Il nuovo A.E.C. stabilisce che la riduzione del 70% dell’ammontare dell’indennità peri il patto di non concorrenza post contrattuale non si debba applicare in tre ulteriori ipotesi ovvero:

  1. d) pensionamento di vecchiaia anticipata ENASARCO;
  2. e) pensionamento di vecchiaia INPS;
  3. f) pensionamento di anticipata INPS;

Complessivamente, come dicevamo, quindi, il giudizio sul nuovo A.E.C. può esser senz’altro positivo e i miglioramenti rispetto al previgente accordo sono più tangibili che nelle altre precedenti occasioni.

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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Ipotesi di nullità per le cd. fideiussioni omnibus

Lo schema negoziale predisposto dall’A.B.I. viola la disciplina della Concorrenza e del Mercato

 

Le cd. “fideiussioni omnibus” sono garanzie personali, diffuse nella pratica bancaria, attraverso le quali un soggetto terzo (fideiussore) garantisce le obbligazioni già assunte o da assumersi dal debitore principale in favore del creditore.

L’A.B.I. – Associazione Bancari Italiana, nello svolgimento delle proprie prerogative associative, predispone degli schemi negoziali aventi ad oggetto condizioni generali di contratto che le Banche possono utilizzare nei rapporti con la Clientela.

Nell’ottobre dell’anno 2002, l’A.B.I. concertò con diverse associazioni di Consumatori uno schema negoziale relativo al contratto di “fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie” (cd. fideiussioni omnibus), tra l’altro già oggetto di modifiche su indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, per rilievi di incompatibilità di alcune clausole negoziali alla disciplina della Concorrenza e del Mercato.

Va, in proposito, considerato che la Banca d’Italia ha esercitato, sino all’anno 2006, le funzioni di tutela della Concorrenza nel settore bancario, successivamente attribuite all’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, e che la predetta banca d’Italia, con Provvedimento n. 55/2005, ha rilevato il contrasto di diverse disposizioni contenute nello schema negoziale predisposto dall’A.B.I. con l’art. 2, II comma, lettera a) della Legge n. 287/1990, ritenendo configurabile, nella vicenda in questione, un’intesa restrittiva della Concorrenza nel settore del credito bancario.

La Banca d’Italia ha rilevato la sostanziale uniformità dei contratti utilizzati dagli Istituti Bancari rispetto allo schema negoziale standard predisposto dell’A.B.I., riconducibile ad una consolidata prassi bancaria, anche preesistente allo schema negoziale predisposto dalla stessa Associazione, derogativo della disciplina ordinaria, suscettibile di aggravare la posizione contrattuale del fideiussore, ritenuto privo di un valida giustificazione e che, comunque, impediva un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti.

In particolare l’attenzione della Banca d’Italia si è soffermata su tre clausole negoziali contenute nello schema uniforme predisposto dall’A.B.I.: a) la clausola derogativa della disciplina di cui all’art. 1957 c.c., che esonerava il creditore dal proporre le proprie istanze nei confronti del debitore entro un termine (sei mesi) dalla scadenza dell’obbligazione principale, pena la liberazione del garante; b) la clausola di “reviviscenza” della garanzia dopo l’estinzione del debito principale avvenuto per l’adempimento, per l’ipotesi in cui il creditore fosse tenuto a restituire le somme al debitore principale, impegnando, quindi, il fideiussore a tenere indenne il creditore”; c) la clausola che sanciva la permanenza della garanzia prestata dal fideiussore anche nell’ipotesi di eventuali vizi dell’obbligazione principale, impegnando, quindi, il fideiussore a garantire il creditore anche nell’ipotesi di invalidità dell’obbligazione principale o revoca del relativo pagamento.

La valutazione effettuata dalla Banca d’Italia in ordine alla predette clausole negoziali o, meglio, agli oneri aggiuntivi posti a carico del fideiussore rispetto alla disciplina ordinaria è che non contenessero alcun legame di funzionalità volto a garantire l’accesso al credito bancario, ma che si risolvessero, esclusivamente, nel tentativo di ribaltare sul fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza proprie degli Istituti Bancari, nella fase della predisposizione del contratto o, comunque, nella sua esecuzione.

