Autorizzazione commerciale e condono edilizio

Se è legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale, relativamente ad immobili per i quali pende domanda di condono edilizio non ancora esitata dall'amministrazione

 

La disamina della presente questione si risolve nello stabilire se sia legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale, ovvero alla somministrazione di alimenti e bevande, in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata da parte dell’amministrazione comunale.

Giova premettere, al riguardo, che l’analisi delle disposizioni normative di settore (quella commerciale, da un lato, e quella condonistica, dall’altro) hanno alimentato la querelle che, solo di recente, ha trovato soluzione nelle, non sempre univoche, pronunce dei Tribunali amministrativi.

In maggior dettaglio, la normativa commerciale (D.lgs 114/98, Legge 287/91 e D.lgs n. 59/2010) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che devono sussistere per il rilascio delle relative autorizzazioni, che le attività devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienica-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici.

Precedentemente all’entrata in vigore della suddetta disciplina normativa (e nel vigore dell’art. 24, comma III, Legge 426/71), la giurisprudenza amministrativa era pervenuta alla conclusione che non competesse all’amministrazione verificare, in sede di rilascio dell’autorizzazione, la compatibilità dell’esercizio commerciale con la disciplina urbanistica o con la normativa edilizia, in quanto gli interessi diversi da quelli commerciali, indicati nell’abrogato art. 24 della Legge 426/71, dovevano essere tutelati con altre modalità ed in diverse sedi (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 30 settembre 1986, n. 1957; Tar Veneto, 4 dicembre 1985, n. 942; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 6 giugno 1988, n. 177; Tar Lazio, Latina, 27 gennaio 1990, n. 41; Tar Toscana, sez. II, 20 marzo 1996, n. 155; Tar Sardegna, 23 agosto 1996, n. 1971).

Tale orientamento giurisprudenziale, rinvenibile oggi sono in alcune isolate pronunce (cfr. Cons. Stato, sez. III, 02 dicembre 2003, n. 1879), muoveva dalla considerazione per cui la disciplina dettata in materia di commercio non subordinava esplicitamente il rilascio o il mantenimento dell’efficacia dell’autorizzazione all’accertamento della compatibilità del pubblico esercizio da autorizzare con le norme e prescrizioni urbanistiche, ma si limitava a stabilire che l’esercizio dell’attività non esclude il rispetto delle norme e prescrizioni suddette, restando salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 2 agosto 1993, n. 659).

Con l’entrata in vigore della Legge 287/91, prima, e del D.lgs 114/98 e del D.lgs n. 59/2010, poi, è maturata la consapevolezza che le disposizioni in materia di commercio stabiliscono un stretto collegamento tra la programmazione delle rete commerciale e la pianificazione urbanistica, sicché l’apertura e degli esercizi commerciali e di quelli di somministrazione di alimenti e bevande, è subordinata alle previsioni di quest’ultima, trattandosi di un rapporto tra attività di gestione e attività programmatoria (cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 03 febbraio 2006, n. 160; Tar, Lombardia, 17 ottobre 2008, n. 5154), anche in considerazione della circostanza per cui l’amministrazione comunale non potrebbe tollerare una situazione che, per altri versi, dovrebbe reprimere (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 08 agosto 2007, n. 7409; TRGA, Bolzano, sez. I, 01 ottobre 2003, n. 427).

Con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali e di somministrazione presuppongono la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2001; Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2521; Tar Campania, Napoli, sez. III. 23 febbraio 2003, n. 1250).

Tale orientamento, peraltro, è stato di recente ribadito dal Supremo Consesso di giustizia amministrativa il quale ha avuto modo di chiarire che “in ordine alla necessaria relazione di conformità tra autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, del resto, dispongono norme ancora più puntuali. Così, il già citato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426, al terzo comma, prevede che l’autorizzazione al commercio “fermo il rispetto dei regolamenti locali di polizia urbana, annonaria, igienico-sanitaria e delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto con le disposizioni del piano e della presente legge”. Un’applicazione specifica del principio – in termini letterali indubbiamente più chiari – si rinviene, per gli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nell’art. 3 L. 25 agosto 1991 n. 287, il quale dispone che le attività relative devono essere esercitate “nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate” (settimo comma). Dal confronto tra i due testi, per altro, si evince agevolmente come, se non vuol considerarsi del tutto pleonastica nel primo, la salvezza delle norme in questione ha il valore, fatto palese nel secondo, di elemento costitutivo della fattispecie normativa…..Senza in alcun modo disconoscere, quindi, che nelle materie del commercio e dell’edilizia poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, deve ammettersi che la stretta connessione tra di esse ha indotto il legislatore ad indicare lo stesso fatto, rappresentato dalla conformità alle disposizioni più volte citate, quale presupposto per l’esercizio di poteri propri sia della materia urbanistica che di quella del commercio. A chiusura del sistema, del resto, va notato che tra le norme di cui il menzionato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426 richiede l’osservanza vi sono quelle della stessa legge n. 426 e, quindi, anche quelle più sopra considerate che istituiscono tra i due ambiti, urbanistico-edilizio e commerciale, la relazione che si è detta. Si ritiene, in conclusione, di poter affermare che alla stregua della normativa vigente l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistico-edilizia…..rappresenta un momento istruttorio necessario, in quanto diretto ad accertare l’esistenza di un presupposto espressamente previsto dalla legge e che, pertanto, sia inibito all’autorità amministrativa il rilascio degli atti autorizzativi quando detta conformità faccia difetto” (cfr. in terminis Cons. Stato, sez. V, n. 3639/2000; Cons. Stato, sez. IV, 3027/2007).

Con la conseguenza per cui “l’attività commerciale non può essere autorizzata in immobili difformi dalla disciplina urbanistica” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 aprile 2005, n. 1543; Cons. Stato, sez. V, 8 luglio 2008, n. 3398).

Nonostante l’approdo ermeneutico cui è giunta la giurisprudenza amministrativa in merito alla normativa dettata in subiecta materia, rimaneva irrisolta la questione relativa alla legittimità o meno del rilascio di un titolo autorizzatorio per immobili coperti da domanda di condono senza che la stessa fosse ancora esitata: questione, quest’ultima, alimentata dalle incertezze determinate dalla normativa condonistica di cui alla legge 47/85.

Partitamente, la disposizione a carattere generale di cui all’art. 44, primo comma della legge 47/85 stabilisce espressamente che “dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino alla scadenza dei termini fissati  dall’art. 35, sono sospesi i procedimenti amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione, quelli penali nonché quelli connessi all’applicazione dell’articolo 15 della legge 6 agosto 1967, n. 765, attinenti al presente capo.”

Sospensione questa che comporta, quale conseguenza concreta, che la situazione dell’immobile e di ogni rapporto sussistente con il proprietario deve restare immutata rispetto alla situazione dell’immobile stesso alla data di entrata in vigore della legge, in condizioni di reciprocità, nel senso che la menzionata situazione di fatto non può né regredire, mediante iniziative della P.A. che riducono le facoltà di utilizzazione già in atto, né tantomeno può essere fatta avanzare, attraverso delle attività del privato che aumentino le facoltà già in atto.

E ciò con la ulteriore conseguenza che l’Amministrazione sarebbe tenuta a garantire al titolare della istanza di sanatoria, il mantenimento della destinazione commerciale e dell’uso dell’immobile in atto a quella data, con l’obbligo corrispettivo per esso “titolare” di non introdurre modificazioni rispetto a quella condizione di fatto innanzi indicate.

Pertanto, ove l’immobile oggetto di domanda di condono avesse destinazione commerciale, l’Amministrazione, al momento del rilascio dell’autorizzazione, non sarebbe tenuta a verificare la conformità del menzionato locale alla normativa edilizio-urbanistica, bensì esclusivamente a garantire al privato la continuazione nella utilizzazione dell’immobile secondo la propria destinazione.

Tali conclusioni, peraltro, sarebbero avallate dal regime transitorio di utilizzazione dei beni, nella condizione fissata alla data di entrata in vigore della legge 47/85, laddove si consideri che la disposizione di cui all’art. 40 della L. 47/85, fino a quando l’Amministrazione non abbia espresso un provvedimento di diniego alla istanza di sanatoria, ammette sia la commerciabilità per atto tra vivi, sia la possibilità di cederli in locazione.

Peraltro, con riferimento ad edifici destinati ad impianti produttivi, – esercizi commerciali, attività alberghiere – il combinato disposto dell’art. 34, ultimo comma e dell’art. 35, 3° comma, lett. d), ha stabilito un’oblazione pari al 50% di quella per le “residenze”, con parametri di riduzione o maggiorazione, connessi a classi di ampiezza delle opere abusive, perché venisse prodotto un certificato di iscrizione alla C.C.I.A.A., “da cui risulti che la sede dell’impresa” alla data di entrata in vigore della legge “è situata nei locali per i quali si chiede la concessione in sanatoria”; sede dell’impresa questa costituente quindi conditio sine qua non per poter beneficiare delle riduzioni per le destinazioni produttive, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 34.

L’entrata in vigore della legislazione sul “condono edilizio”, legittimerebbe, dunque, la facoltà del proprietario di poter utilizzare l’immobile per la medesima destinazione d’uso consolidatasi nell’immobile e comunque in atto alla data di presentazione della istanza di condono.