Da tale valutazione e dall’ampia diffusione, nei contratti utilizzati dagli Istituti Bancari, delle clausole oggetto di verifica, la Banca d’Italia ha tratto la conclusione che il fenomeno non poteva essere ricondotto ad una dinamica spontanea di mercato, ma piuttosto agli effetti di un’intesa tra gli operatori sulle condizioni contrattuali da sottoporre alla Clientela, con la conseguente configurabilità di una violazione dell’art. 2, II comma, lettera a), della legge n. 287/1990 e, quindi, nullità di tali clausole contrattuali.

Merita di essere segnalata una recente Ordinanza della Corte di Cassazione, con la quale è stato affermato il principio in forza del quale anche i contratti stipulati anteriormente al richiamato provvedimento n. 55/2005, emesso dalla Banca d’Italia, possono essere affetti dalla nullità innanzi richiamata; il Supremo Collegio ha, infatti, affermato che: “in tema di accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dall’art. 2 della L. n. 287/1990, la stipulazione “a valle” di contratti o negozi che costituiscono l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” (nella specie: relative alle norme bancarie uniformi A.B.I. in materia di contratti di fideiussione, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative) comprendono anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte dell’Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel Mercato a condizione che quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato nullo, considerato anche che rientrano sotto quella disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive del rapporto che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della Concorrenza” (Cass. Sez. I, Ord. 29810/2017 del 12.12.2017).

La Corte di cassazione ha, pertanto, evidenziato come l’illecito concorrenziale rappresentato dall’intesa tra gli Operatori del settore bancario relativo alle cd. “fideiussioni omnibus” realizzatasi “a monte” era, com’è, idonea a travolgere le negoziazioni “a valle”, rappresentate dalle fideiussioni prestate nei rapporti bancari, a prescindere dall’anteriorità al provvedimento adottato a conclusione dell’indagine dell’Autorità indipendente.

“Intervista” che gli Intermediari sono soliti effettuare mediante appositi “Questionari” e che devono assicurare che la raccolta delle “informazioni” sia utile a consentire l’attribuzione di un adeguato profilo di “rischio e rendimento” del Cliente e che, in ogni caso, sia effettuata in modo tale da consentire la genuinità delle “informazioni” e la consapevolezza dello stesso.

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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Gli Intermediari Finanziari e la raccolta delle informazioni

La cd. “Intervista” al Cliente e l’importanza del Questionario
per una corretta profilatura.

 

Gli Intermediari Finanziari sono tenuti a raccogliere informazioni dal Cliente (“Known your customer rule”) per la cd. “profilatura” ovvero per la definizione del profilo di “rischio e di rendimento” del Cliente, necessario parametro di riferimento per valutare l’adeguatezza di ogni Operazione d’Investimento.

Sono diverse le disposizione del T.U.F. e del Regolamento Consob che disciplinano tale attività cui sono tenuti gli Intermediari e tra questi si segnala l’art. 39 del Regolamento Consob n. 16190/2007, rubricato “Informazioni dai Clienti nei Servizi di consulenza in materia di investimenti di gestione di portafogli”, che espressamente prevede: “Al fine di raccomandare i Servizi di Investimento e gli strumenti finanziari adatti al Cliente o potenziale Cliente, nella prestazione dei Servizi di Consulenza in materia di Investimenti o di gestione di Portafoglio, gli Intermediari ottengono dal Cliente o potenziale Cliente le informazioni necessarie in merito: a) alla conoscenza ed esperienza nel settore di Investimento rilevante per il tipo di strumento o di servizio;” … “2. Le informazioni di cui al comma 1, lettera a), includono i seguenti elementi, nella misura in cui siano appropriati tenuto conto delle caratteristiche del Cliente, della natura e dell’importanza del servizio da fornire e del tipo di prodotto od operazione previsti, nonché della complessità e dei rischi di tale servizio, prodotto od operazione: a) i tipi di Servizi, Operazioni e Strumenti Finanziari con i quali il Cliente ha dimestichezza; b) la natura, il volume e la frequenza delle Operazioni su strumenti finanziari realizzate dal Cliente ed il periodo durante il quale queste operazioni sono state eseguite; c) il livello di istruzione, la professione o, se rilevante, la precedente professione del Cliente”.