A suffragio di tale tesi, la giurisprudenza di alcuni Tribunali Amministrativi Regionali aveva chiarito che “l’abusività del fabbricato attiene soltanto al momento genetico non potendosi escludere, nel quadro della normativa introdotta dalla legge n. 47/85, la sua postuma legittimazione e la titolarità, in capo al proprietario che di quel bene ha chiesto il condono, di una aspettativa giuridica  alla citata legittimazione tramite appunto condono. Da quanto precede discende che l’abusività del fabbricato in questione (del quale è stato chiesto il condono) è condizionata al diniego del beneficio e perciò deve ritenersi sospesa in pendenza della relativa determinazione dell’Amministrazione. Orbene prima che intervenga tale diniego (che consoliderebbe l’abusività dell’edificio), appare conforme a logica e a principi di tutela della proprietà privata che il titolare dell’aspettativa possa, in pendenza della domanda di condono, compiere atti conservativi del bene e mantenere integre le sue ragioni” (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. III, 2 febbraio 2001, n. 546/2001)

In ragione di tanto, da più parti, si era ipotizzata la possibilità di rilasciare autorizzazioni commerciali relativamente ad immobili per i quali pendeva domanda di condono non ancora esitata dall’amministrazione comunale stante l’obbligo – discendente ex lege – di garantire la continuazione nella utilizzazione del locale per la destinazione commerciale.

Per converso, dalla lettura della normativa di riferimento (D.lgs 114/98, Legge 287/91 e D.lgs n. 59/2010) discende, in positivo, che l’esistenza di un valido titolo concessorio costituisce indispensabile presupposto per il rilascio dell’autorizzazione commerciale e alla somministrazione di alimenti e bevande e, in negativo, che la stessa preclude all’amministrazione di assentire autorizzazioni in locali privi delle necessarie autorizzazioni edilizie.

Ed invero, l’autorità preposta deve verificare la sussistenza, oltre che dei requisiti di carattere soggettivo e oggettivo previsti dalla normativa di riferimento, anche degli ulteriori parametri indicati dalla legge, quali, in particolare, la conformità della destinazione d’uso dell’immobile da destinare ad attività commerciale ed il rispetto delle norme, prescrizioni, autorizzazioni in materia edilizia ed urbanistica.

In linea, dunque, con la granitica giurisprudenza secondo cui è “illegittima l’autorizzazione di somministrazione a causa della inidoneità dei locali, privi di concessione edilizia” (cfr. Tar Campania Napoli, sez. III, n. 4493/01; Tar Campania, 16 novembre 2000, n. 4285; Tar Campania Napoli, sez. III, 19 luglio 2001, n. 3442; Tar Campania Napoli, sez. IV, n. 164/1996; Tar Lazio Roma, sez. II, 12 novembre 2003, n. 9894; Cons. Stato, sez. V, n. 5854/04; Cons. Stato, sez. V, 28 giugno 2000, n. 3639; Cons. Stato, sez. V, 17 ottobre 2000, n. 5656) si è attestata la successiva giurisprudenza che ha avuto modo di chiarire come la mera presentazione dell’istanza di condono non risulta sufficiente a confortare del rispetto delle norme, prescrizioni vigenti in materia edilizia, atteso che “la domanda di sanatoria conferma l’abusività dei locali e non sostituisce certo la concessione”(cfr. sul punto Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 7324/2005; Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 4493/01).

E ciò in quanto, le attività commerciali e di somministrazione“devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni ed autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici”. Come appare pacifico già dalla mera lettura della disposizione in esame, il legislatore ha inteso affermare che, ai fini del rilascio delle autorizzazioni per l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, l’autorità amministrativa competente deve verificare non solo la ricorrenza di presupposti e requisiti previsti…………. e, più in generale, dalle disposizioni volte alla disciplina delle attività commerciali, ma anche quelle più specificamente relative alla legittima utilizzabilità dei locali ai fini dello svolgimento dell’attività autorizzanda, sia sotto il profilo edilizio-urbanistico sia sotto il profilo igienico-sanitario. Ne consegue che l’accertamento della conformità del locale alla disciplina edilizia ed urbanistica, in primis asseverata attraverso la verifica della realizzazione del locale stesso sulla base di idonei e legittimi titoli autorizzatori, nonché alla disciplina igienico-sanitaria, asseverata attraverso idonea verifica, costituiscono presupposti indefettibili per il rilascio dell’autorizzazione. Di modo che, laddove il locale indicato come luogo di svolgimento dell’attività non risulti conforme alle citate prescrizioni, l’autorizzazione………. Nel caso di specie, il locale indicato ai fini dello svolgimento dell’attività da autorizzarsi è oggetto di istanza di condono edilizio ………….. sulla quale l’amministrazione comunale non si è pronunciata, come si evince sia dal certificato di agibilità provvisoria…………. Orbene, tale circostanza rende illegittima l’autorizzazione rilasciata in quanto essa riguarda una attività da svolgersi in locale che risulta, per un verso, non conforme alla disciplina edilizia e urbanistica, né “ricondotto a conformità”, per effetto dell’istanza di condono presentata. …Né conduce a diversa conclusione quanto dedotto sia dal Comune sia dalla controinteressata, in ordine alla commerciabilità del bene, in pendenza di decisione sulla istanza di condono, poiché, nel caso di specie, non si discute della trasferibilità di un bene, o dei diritti sul medesimo, bensì della assentibilità di un provvedimento di natura commerciale, subordinata alla positiva verifica della conformità dei locali di svolgimento dell’attività alla normativa edilizio-urbanistica; conformità, come si è detto, assente al momento del rilascio dell’autorizzazione impugnata (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. III, 02/11/2015,  n. 5081; in terminis Tar Campania, Napoli, sez. II, 03 novembre 2005, n. 9711/06).

Di recente, peraltro, il principio è stato ribadito dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa il quale ha chiarito che “l’art. 3 comma 7, l. 25 agosto 1991 n. 287, nel disporre che le attività di somministrazione di alimenti e bevande devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, richiede ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni che l’autorità amministrativa verifichi non solo la presenza dei presupposti e requisiti in materia di attività commerciale, ma accerti anche la conformità dei locali, da utilizzare per l’autorizzanda attività, alle norme predette sotto il profilo sia edilizio-urbanistico che igienico-sanitario; di conseguenza è illegittima l’autorizzazione rilasciata relativamente ad un’attività di somministrazione di bevande da svolgersi in un locale non conforme alla disciplina edilizia e urbanistica né ricondotto a conformità per effetto dell’accoglimento dell’istanza di condono presentata ma non ancora definita”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2009, n. 3262).

È evidente, dunque, che le enunciazioni giuridiche dei Giudici amministrativi ribadiscono, correttamente interpretando la normativa di riferimento, orientamenti giurisprudenziali assolutamente pacifici che precludono il rilascio di un’autorizzazione alla somministrazione in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata.

La preclusione al rilascio di idoneo titolo commerciale in pendenza di domanda di condono non ancora esitata rileva, peraltro, sotto altro e diverso profilo.

Segnatamente, come noto, il rilascio dell’autorizzazione commerciale presuppone il previo rilascio del certificato di agibilità ai sensi dell’art. 24 e ss D.P.R. 380/2001, come sostituito, da ultimo, dall’articolo 3, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (ovvero il consolidarsi della Scia presentata dal privato).

La normativa richiamata, così come affermato da granitica giurisprudenza, chiarisce che il certificato de quo (recte, il c.d. consolidarsi della segnalazione di inizio attività) non ha più solo finalità igienico-sanitarie – proprie della licenza di abitabilità e agibilità previste dalla legislazione previgente – ma può essere rilasciata solo ed esclusivamente allorché siano stati accertati dall’amministrazione idonei requisiti di sicurezza degli edifici, degli impianti installati nonché la conformità dello stesso alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie.

Con la conseguenza che la pendenza della domanda di condono, rimarcando l’abusività dell’immobile, preclude all’amministrazione il rilascio anche del certificato di agibilità.

In giurisprudenza è stato ripetutamente affermato che “se i locali sono abusivi l’agibilità non può essere rilasciata, non avendo alcun significato dichiarare agibile un locale non conforme alla disciplina urbanistico –edilizia o del quale non è stata o è stata falsamente attestata la conformità al progetto approvato, perché il progetto non è stato approvato o l’opera è stata realizzata in difformità da esso”(cfr. Tar Veneto, Venezia, sez. III, n. 4702/03; Tar Veneto, sez. II, 17 novembre 1997, n. 1569; Cons. Stato. Sez. VI, 15 luglio 1993, n. 535; Tar Puglia Bari, sez. II, 15 giugno 1995, n. 467; Cass. Pen., sez. III, 18 novembre 1997, n. 3905; Cass.Pen., sez. III, 10 gennaio 1994, n. 72).

Ed ancora “L’esercizio dissociato dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la realizzazione di più interessi pubblici, specie ove tra di essi sussista un obiettivo collegamento, contrasta con il basilare criterio di ragionevolezza e, pertanto, è in evidente contrasto con il principio di buona amministrazione esplicitato anche dalla l. n. 241 del 1990: pertanto, pur non disconoscendosi che poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, la stretta connessione tra diversi tipi di provvedimento può legittimamente indurre ad indicare il medesimo fatto quale presupposto per l’esercizio di poteri diversi e dunque, nella specie, è legittimo il diniego dell’agibilità dei locali per ragioni paesistico – urbanistiche”(cfr. Consiglio Stato , sez. V, 05 aprile 2005, n. 1543).