L’attività di “Raccolta delle Informazioni dal Cliente” appare strumentale al dovere previsto per gli Intermediari di fornire informazioni adeguate in merito ai prodotti finanziari proposti alla clientela e ciò non solo nell’interesse del singolo investitore, ma a tutela di un interesse generale quale quello dell’integrità e del buon funzionamento dei mercati finanziari e, proprio per tale caratteristiche è da considerarsi inderogabile alla volontà dei contraenti.

A riprova della rilevanza che riveste l’attività di “Raccolta delle Informazione dal Cliente”, l’Autorità Europea di Vigilanza, istituita con Regolamento UE n. 1095/2010, ha fornito diverse indicazione in proposito negli “Orientamenti ESMA” concernenti alcuni aspetti dei requisiti di adeguatezza prescritti dalla MIFID, tra l’altro, recepiti dalle Linee Guida dell’A.B.I., che, seppur non rappresentano obblighi assoluti per gli Intermediari, costituiscono criteri d’interpretazione dei requisiti di adeguatezza della Direttiva M.I.F.I.D. ed hanno lo scopo di garantire un’applicazione comune, uniforme e coerente della stessa.

In particolare, l’Orientamento n. 31 prevede che: “Prima di prestare Servizi di Consulenza in materia di Investimenti o di gestione di Portafogli, le Imprese di Investimento devono sempre raccogliere le <<Informazioni necessarie>> sulle conoscenze e le esperienze del Cliente, sulla situazione finanziaria e sui suoi obiettivi di Investimento”.

Vanno, poi, segnalati gli “Orientamenti” che prevedono la necessità, per l’Intermediario, di adottare politiche e procedure adeguate atte a consentire loro la possibilità di comprendere i dati essenziali sui loro Clienti e di predisporre “questionari” da far compilare ai loro Clienti o da compilare con loro durante le discussioni, strumenti abitualmente utilizzati dagli Intermediari.

Meritano, inoltre, di essere richiamati quei “Orientamenti” che incidono, in modo rilevante, sull’organizzazione interna degli Intermediari al fine di soddisfare esigenze di tutela del Cliente come:  – a) l’Orientamento n. 25 che prevede che: “le imprese di investimento sono tenute a garantire che il personale coinvolto in aspetti rilevanti del processo di adeguatezza possieda un livello adeguato di conoscenze e competenze”; – b) l’Orientamento n. 41 che prevede che: “le imprese di investimento dovrebbero adottare misure ragionevoli per garantire che le informazioni raccolte sui clienti sono affidabili”; – c) l’Orientamento n. 47 che prevede che: “se l’impresa di investimento ha un rapporto continuativo con il cliente, dovrebbe adottare procedure adeguate al fine di conservare informazioni aggiornate ed adeguate sul cliente”.

A ciò va aggiunto che l’attività di “Raccolta delle Informazioni” rientra tra quei obblighi di comportamento che la Legge pone a carico degli Intermediari Finanziari e che gli stessi sono tenuti ad adempiere con diligenza, correttezza e trasparenza, anche nel rispetto degli artt. 1176 e 1375 c.c. e che, ai sensi dell’art. 23, VI comma, del T.U.F., sono gli Intermediari tenuti, nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento, a provare di aver agito con la specifica diligenza richiesta.

Da quanto innanzi evidenziato possiamo, pertanto, concludere che vi è una sensibile attenzione alla “profilaturadel Cliente anche mediante la cd. “Intervista” che gli Intermediari sono soliti effettuare mediante appositi “Questionari” e che devono assicurare che la raccolta delle “informazioni” sia utile a consentire l’attribuzione di un adeguato profilo di “rischio e rendimento” del Cliente e che, in ogni caso, sia effettuata in modo tale da consentire la genuinità delle “informazioni” e la consapevolezza dello stesso.

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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Centrale Rischi della Banca d’Italia: cos’è e come funziona?

Il Cliente ha diritto ad ottenere il risarcimento dei danni per l’illegittima segnalazione “a sofferenza” effettuata dall’Intermediario Bancario.

 

La Centrale Rischi della Banca d’Italia è un sistema informativo strutturato che raccoglie e fornisce informazioni sull’indebitamento della Clientela degli Istituti Bancari ed ha lo scopo di migliorare la qualità degli impieghi e favorire la stabilità del sistema creditizio nel suo complesso.