Dello stesso avviso, la dottrina prevalente che subordina “il rilascio del certificato di agibilità alla accertata conformità del manufatto alla normativa edilizia ed urbanistica”(N.Assini-P.Mantini, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè edizione, 2007, pag. 835 e ss; M. Baroni, I presupposti per la licenza di abitabilità: non è vero che occorrono solo requisiti igienico-sanitari, TAR, 1987, II, 89 ss; V.Vincenzi, Abitazioni (igiene delle), EGI, I, Roma, 1988; C. De Caro Bonella, La licenza di abitabilità, Napoli, 1978, pag. 30 ss; V. Domenichelli, Alcune (tristi) riflessioni sulla nuova disciplina del certificato di abitabilità, D. REG (Veneto), 1986, pag. 445 ss; M.S.Giannini, In tema di licenza di abitabilità, FA, 1956, I, 2, 517 ss; F. Gaualandi, La disciplina del certificato di abitabilità: nuove problematiche alla luce del D.P.R. 22 aprile 1994, RG ED, 1995, II, pag. 53 ss; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2002, pag. 351 ss.).

E ciò in quanto “il procedimento di rilascio come un momento riepilogativo del controllo sull’attività edilizia, “data la stretta connessione fra norme previste dalla leggi sanitarie e quelle sancite dalla legge urbanistica in materia di costruzioni, che non consente una distinzione tra tutela di fini esclusivamente igienico-sanitari e tutela di fini esclusivamente urbanistico-edilizi”(cfr. De Caro Bonella, op. cit., pag. 30 ss).

Appare evidente, anche per tale ulteriore considerazione, che in ogni caso il certificato di agibilità (il consolidarsi della relativa SCIA) non può essere rilasciato laddove l’immobile risulta abusivo, e dunque realizzato in assenza dei necessari titoli abilitativi che ne certifichino la conformità alle prescrizioni e di carattere squisitamente urbanistico, sebbene pendente una domanda di condono.

Con la conseguenza per cui sarebbe illegittimo il rilascio da parte dell’amministrazione di una certificazione provvisoria di agibilità “non prevista dall’ordinamento che, comunque, può riguardare solo manufatti conformi alla disciplina edilizia ed urbanistica, e sulla cui base, pur avendo essa efficacia temporaneamente definita (un anno), è stata rilasciata l’autorizzazione senza particolari prescrizioni temporali e quindi fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello del rilascio”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2009, n. 3262).

Recentemente è stato, peraltro, chiarito che “la conformità dei manufatti alle norme urbanistico – edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli artt. 24, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 e 35, comma 20, L. n. 47 del 1985; del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico – edilizia” (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. VI, 29 gennaio 2016, n. 592; T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, Sent., 01-08-2012, n. 1447).

Con la conseguenza per cui “il certificato di agibilità non può essere ottenuto, in relazione ad immobili abusivi, se non quando risulti rilasciato il permesso di costruire in sanatoria” (cfr. in terminis, Tar Campania, Napoli, Sezione VII, 21 dicembre 2012 n. 5293).

E ciò in quanto, non essendo previsto nel nostro ordinamento giuridico la figura del titolo abilitativo provvisorio tale figura si porrebbe in contrasto con il principio di tipicità che sovrintende il principio dell’adozione di atti amministrativi validi ed efficaci.

L’agibilità provvisoria materializzerebbe aberrante figura di titolo rilasciato dall’amministrazione in precario che, viceversa, non ha cittadinanza nell’ordinamento amministrativo italiano.

Conclusivamente, relativamente ad immobili per i quali pende domanda di condono è precluso all’amministrazione il rilascio di idoneo titolo commerciale sia per conclamato contrasto con le prescrizioni edilizie ed urbanistiche – come detto non ricondotte a conformità dalla pendenza della istanza di sanatoria – sia per la preclusione che incontra la P.A. nel consentire il consolidarsi della Scia presentata dal privato ai sensi degli artt. 24 e ss. del D.P.R. 380/2001.

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Regolamenti Edilizi e Temporalizzazione dell’azione amministrativa

Sulla potestà regolamentare dei Comuni in materia edilizia

 

L’attribuzione ai Comuni dello specifico potere regolamentare in materia edilizia inizia storicamente con la Legge comunale e provinciale n. 3702 del 08/10/1859 la quale aveva riguardo solo ed esclusivamente all’ornato pubblico ed alla polizia locale.

Solo successivamente, ovvero con l’entrata in vigore della Legge n. 2248 del 20 marzo 1865, all. F, il Legislatore attribuì ai Comuni specifici poteri in materia di regolamentazione dell’attività edilizia.

In maggior dettaglio, il regolamento di attuazione alla Legge Fondamentale citata, ovvero l’R.D. n. 2321 del 8.06.1865, determinava le materie che potevano formare oggetto di regolamentazione quali: la nomina e la composizione delle commissioni edilizie; la polizia della viabilità interna al centro abitato; l’ornato; l’intonaco e la tinta della facciate e dei muri; l’altezza massima dei fabbricati; la posizione e la conservazione dei numeri civici; la posizione e la conservazione dei marciapiedi e il controllo dei lavori da farsi dai delegati del municipio al fine di constatare l’osservanza delle disposizioni legislative e regolamentari.

Con l’entrata in vigore della Legge Urbanistica n. 1150 del 17 agosto 1942, all’art. 33, si stabilì il contenuto dei regolamenti edilizi, le procedure di formazione ed approvazioni degli stessi (art. 36), nonché prescrizioni di carattere puramente procedimentali (quali, a titolo esemplificativo, le modalità di presentazione delle domande di licenza – poi permesso a costruire –, di compilazione dei progetti, etc.)

Solo con il D.P.R. 380/2001 i regolamenti edilizi sono stati oggetto di una disciplina specifica e dettagliata.

In particolare, l’art. 2, comma IV, del T.U. Edilizia stabilisce che “i comuni, nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’art. 3 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, disciplinano l’attività edilizia”.

Secondo il successivo art. 4, comma I, T.U. cit. “il regolamento che i comuni adottano ai sensi dell’art. 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze”.

Tuttavia, mentre l’abrogato art. 33 della L.U. attribuiva ai Comuni, attraverso l’elencazione delle specifiche materie oggetto della sua disciplina, anche la piena competenza a regolare la materia stessa attraverso norme di carattere procedimentale, il D.P.R. n. 380/2001, all’art. 4, attribuisce ai Comuni unicamente il potere di emanare norme in materia di “modalità costruttive”.

Con ciò adombrando l’impossibilità da parte delle amministrazioni comunali di inserire tra le prescrizioni a carattere regolamentare norme che scandissero modi, termini e tempi del procedimento tanto per i singoli interventi edilizi quanto per i piani attuativi.

Ciò posto, la prima questione da esitare consiste nello stabilire la sussistenza o meno in capo alle amministrazioni comunali di specifiche funzioni amministrative in merito alla procedimentalizzazione dell’attività edilizia.

Va da subito evidenziato che ai sensi dell’art. 7 del D.lgs n. 267/2000, i Comuni sono titolari, nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto, di un potere regolamentare autonomo per le materie di loro competenza.

Ai sensi del successivo art. 13 del D.lgs n. 267/2000 spettano ai Comuni tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione del territorio comunale, principalmente per l’assetto e l’utilizzazione del territorio, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.

Va, peraltro, osservato che ai sensi dell’art. 114, comma 2, della Costituzione “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione”, con ciò consacrando l’autonomia degli enti locali attraverso i propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (cfr. Corte costituzionale, 14 novembre 2005, n. 417; Corte costituzionale, 10 novembre 2004, n. 334; T.A.R. Campania Salerno, sez. I, 04 luglio 2006, n. 943).

Peraltro, il successivo art. 118 della Costituzione, così come novellato dalla Legge Costituzionale n. 3/2001, conferma l’espressa attribuzione ai Comuni di una posizione primaria in materia di funzioni amministrative.   

Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “in ossequio al disposto di cui all’art. 5 l. n. 142/1990 (oggi D.P.R. n. 267/2000), gli enti locali possono, nel rispetto della legge, emanare norme di natura regolamentare da applicare in sede di esame di istanze attinenti a procedimenti rimessi dalla legge alla loro competenza” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30 dicembre 2008, n. 6610).

Ed ancora “il potere regolamentare degli enti locali trova fondamento nell’art. 5 l. 8 giugno 1990 n. 142 (v. ora l’art. 7 d.lg. 18 agosto 2000 n. 267) ed ancor prima copertura costituzionale nell’art. 117 cost. (come riscritto dalla riforma del titolo V della Costituzione); pertanto, anche al di là delle materie contemplate espressamente, la potestà regolamentare degli enti locali (sia pur nei limiti dettati dall’ordinamento) può spaziare oltre le materie contemplate espressamente, in considerazione della caratterizzazione degli enti locali come enti a fini generali”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2004, n. 6317; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 17 marzo 2003 n. 959).

La potestà regolamentare dei Comuni in materia edilizia, dunque, deve ritenersi espressione della più generale potestà di autonomia normativa comunale riconosciuta dagli artt. 5 e 128 della Costituzione.

Le disposizioni costituzionali e normative richiamate, a ben vedere, da un lato aprono uno spazio di libertà quanto alla disciplina delle funzioni amministrative – che devono, in ogni caso, essere definite dal potere regolamentare –, dall’altro attribuiscono ai Comuni il potere di disciplinare, all’interno dei regolamenti edilizi, le procedure autorizzative, i limiti e le forme del potere di controllo mediante definizione degli interventi che sono da considerarsi in concreto rilevanti sotto il profilo della temporaneità, consentendo agli Enti Locali di conseguire determinate finalità proprie delle funzioni ad essi attribuite (cfr. Tar Puglia, Lecce, sez. I, 13 gennaio 2003, n. 260).

Quanto alla natura del regolamento edilizio, peraltro, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire che lo stesso “esprimendo l’autonomia riconosciuta ai comuni dall’ordinamento ha natura giuridica di fonte normativa secondaria e come tale è subordinato al criterio ermeneutico della coerenza con le fonti primarie ed è applicabile ex officio dal giudice in base al principio iura novit curia”(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17 dicembre 2003, n. 8580, in Foro amm., CDS, 2003, 3639; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 05 gennaio 2007, n. 7).

Ovviamente, la presenza di una completa disciplina legislativa comporta l’individuazione di limiti normativi più pregnanti rispetto alla potestà regolamentare dei Comuni ammissibile laddove non si traduca in contraddizioni evidenti “fra la norma locale e la legge”(cfr. in giurisprudenza Tar Lazio, Roma, sez. II, 17 dicembre 1975, n. 567; Tar Lazio, Roma, sez. II, 22 dicembre 1975, n. 607; Tar Lazio, Roma, sez. II, 04 febbraio 1976, n. 64; in dottrina A. Travi, Legalità delle funzioni e rapporti tra fonti nell’amministrazione locale, in Diritto Amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, a cura di Allegretti, Orsi Battaglini, Sorace, Rimini, 1987, p. 771; Nicola Assini e Pierluigi Mantini, Manuale di diritto Urbanistico, III ed. Giuffrè, 2007, p.666)

Ciò posto, e fatta questa doverosa premessa di carattere storico-giuridico, resta da stabilire se sia legittimo o meno l’inserimento da parte delle amministrazioni comunali nell’ambito dei regolamenti edilizi di prescrizioni che, in ossequio al principio della temporalizzazione dell’azione amministrativa, fissino termini ulteriori per la conclusione del procedimento con conseguente comminazione di sanzioni per il caso in cui tali termini fossero elusi dal privato richiedente.

Va al riguardo evidenziato che ai sensi dell’art. 20 TU Edilizia “La domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell’articolo 11, va presentata allo sportello unico corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti [dal regolamento edilizio] [….]. (comma 1). “Il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entita’ rispetto al progetto originario, puo’, nello stesso termine di cui al comma 3, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L’interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, e’ tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta di cui al presente comma sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di cui al comma 3” (comma IV). “Il termine di cui al comma 3 puo’ essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano gia’ nella disponibilita’ dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa” (comma V).

La disposizione normativa statale che scandisce, in via generale ed astratta, i termini di conclusione del procedimento.

Come si vede, l’art. 20 del D.P.R. cit. nulla dispone nella ipotesi in cui l’interessato non ottemperi, nel modo più assoluto, alla richiesta di integrazione documentale avanzata dall’amministrazione non prevedendo né un termine entro cui integrare la pratica edilizia in conformità alle richieste dell’Amministrazione, né le conseguenze che maturano nell’ipotesi in cui spirasse infruttuosamente tale termine.

Con ciò rimettendo alla discrezionalità dell’Amministrazione comunale la determinazione dell’uno e dell’altro profilo, ovviamente con la duplice direttiva, per un verso, di non ledere l’affidamento del privato (es. assegnando un termine troppo breve) e, per altro, di non paralizzare l’azione amministrativa che, comunque, deve andare avanti, essendo impensabile la sua coercizione in ragione dell’incuranza del privato.

Ed è proprio nelle maglie di tale vuoto normativo – la cui permanenza nell’ordinamento potrebbe, per tesi, legittimare la pendenza sine die del procedimento amministrativo – che si innesta la problematica circa la possibilità da parte delle amministrazioni di inserire prescrizioni regolamentari che prescrivano ipotesi decandeziali e/o archiviatorie laddove il privato ometta di integrare la documentazione afferente il rilascio del permesso a costruire.

Come chiarito, una tale prescrizione risulterebbe funzionale a soddisfare esigenze di efficienza, efficacia ed imparzialità dell’azione amministrativa e, di fatto, interverrebbe a colmare – nel rispetto della gerarchia delle fonti – una carenza normativa riconoscibile nell’art. 20 del D.P.R. 380/01 attraverso l’esaurimento, in via generale ed astratta, di quella discrezionalità rimessa dai legislatori nazionali e regionali agli Enti Locali attraverso previsioni regolamentari che impongono termini e modi entro cui integrare le pratiche edilizie; la stessa, peraltro, attuerebbe il principio di autoresponsabilità del privato, specialmente laddove egli è titolare del potere di iniziativa e di impulso della determinazione dell’amministrazione (cfr. Consiglio di Stato n. 1815 del 1995).

In tale prospettiva, ragioni di speditezza dell’azione amministrativa (cfr. sul punto T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 08 febbraio 2005, n. 883), rendono chiaramente legittime tali previsioni regolamentari in quanto sarebbe “fuori logica e in palese contrasto con elementari principi di ragionevolezza che la necessità di termini certi ed espressi per la conclusione del procedimento amministrativo costituisca un onere esclusivamente a carico dell’amministrazione e non si configuri, altresì, per il privato l’onere di leale e sollecita collaborazione all’azione della P.A., soprattutto ove questa sia finalizzata all’emanazione di un provvedimento richiesto dal medesimo e ampliativo della sua sfera giuridica”(cfr. Tar Campania, Napoli, sez. VI, 16 luglio 2008, n. 9905); le stesse, peraltro, sarebbero in linea  con il “principio di temporalizzazione dell’azione amministrativa, correttamente intesa come azione che richiede necessariamente, per la sua piena efficacia ed economicità, il concerto e la collaborazione degli amministrati”(Tar Campania, Napoli, sez. VI, 16 luglio 2008, n. 9905).

Conclusivamente, una prescrizione regolamentare che, in ossequio al principio della temporalizzazione dell’azione amministrativa, riconnetta ipotesi decandenziali a carico del privato che ometta di integrare la pratica edilizia nel termine ivi stabilito, “trova fondamento nel generale potere comunale di dettare regole di dettaglio per lo svolgimento delle procedure di sua competenza, nell’alveo delle leggi statali e regionali (art. 29, comma 2, della Legge 7 agosto 1990, n. 241) è rivolta ad evitare la pendenza a tempo indeterminato di procedure relativamente alle quali il privato non adempia ad un esigibile onere di collaborazione. Si persegue, così, il razionale obiettivo di scongiurare un vano dispendio di energie pubbliche e di dare la necessaria attenzione a pratiche realmente rispondenti ad un attuale interesse del privato. L’esigenza di speditezza dell’azione amministrativa e di certezza della relativa tempistica, da ultimo rafforzata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, non può, infatti, gravare solo sulle spalle dell’amministrazione ma impone al privato un onere di leale e sollecita collaborazione all’efficiente dispiegarsi della procedura innescata da una sua istanza”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 dicembre 2009, n. 8971/2009).

Sul punto è stato chiarito che “il comune è legittimato a introdurre nel proprio ordinamento locale di settore, in quanto coerente sia con la “ratio” che con i contenuti della disciplina di principio e regionale di dettaglio, una norma secondaria nel regolamento edilizio comunale che semplifichi il procedimento amministrativo edilizio”(cfr. ex plurimis T.A.R. Lazio Latina, 12 marzo 2005, n. 305).

Trattasi di norma secondaria semplificativa del procedimento amministrativo edilizio che il Comune ha titolo ad introdurre nel proprio ordinamento locale di settore in quanto coerente sia con la ratio che con i contenuti della disciplina di principio e ragionale di dettaglio (cfr. in dottrina Giorgio Pagliari in Corso di Diritto Urbanistico, Giuffrè editore, 2002, pp. 397 e ss) e che in attuazione dell’antico brocardo diligentibus iura succurrunt, non si pone in contrasto con la disciplina statale di cui all’art. 20 del D.P.R. n. 380/2001, in quanto, come detto, tale ultima norma annette alla richiesta di documentazione integrativa l’effetto di interrompere il decorso del termine procedimentale ma non esclude la possibilità che i regolamenti comunali, in sede di disciplina attuativa dei procedimenti di competenza, fissino uno spazio temporale massima decorso il quale l’inerzia del privato comporti l’archiviazione della procedura in ragione del disinteresse manifestato nei fatti dall’istante.

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Immobile abusivo aggiudicato a seguito di procedure esecutive

Condono di immobili abusivi aggiudicati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali.

 

Nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 25 novembre 2013, n. 5598

 

“l’art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (come aggiunto dall’art. 8-bis, comma 4, del d.l. 23 aprile 1985, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 1985, n. 298 e, successivamente, sostituito dall’art. 7, comma 2, del d.l. 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 1988, n. 68)[….] fissa un termine perentorio ai fini della presentazione dell’istanza di sanatoria per opere abusive relative a immobili assoggettati a procedure esecutive che però deve razionalmente raccordarsi all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio […].

Ne consegue che nella specie il termine ex art. 40 comma 6 non poteva decorrere dalla data dell’atto di trasferimento, dovendo riferirsi invece al momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva […]”.