Attraverso la Centrale Rischi gli Intermediari ottengono informazioni utili per la valutazione del merito creditizio della Clientela ed, in genere, per la gestione e l’analisi del rischio del Credito, rappresentati da un flusso di dati statistici complessivi sul mercato del Credito.

Gli Intermediari segnalanti, tenuti alla diligenza qualificata del cd. “accorto banchiere”, devono garantire l’esattezza dei dati segnalati ed, in particolare, l’aggiornamento e la veridicità degli stessi, in quanto sono gli unici depositari delle informazioni che generano le segnalazioni che, in caso di errore, devono essere corrette.

Tra le informazioni fornite dagli Intermediari merita, particolare, attenzione la segnalazione “a sofferenza”, dal momento che rappresenta un alert circa la condizione di “insolvenza” del Cliente e, quindi, consente agli Intermediari di effettuare valutazioni prudenziali circa l’opportunità di concedere ulteriore Credito o di mantenere in essere affidamenti in precedenza concessi.

Appare, pertanto, evidente l’estrema rilevanza per l’accesso al Credito Bancario per la Clientela di tale informazione, dal momento che una segnalazione “a sofferenza” effettuata da un Intermediario può precludere al Cliente l’erogazione di nuovo Credito o, addirittura, determinare la revoca di affidamenti già in corso con altri Intermediari.

Proprio per la rilevanza di tale informazione la Circolare della Banca d’Italia n. 139/1991, al capitolo II, sezione 2, paragrafo 1.5, rubrica “Sofferenze”, dal 4.3.2010, prevede per l’Intermediario segnalante l’obbligo di inviare una preventiva informazione scritta al Cliente, che deve contenere una motivazione dettagliata e specifica circa le valutazioni effettuate dall’Intermediario in ordine allo stato patrimoniale del Cliente, in modo da consentire allo stesso di essere a conoscenza delle ragioni sottese alla valutazione effettuata dall’Intermediario e, nel caso, di formulare altrettante specifiche e dettagliate contestazioni.

Nell’ipotesi in cui la valutazione effettuata dall’Intermediario non dovesse essere corretta appare possibile configurare una responsabilità in capo all’Intermediario sia di natura contrattuale, per la violazione dei canoni di correttezza e buona fede, che devono essere intesi come fonte di integrazione del contratto intercorso tra le parti, richiesti nello svolgimento di ogni rapporto obbligatorio secondo le norme generali ex artt. 1374 e 1375 c.c. sia di natura extracontrattuale, per la violazione di diritti dell’oggetto leso (Tribunale di Verona 27.4.2014).

La Giurisprudenza ritiene che si possa proporre cumulativamente sia l’azione contrattuale sia quella extracontrattuale essendo, tra l’altro, possibile anche configurare, per un medesimo caso concreto, il concorso tra titoli di responsabilità (Cassazione Civile, Sezione I, 21.6.1999, n. 6233).

Va, inoltre, considerato che l’illegittima segnalazione “a sofferenza da parte dell’Intermediario può generare per il Cliente segnalato un danno di natura patrimoniale, rappresentato dalle conseguenze negative di carattere economiche connesse alla segnalazione ed, in particolare, connesse ad eventuali revoche di affidamenti in essere presso altri Intermediari o per la mancata erogazione di ulteriore Credito.

Nel contempo, l’illegittima segnalazione “a sofferenza può generare un danno di natura non patrimoniale, rappresentato dalla lesione all’immagine e, nel caso di soggetti imprenditori, alla reputazione commerciale.

Merita, infine, adeguata considerazione la determinazione del danno occorso al Cliente nel caso di erronea, o meglio, illegittima segnalazione “a sofferenza” effettuata presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia, considerato che può risultare difficoltoso, per il danneggiato, fornire specifica e dettagliata prova dell’entità del danno subito.

In proposito è bene evidenziare che gli artt. 1256 e 2056 c.c. consentono, espressamente, di determinare equitativamente l’entità del risarcimento del danno nel caso in cui risulti impossibile o, comunque, estremamente difficoltoso fornire la prova dell’entità del pregiudizio sofferto dal danneggiato, sempre a condizione che risulti certa l’esistenza del pregiudizio sofferto (Cass. n. 8421/2011).

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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