Cons. Stato, sez, IV, 25 novembre 2013, n. 5598

Leonardo Spagnoletti, Consigliere, Estensore

(Omissis)

Fatto e Diritto

1.) L’avv. N. D. C. ha acquistato in comproprietà con M. G. B. un immobile residenziale ubicato in Roma, alla via F. n. 16, piano I, scala A, interno 4, con annesse pertinenze, costituite da un terrazzo di mq. 36 circa al piano attico e da un locale al piano servizi, in esito a procedura esecutiva immobiliare.

L’immobile è stato trasferito in proprietà con decreto del Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Roma del 14 giugno 2001, trascritto il 20 settembre 2001, che disponeva il rilascio dell’immobile, poi conseguito, a seguito di precetto e primo accesso, in data 10 dicembre 2001, come da relativo verbale.

Con istanza pervenuta all’amministrazione comunale il 18 marzo 2002, le comproprietarie acquirenti hanno chiesto di poter condonare un’opera abusiva realizzata sul terrazzo al piano attico, integrante ambiente “residenziale” di mq. 26,98 (per volume vuoto per pieno di mc. 70,41), con versamento in unica soluzione dell’oblazione di € 1.505,00, della quale, secondo la dichiarazione sostitutiva di atto notorio allegata all’istanza, esse hanno avuto contezza soltanto a seguito del rilascio dell’immobile.

Con determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, comunicata con successiva nota del 18 giugno 2002, è stata rigettata l’istanza di condono edilizio “…essendo decorsi oltre 120 giorni – termine previsto dall’art. 40 co. 6 ex lege 47/85 – dalla data di trasferimento dell’immobile interessato dalle opere abusive”.

Con il ricorso in primo grado n.r. 9573/2002, l’avv. D.C., costituita in proprio, ha impugnato il diniego di condono edilizio, deducendone l’illegittimità sotto vari profili, profilando subordinata questione di costituzionalità dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985.

Con la sentenza n. 3851 del 4 maggio 2011 il ricorso è stato rigettato, sul rilievo che:

– l’art. 40 comma 6 introduce eccezionale fattispecie di sanatoria di opere edilizie nel quadro del regime a sua volta derogatorio introdotto dalle disposizioni sul condono edilizio, ricollegando il termine per la presentazione dell’istanza irrefragabilmente all’atto del trasferimento, connesso all’esito di procedure esecutive anche concorsuali, senza che possa invocarsi alcun affidamento o possa rilevare la buona fede dell’acquirente;

– non sussistono evidenti profili di non manifesta infondatezza dell’evocata questione di costituzionalità dell’art. 40 comma 6 proprio in funzione del rilievo oggettivo dell’abuso edilizio, dell’inesistenza di profili di affidamento o di rilievo della buona fede dell’acquirente e della “inusuale lunghezza” del termine per la presentazione della domanda di sanatoria.

Con appello notificato il 4 novembre 2011 e depositato il 1° dicembre 2011, l’avv. D.C. ha impugnato la sentenza, deducendo in sintesi i seguenti motivi:

1) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 586 c.p.c. – Omesso esame punti e documenti decisivi della controversia – Motivazione insufficiente, contraddittoria, illogica, perché la disposizione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985, interpretata alla luce della sua ratio e coordinata con quella dell’art. 586 c.p.c., deve essere intesa nel senso che il termine decorre non già dalla data del decreto di trasferimento dell’immobile, sebbene da quella della sua consegna all’acquirente, nella quale si rende conoscibile l’effettivo stato di fatto e quindi anche l’esistenza di eventuali opere abusive.

2) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 586 c.p.c. – Omesso esame punti e documenti decisivi della controversia – Motivazione insufficiente, contraddittoria, illogica, ribadendosi che nel caso di specie non viene in rilievo una astratta tutela dell’affidamento dell’acquirente, sebbene la conoscibilità dell’esistenza dell’abuso edilizio.

3) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione della legge n. 47/1985 – Violazione dell’art. 112 c.p.c. – Omesso esame punti decisivi della controversia – Motivazione illogica, insufficiente, contraddittoria, con riferimento alla ritenuta manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, riproposta sub:

4) Questione di illegittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 42 e 97 Cost., in quanto l’art. 40 comma 6, se interpretato nel senso preclusivo della sanatoria, introduce ingiustificata disparità di trattamento in danno di acquirenti d’immobili abusivi in esito a procedure esecutive, manifestamente incolpevoli ed estranei all’abuso, con compressione ingiustificata del diritto di proprietà, per esposizione alle sanzioni repressive edilizie, ivi compresa demolizione e acquisizione gratuita dell’area di sedime del manufatto-

Costituitasi in giudizio, Roma Capitale, con memoria difensiva depositata in vista dell’udienza di discussione, ha dedotto a sua volta l’infondatezza dell’appello, richiamando la motivazione della sentenza gravata.

Con memoria di replica, l’appellante ha insistito per l’accoglimento dell’impugnazione.

All’udienza pubblica del 19 marzo 2013 l’appello è stato discusso e riservato per la decisione.

2.) L’appello in epigrafe è fondato e deve essere accolto, onde in riforma della sentenza gravata e in accoglimento del ricorso in primo grado deve essere annullata la determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, salvi i provvedimenti ulteriori dell’amministrazione in ordine all’esame della domanda di condono edilizio.

Com’é noto l’art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (come aggiunto dall’art. 8-bis, comma 4, del d.l. 23 aprile 1985, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 1985, n. 298 e, successivamente, sostituito dall’art. 7, comma 2, del d.l. 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 1988, n. 68) dispone che:

Nella ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge”.

La disposizione fissa un termine perentorio ai fini della presentazione dell’istanza di sanatoria per opere abusive relative a immobili assoggettati a procedure esecutive che però deve razionalmente raccordarsi all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio.

Nel caso di specie, il trasferimento riguardava in via principale l’appartamento, ex se legittimo, nonché due pertinenze, tra le quali il terrazzo in piano attico, riconosciute come tali e come parti indivisibili dell’immobile soltanto in esito alla perizia di stima del valore dell’immobile.

In effetti né nell’avviso di vendita all’incanto, né nella perizia di stima, né infine nel decreto di trasferimento si fa menzione alcuna della realizzazione sul terrazzo di un manufatto.

Ne consegue che nella specie il termine ex art. 40 comma 6 non poteva decorrere dalla data dell’atto di trasferimento, dovendo riferirsi invece al momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva, che, in difetto di elementi di segno contrario, e secondo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà allegato all’istanza di condono, deve farsi risalire al momento della conseguita consegna dell’immobile, per effetto dell’esecuzione dell’ordine di rilascio, ossia al 10 dicembre 2001, data rispetto alla quale la presentazione dell’istanza di sanatoria (18 marzo 2002) è affatto tempestiva.

3.) Alla stregua dei rilievi che precedono, sono pertanto fondati il primo e secondo motivo d’appello, che assorbono l’evocata questione di costituzionalità della disposizione, da interpretare nei sensi, costituzionalmente adeguati, che precedono.

4.) In relazione alla novità e peculiarità delle questioni esaminate, sussistono giusti motivi per dichiarare compensate per intero tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

(Omissis)

*** Nota a sentenza

Sommario

1. Premessa – 2. La vicenda devoluta al Consiglio di Stato – 3. Sulla decorrenza del termine di 120 giorni per la sanatoria ex art. 40 comma VI, Legge n. 47/85 – 4. Conclusioni

  1. Premessa

La decisione in commento, rimeditando e mitigando il contrastante e più restrittivo orientamento dei Tribunali Amministrativi Regionali (cfr. infra),  affronta il problema della decorrenza del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono ex art. 40 comma VI della Legge n. 47/85 per gli immobili, o loro parti, abusivi ed assegnati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali e concorsuali.

La recentissima decisione del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa muove più che da una interpretazione letterale e testuale della disposizione normativa presa in considerazione – rectius, art. 40 comma VI Legge n. 47/85 e art. 46 comma 5 D.P.R. n. 380/2001 –  da una “interpretazione politicamente consapevole, dove la fedeltà al testo ed all’intentio non si misura in chiave meramente grammaticale ma per la capacità di dare prosecuzione agli intendimenti costituenti”[1].

Attraverso tale interpretazione, infatti, il Consiglio di Stato “apre” ad una ermeneusi, per così dire, fluida non tanto della perentorietà del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono – che è, e rimane, “termine perentorio” – quanto piuttosto del dies a quo della sua decorrenza il quale non può che, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, decorrere dalla data di effettiva scoperta e/o conoscenza dell’opera abusiva oggetto di procedura.

I Giudici di Palazzo Spada, in riforma alla sentenza resa in prime cure, hanno ritenuto illegittimo il diniego espresso dall’amministrazione comunale in merito a una istanza di condono edilizio presentata dall’acquirente di un immobile in esito a procedura esecutiva immobiliare in ragione dello spirare del termine di 120 giorni decorrenti, secondo l’orientamento sino ad oggi prevalente ed al quale i Primi Giudici hanno sostanzialmente aderito, dalla data di notifica del decreto trasferimento dell’immobile interessato dalle opere abusive.

Le motivazioni della decisione in commento offrono lo spunto per una riflessione su tale disciplina speciale contenuta all’interno di una norma di sanatoria a sua volta speciale.

  1. La vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato

I soggetti acquirenti, in esito a procedura concorsuale, di un immobile ad uso residenziale con annesse pertinenze, alla data dell’immissione in possesso ed a seguito del relativo accesso a mezzo Ufficiale Giudiziario – avvenuti entrambi ben oltre il termine di 120 giorni dalla data di notifica del decreto di trasferimento –, constatavano che sul terrazzo, accorpato all’unità immobiliare oggetto di assegnazione e posto al piano attico dell’immobile, insisteva una struttura di tipo metallico, posta nel lastrico solare, infissa al suolo, saldamente ancorata ai muri perimetrali portanti, fornita di porta anteriore e posteriore, anch’esse metalliche.

Tale ulteriore immobile non veniva menzionato né nella relazione di consulenza tecnica d’Ufficio resa nell’ambito del procedimento di esecuzione immobiliare nè nel Decreto di Trasferimento reso dal Tribunale Ordinario né nel foglio degli annunzi legali sul quale veniva pubblicizzata la vendita immobiliare né in alcun altro documento relativo alla procedura esecutiva e conseguente vendita all’incanto né, infine, negli ulteriori atti di trasferimento conseguenti all’aggiudicazione.

Con il decreto di trasferimento dell’immobile, peraltro, il Giudice dell’Esecuzione ingiungeva al conduttore dello stesso, ai sensi dell’art. 586 comma II c.p.c., di rilasciare l’immobile nella piena disponibilità delle aggiudicatici.

Notificato atto di precetto per il rilascio alla debitrice esecutata i soggetti acquirenti si immettevano nel possesso dell’immobile solo successivamente.

Evidente, dunque, che nonostante gli effetti reali del decreto di trasferimento si fossero antecedentemente prodotti (deposito del decreto di trasferimento in cancelleria/notifica dello stesso ai soggetti aggiudicatari), gli acquirenti venivano immessi nel possesso solo due mesi più tardi, allorquando si cristallizzavano gli effetti del trasferimento effettivo del decreto attraverso la concreta immissione nel possesso dell’immobile.

Pertanto, immessisi nel possesso ed avuta contezza di ulteriori immobili abusivi e non menzionati agli atti della procedura, gli acquirenti presentavano istanza di condono ai sensi dell’art. 40 comma 6 della Legge 47/85 rispettando, in ogni caso, il termine di 120 giorni dalla data di immissione in possesso dell’immobile ed allegando dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà circa la data di ultimazione delle opere e la prova del versamento della relativa oblazione.

La suddetta istanza veniva rigettata dall’amministrazione comunale per essere stata la stessa presentata dopo il decorso dei 120 giorni dalla data del decreto di trasferimento dell’immobile.

Il provvedimento reiettivo veniva impugnato innanzi al Tribunale Amministrativo di primo grado, il quale – aderendo all’orientamento che ritiene inderogabile e decadenziale il termine di 120 giorni decorrente dalla data di trasferimento dell’immobile – rigettava il ricorso in quanto “l’abuso edilizio costituisce una pacifica fattispecie di illiceità permanente riferita all’immobile, non sanabile né dal tempo né dalla buona fede dell’acquirente, e che la possibilità di procedere alla sua sanatoria in via generale ed astratta, costituisce una palese deroga ai fondamentali principi di legalità, responsabilità e certezza giuridica tipici di ogni moderno Stato di diritto, conseguendone il carattere del tutto eccezionale, e quindi tassativo e non suscettibile di applicazione analogica o estensiva, sia delle norme di c.d. “condono edilizio” approvate dal legislatore pro tempore, e quindi della legge n. 47/1985 e dei termini tassativi da essa posti per le domande di condono per gli abusi preesistenti (salvo ulteriori deroghe di legge), sia, ed a maggior ragione, dell’art. 40, comma 6, norma speciale all’interno di una norma speciale di sanatoria, che pone per la sanatoria uno specialissimo termine “permanente” di 120 giorni da qualsiasi acquisto a seguito di procedure concorsuali o fallimentari” e che, peraltro, “né l’interessata aveva alcun margine di affidamento nel computare il decorso del termine in modi diversi dal chiaro disposto normativo, né il Comune aveva alcun margine istruttorio e discrezionale per poter accogliere l’istanza giunta fuori termini[2].

In altri termini, nella prospettiva del Collegio territoriale, trattandosi di una normativa speciale – derogatoria rispetto ai principi di legalità, responsabilità e di certezza giuridica – la stessa non sarebbe stata suscettibile di una interpretazione estensiva ovvero analogica; di talché, il termine di 120 giorni per la presentazione dell’istanza condonistica sarebbe dovuta irrimediabilmente farsi decorrere dalla data di adozione del decreto trasferimento dell’immobile.

  1. Sulla decorrenza del termine di 120 giorni per la sanatoria ex art. 40 comma VI, Legge n. 47/85

Come chiarito nelle premesse, la questione circa la decorrenza del termine di 120 giorni per la presentazione della sanatoria speciale ex art. 40 comma VI Legge n. 47/85 è stata oggetto, negli ultimi anni, di un acceso dibattito giurisprudenziale che ha dato luogo a non poche incertezze in ambito applicativo.

Si contrapponeva, infatti, l’orientamento giurisprudenziale che individuava il dies a quo nel momento di piena ed effettiva conoscenza del decreto di trasferimento emesso dal giudice dell’esecuzione  da parte dell’assegnatario [3] ovvero nella notifica dello stesso [4] a quello, molto più restrittivo, che lo individuava dalla data di emissione del decreto di trasferimento dell’immobile[5] e dal deposito nella cancelleria del Giudice dell’Esecuzione.

Con la sentenza in commento, invero, i Giudici di Palazzo Spada, pur non mettendo in discussione la perentorietà del termine di 120 giorni, chiariscono che la sua decorrenza non può che raccordarsi “all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio…che….deve farsi risalire al momento della consegna dell’immobile” [6].

L’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato dell’art. 40 comma 6 della Legge 47/85, invero, appare l’unica interpretazione conforme a Costituzione e politicamente consapevole, dove, come chiarito in precedenza, la fedeltà al testo non si misura in chiave meramente grammaticale ma proprio in virtù della capacità di dare prosecuzione agli intendimenti voluti dal legislatore nella materia trattata.

E ciò in quanto la normativa urbanistica, a partire dalla Legge 47/85, è stata animata dall’intento di approntare una speciale tutela del credito in caso di espropriazione forzata di un bene abusivo quando il credito fosse sorto prima dell’entrata in vigore di una norma di sanatoria e l’abuso sarebbe potuto essere sanato dal debitore, ma non lo è stato per sua negligenza.

Tale principio risulta sotteso sia all’articolo 40 comma 6 della legge 47/85 che all’articolo 46 comma 5 del T.U. dell’edilizia, approvato con il D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 [7] (ex art. 17 legge 47/85).

Entrambe le disposizioni normative dopo aver sancito la sanzione di nullità degli atti tra vivi, aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici o loro parti se da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del titolo abilitativo o della domanda di sanatoria o della dichiarazione di anteriorità al 1° settembre 1967 [8], stabiliscono un’eccezione, escludendo dalla generale sanzione di nullità (propria dei trasferimenti volontari) l’immobile abusivo, aggiudicato o assegnato “a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali”.

L’articolo 40, ultimo comma, Legge 47/1985, così come l’art. 46 comma 5 del D.P.R. n. 380/2001, nel dare la possibilità all’assegnatario/aggiudicatario di presentare la domanda di condono entro 120 giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile vede risiedere la sua ratio nell’utilità sociale a regolarizzare un immobile abusivo in presenza di determinate condizioni.

Ciò posto, al fine di comprendere appieno l’approdo ermeneutico cui sono giunti i Giudici di Palazzo Spada, va evidenziato che la normativa di riferimento – secondo cui  “nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge” – non distingue tra effetti reali ed effetti possessori/conoscitivi; allorquando il comma 6 dell’art. 40 cit., fa riferimento al semplice trasferimento dell’immobile non può riferirsi alla mera adozione del decreto di trasferimento ovvero alla notifica dello stesso, ma al trasferimento di fatto e di diritto dell’immobile attraverso il conseguimento dell’effetto reale ed all’adempimento degli effetti obbligatori (rectius, ordine di rilascio) intrinseci di tutte le procedure esecutive: in sintesi, all’esito del completamento di una vera e propria fattispecie a formazione progressiva[9] che vede la genesi nell’aggiudicazione dell’immobile ed il suo completamento nel rilascio dello stesso attraverso l’immissione in possesso, così come emerge dalla struttura normativa dell’art. 586 c.p.c.[10]

Alla luce di tanto, è evidente che il termine di 120 giorni inizi a decorrere dal completamento, come detto, di una fattispecie a formazione progressiva[11] ovvero dall’immissione in possesso nell’immobile da parte dell’acquirente contemplata quale effetto naturale del trasferimento della proprietà ai sensi dell’art. 586 comma II c.p.c.

Solo, infatti, all’atto del verificarsi di tutti gli effetti giuridici del trasferimento reale si rendono conoscibili all’acquirente le irregolarità c.d. quiescenti attraverso l’accertamento della consistenza fisica dell’immobile al fine di comparare lo stato di diritto alla stato di fatto e di presentare, dunque, la domanda di condono per la sanatoria dello stesso.

Una diversa interpretazione, invero, contrasterebbe con i principi ispiratori della normativa di riferimento e con quelli di intrasmissibilità della sanzione.

Come noto, infatti, effetto della irregolarità di un immobile è la possibilità di applicazioni delle relative sanzioni.

Il problema, dunque, si pone proprio nelle compravendite immobiliari in termini di trasmissibilità degli effetti pregiudizievoli delle irregolarità urbanistiche a carico dell’acquirente.

Le sanzioni in materia edilizia pur avendo carattere reale, esercitandosi le stesse sul bene, ed apparendo a prima vista intrinsecamente trasmissibili in ragione del loro carattere punitivo[12], non possono essere poste a carico di altri soggetti rimasti estranei alla commissione degli abusi.

Per gli stessi, invero, è opportuno ricordare che la sanzione della nullità degli atti di trasmissione dei beni tende proprio a consentire l’applicazione di tali sanzioni solo ed esclusivamente nei confronti del responsabile dell’abuso che non può evidentemente avvantaggiarsi dall’attività illecita, ovvero contra ius[13].

La rimozione di tale limite legale in senso alle procedure esecutive non potrebbe di certo avere ricadute negative a carico dell’acquirente/aggiudicatario in buona fede.

Sarebbe, invero, sostanzialmente ingiusto che l’acquirente in buona fede fosse assoggettabile a sanzione per abusi commessi sullo stesso dal venditore e destinatario di sanzioni punitive quali, a titolo esemplificativo, ad interventi ripristinatori ovvero di confisca (con la relativa area di sedime) e debba soggiacere a pene per colpe da lui non commesse.

Paradossalmente, tale interpretazione legittimerebbe l’amministrazione ex art. 31 D.P.R. n. 380/2001 a porre in essere tutti gli atti consequenziali, anche l’acquisizione al patrimonio gratuito dell’area di sedime[14] e, dunque, anche di quelle porzioni legittimamente acquistate dall’aggiudicatrio in senso ad una procedura esecutiva[15].

Ed è proprio in virtù di tali finalità che l’impianto normativo di riferimento ha previsto (a titolo di sanzione punitiva) l’intrasmissibilità degli immobili abusivi ovvero, in caso di trasferimento nell’ambito di procedure esecutive, la possibilità dell’acquirente di sanare i relativi abusi proprio in quanto estraneo alla realizzazione degli stessi e di evitare, a titolo esemplificativo, tanto la sanzione della riduzione in pristino (peraltro, posta a suo carico) quanto quella della confisca che mantengono carattere spiccatamente personali e funzionali a punire il responsabile dell’abuso (artt. 27 e 31 del D.P.R. n. 380/2001).

È evidente, dunque, che attraverso la norma in commento il legislatore[16] ha inteso evitare che l’incommerciabilità del bene – connotato, come detto, da un chiaro profilo sanzionatorio personale – si risolva ingiustificatamente in danno del creditore – rectius, acquirente – incolpevole il quale rischierebbe di vedersi applicate sanzioni (in termini ripristinatori, espropriativi e di incommerciabilità) per fatti dallo stesso non compiuti[17] enfatizzando e tutelando, dunque, il principio di certezza dei rapporti di chi abbia acquistato inconsapevolmente un immobile abusivo onde escludere rischi derivanti da procedimenti sanzionatori[18].

In sintesi, la rimozione del limite legale operata dalle disposizioni normative che consentono la trasmissibilità della res abusiva (operando di fatto una scissione tra proprietario e responsabile dell’abuso anche con riferimento al regime applicativo delle sanzioni) giammai potrebbe pregiudicare proprio chi, “ignaro dell’abuso”[19], abbia acquistato un immobile in virtù di tale regime derogatorio di trasferibilità dei beni abusivi.

Una diversa interpretazione, come implicitamente affermato dalla sentenza in commento, insinuerebbe non pochi dubbi di costituzionalità dell’art. 40 della citata legge, per contrasto con gli artt. 3, 42 e 97 della Carta Costituzionale, ponendo a carico dell’acquirente un adempimento il cui assolvimento risulterebbe impossibile nel caso in cui il decreto di trasferimento venisse notificato oltre i centoventi giorni dalla sua formale adozione, senza che all’interessato sia data alcuna possibilità di conoscere altrimenti l’esistenza dell’abuso edilizio.

Peraltro, una interpretazione dell’art. 40 comma 6 Legge 47/85, quale quella fornita dai precedenti giurisprudenziali richiamati, determinerebbe non solo una ingiustificata disparità di trattamento, in ragione di una diversa tutela apprestata dall’ordinamento, a svantaggio di coloro che acquistino in deroga al principio dell’incommerciabilità di beni abusivi ma, massimamente, una ingiustificata, illogica e sproporzionata compressione e limitazione del diritto di proprietà: diritto soggettivo riconosciuto e tutelato nelle forme più ampie dal nostro ordinamento e dalla Costituzione, qualificato come assoluto ed intangibile, e che verrebbe oltremodo compromesso dall’eventuale confisca dei beni con la relativa area di sedime per fatti non imputabili all’aggiudicatario, violando, altresì, i principi di legalità, di personalità della pena (art. 27 Cost.) e delle sanzioni (art. 23 Cost.) che, irragionevolmente, l’acquirente si troverebbe a subire per fatti da lui non commessi.

La vigenza del principio generale di prevalenza dei valori costituzionali imponeva un’interpretazione della norma nei sensi indicati nella sentenza in commento.

Alla luce di tanto, è evidente che laddove la norma di riferimento indica il trasferimento dell’immobile come momento che segna il dies a quo del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono di certo non si riferisce all’adozione del decreto da parte del G.E. ma al trasferimento effettivo dell’immobile (reale e possessorio) onde consentire all’acquirente di avere piena conoscenza dell’abuso e di sanare lo stesso, secondo un atteggiamento consapevole, onde evitare di essere assoggettato a sanzioni per fatti da lui non commessi.

  1. Conclusioni

Alla luce della sentenza in commento, dunque, il termine di 120 giorni per la presentazione della speciale sanatoria ex art. 40 Legge n. 47/85 di immobili abusivi aggiudicati o assegnati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali non può che decorrere dalla effettiva conoscenza dell’abuso coincidente con la immissione in possesso nell’immobile oggetto di trasferimento.

[1] Cfr. Dizionario di Diritto Pubblico a cura di Sabino Cassese, Interpretazione di Mario Dogliani, pp. 3179 e ss, Giuffrè Editore, ed. 2006

[2] Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 4 maggio 2011, n. 3851.

[3] Cfr. sul punto Tar Toscana, Firenze, sez. III, 12 giugno 2013, n. 967 secondo cui “la formulazione letterale della norma di cui all’art. 40 ultimo comma è alquanto generica e imprecisa, parlando di 120 giorni dall’atto di trasferimento, lasciando all’interprete la esatta individuazione dell’adempimento della procedura esecutiva cui far specifico riferimento. In assenza di una formale comunicazione della Cancelleria all’acquirente, non pare possibile far coincidere tale dies a quo con fasi, quali l’emissione del decreto di trasferimento da parte del giudice dell’esecuzione o anche il deposito del decreto stesso in Cancelleria, che non sono suscettibili di conoscenza da parte del partecipante all’asta, con il concreto rischio di precludere all’aggiudicatario l’utilizzo di una parte del termine che il legislatore ha messo a suo disposizione per la presentazione della domanda di sanatoria. La norma deve invece essere letta nel senso che il termine inizia a decorrere dal momento in cui l’aggiudicatario sia stato posto concretamente in grado di conoscere il decreto di trasferimento emesso a suo favore”.

[4] Cfr. sul punto Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 29 novembre 2006, n. 13408, secondo cui “il termine di centoventi giorni entro il quale, ai sensi dell’art. 40 l. 28 febbraio 1985 n. 47, l’aggiudicatario di un manufatto abusivo, acquistato a conclusione di procedure esecutive può presentare domanda di sanatoria comincia a decorrere non dalla data di adozione del decreto di trasferimento ma da quella della sua notifica”; Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 5 settembre 2003, n. 7339; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 26 luglio 2011, n. 1493; Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 7 dicembre 2006,  n. 10225.

[5] Cfr. Tar Sicilia, Palermo, sez, II, 17 luglio 2013, n. 1505; Tar Sicilia, Catania, 14 giugno 2005, n. 1003 secondo cui “ai sensi dell’art. 40 gli immobili sottoposti ad esecuzione (definizione ampia nella quale rientrano l’esecuzione individuale così come quella concorsuale) possono essere sanati in un termine diverso dalle normali scadenze per le richieste di condono edilizio; tale termine decorre dalla emissione del decreto di trasferimento”.

[6] Conformemente si rinveniva un solo precedente Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 1366/2007 secondo cui “la formula normativa (“120 giorni dall’atto di trasferimento”) deve essere interpretata nel senso che il termine decorre dal momento in cui, per effetto del trasferimento, il nuovo proprietario sia stato posto concretamente in grado di prendere conoscenza degli eventuali abusi edilizi da sanare e predisporre la documentazione necessaria

[7] Cfr. art. 46 comma 5 che, con previsione analoga all’art. 40 comma 4 della Legge n. 47/85, stabilisce che “. Le nullità di cui al presente articolo non si applicano agli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali. L’aggiudicatario, qualora l’immobile si trovi nelle condizioni previste per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovrà presentare domanda di permesso in sanatoria entro centoventi giorni dalla notifica del decreto emesso dalla autorità giudiziaria”.

[8] Cfr. art. 46 comma 1 del D.P.R. n. 380/2001 secondo cui “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”

[9] Cfr. Cass. Civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23709 secondo cui “in tema di vendita forzata, il trasferimento dell’immobile aggiuntato è l’effetto di una fattispecie complessa, costituita dall’aggiudicataria, dal successivo versamento del prezzo e dal decreto di trasferimento”.

[10] Cfr. Pasquale Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, ed. Giuffrè, 2002, pagg. 607 e ss; Giorgio Stella Richeter e Paolo Stella Richter, La giurisprudenza sul codice di procedura civile, Libro III a cura Giandomenico Magrone, ed. Giuffrè, pag. 586

[11] Cass. Civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23709; Cass. Civ.,, sez. III, 24 gennaio 2007, n. 1498

[12] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 11 maggio 2011, n. 2781, secondo cui “l’acquirente di un immobile succede nel diritto reale e nelle posizioni soggettive attive e passive che facevano capo al precedente proprietario e che sono inerenti alla cosa, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartito, che precede nel tempo il contratto traslativo, in suo favore, della proprietà”.

[13] Cfr. Gian Carlo Mengoli, Manuale di diritto Urbanistico, VI^ ed., Giuffrè 2009, pagg. 1212 e ss.

[14] Cfr. Giorgio Pagliari, Corso di Diritto Urbanistico, III^ Edizione, Giuffrè 2002, pagg. 491 e ss.

[15] Cfr. Tar Campania, Napoli, sez. II, 7 giugno 2013, n. 3026 secondo cui “Ai sensi dell’art. 31 commi 3 e 4, d.P.R. n. 380 del 2001, l’inottemperanza all’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva entro il termine previsto costituisce presupposto e condizione per l’irrogazione della sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale della struttura edilizia e il relativo provvedimento, oltre ad essere atto dovuto e consequenziale, privo di contenuti discrezionali, ha carattere meramente dichiarativo in quanto l’acquisizione avviene automaticamente per effetto dell’accertata inottemperanza all’ordine di demolizione”.

[16] Ferma la sussistenza dell’ulteriore presupposto che “le ragioni del credito per cui si interviene o procede”, siano anteriori alla data di entrata in vigore della Legge n. 47/85, nel senso che il titolo che sorregge il trasferimento, a seguito di espropriazione immobiliare, deve essere anteriore alla suddetta legge (cfr. in terminis Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016, n. 3243).

[17] cfr. sul punto Cass. Civ., sez. I, 26 febbraio 2009, n. 4640 secondo cui “mediante la norma in discorso, il legislatore ha inteso evitare che il regime d’incommerciabilità dell’immobile – connotato da un chiaro profilo sanzionatorio – si risolva ingiustificatamente in danno dei creditori incolpevoli”.

[18] cfr. Corte Cost., 10 maggio 2002, ord. n. 174

[19] Cfr. Cass. Civ. sez. III, 04 giugno 2013, n. 14022, secondo cui “il provvedimento di acquisizione del bene illecitamente edificato, e dell’area su cui sorge, al patrimonio del Comune, nell’ipotesi in cui il responsabile dell’abuso non provveda alla demolizione di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 7 l. 28 febbraio 1985 n. 47 (poi art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), non può determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo”

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Sdemanializzazione tacita

Possibilità di una sdemanializzazione tacita dei beni appartenenti al demanio marittimo alla luce dell’art. 35 cod. della navigazione e dei recenti arresti giurisprudenziali

 

La problematica circa la possibilità di una sdemanializzazione tacita dei beni appartenenti al demanio marittimo si pone, in concreto e sempre più di frequente, tutte le volte in cui il bene demaniale marittimo perda, di fatto, la propria attitudine a servire agli usi pubblici del mare e, dunque, quel requisito c.d. oggettivo tale da imprimergli una concreta destinazione ai pubblici usi (cfr. ex plurimis Tar Calabria, Catanzaro, 7 marzo 2003, n. 544; Tar Marche, 9 giungo 2000, n. 898).

Giova premettere che l’analisi delle disposizioni normative di settore (quella civilistica a contenuto generale, da un lato, e quella del codice della navigazione a carattere speciale, dall’altro) hanno alimentato la querelle tra la dottrina e la giurisprudenza in merito alla possibilità di una c.d. sclassificazione tacita di tali beni.

Al riguardo, va premesso che la giurisprudenza ha individuato, quali criteri di identificazione dell’appartenenza di un bene al demanio marittimo, oltre alle caratteristiche fisiche e morfologiche, la sua prossimità al mare, l’idoneità attuale del bene a servire ai pubblici usi del mare; agli usi attinenti alla navigazione ed alla balneazione (Cfr. Cons. Stato, sez. II, 27 gennaio 1993, n. 765), la mancanza di un provvedimento esplicito di sdemanializzazione da parte della pubblica amministrazione o, in egual misura, di comportamenti manifestamente incompatibili con la volontà di mantenere il carattere demaniale del bene medesimo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 1998, n. 287; Cons. Stato,sez. V, 10 febbraio 1998, n. 148).

Il problema, tuttavia, si pone nel caso in cui il bene perda tali requisiti costitutivi e, partitamente, quello della“vicinitas” al mare e l’idoneità funzionale a servire gli usi pubblici.

In termini generali, la giurisprudenza ha chiarito che “la cessazione della demanialità non è altro che l’effetto della perdita dell’attitudine del bene agli usi di pubblico interesse generale che ne avevano determinato l’insorgere, in conseguenza del venir meno in modo definitivo ed irreversibile dei caratteri fisici che assicuravano tale destinazione, sia a causa di eventi naturali sia per volontà della Pubblica amministrazione (volontà che non va intesa come intento diretto a far cessare la destinazione pubblica del bene, bensì come volontà risvolta ad soddisfacimento dei bisogni pubblici” (cfr. T.S.A.P., 11 luglio 1996, n. 67).

Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, parrebbe evidente che la situazione di fatto riguardante un bene sarebbe concludente al fine di accertare la perdita definitiva delle caratteristiche che ne rendevano riconoscibili l’appartenenza al demanio marittimo statale senza la necessità di un provvedimento di natura costitutiva da parte dell’amministrazione titolare dei diritti dominicali.

Ciò posto, ed alla luce dei principi enucleati dalla giurisprudenza, occorre chiarire se la perdita della c.d. destinazione funzionale del bene agli usi pubblici giustifichi una “sdemanializzazione tacita”, o se, per converso, occorra – per il raggiungimento del fine – un formale provvedimento amministrativo che valga a sottrarre, sotto il profilo formale e sostanziale, il bene dalla categoria del demanio.

Giova, pertanto, muovere dai dati normativi di riferimento.

L’art. 829 cod. civ., al comma 1, prevede che “Il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato deve essere dichiarato dall’autorità amministrativa. Dell’atto deve essere dato annunzio nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.

L’art. 35 del codice della navigazione stabilisce che “le zone demaniali che dal capo di compartimento non siano ritenute utilizzabili per i pubblici usi del mare sono escluse dal demanio marittimo con decreto del ministro per la marina mercantile di concerto con quello per le finanze”.

La formulazione delle norme ha indotto ad interrogarsi sulla natura dell’atto da essi previsto, ovvero se si tratti di atto di natura dichiarativa ovvero di natura costitutiva. Ed ancora, se lo stesso rappresenti manifestazione di un potere tecnico – discrezionale o abbia, per converso, carattere vincolato e dunque meramente ricognitivo del mutamento dello stato di fatto tale da rendere inidoneo il bene ai pubblici usi del mare.

Ma l’analisi va effettuata disgiuntamente in quanto, soprattutto la giurisprudenza compie su questo argomento un distinguo tra la così detta sdemanializzazione relativa ai beni demaniali prevista dall’art. 829 c.c., e la particolare procedura dettata invece per il demanio marittimo dall’art. 35 cod. nav.

L’opinione dominante tende a ritenere che il provvedimento previsto dall’art. 829 c.c. abbia natura dichiarativa (Cass. 20 dicembre 1947, n.1718; Cass. 5 maggio 1951 n.1065; Cass. 18 marzo 1981 n.1603. Contra Cons. Stato, I, 14 ottobre 1952 n.1794), in quanto l’atto in esso previsto“non serve a costituire, modificare od estinguere rapporti, ma solo ad accertare e riconoscere tali avvenimenti” (cfr. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. IV, Milano, 1958, p. 47).

In tali ipotesi, la perdita del requisito della demanialità non dipende da una manifestazione esplicita della amministrazione o da una sua valutazione discrezionale, ma dal dato obiettivo della perdita dei requisiti richiesti, avendo l’atto la sola funzione di garantire la certezza delle situazioni giuridiche (Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, p. 809).

Da ciò discende l’ammissibilità della c.d. sdemanializzazione tacita per i beni appartenenti al demanio statale.

Sul punto valga il richiamo ai più recenti arresti giurisprudenziali secondo cui “in linea generale, la sdemanializzazione di un bene, con la conseguente configurabilità di un possesso del privato ad usucapionem, può verificarsi anche tacitamente, in carenza di un formale atto di declassificazione, purché si sia in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino. Il provvedimento sul passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio, a norma dell’art. 829 cod. civ., ha infatti carattere semplicemente dichiarativo, considerando che la dichiarazione della cessazione di demanialità, quando già sussistono le condizioni di fatto di incompatibilità con la volontà di conservare la destinazione ad uso pubblico, si limita in sostanza a dare atto del passaggio dei beni stessi da uno ad un altro regime”(cfr. ex plurimis Cass. Civ., sez. II, 11 maggio 2009, n. 10817; Cass.Civ., Sez. II, 19 febbraio 2007, n. 3742).

Mentre, dunque, vi è ormai unanimità nell’ammettere la natura dichiarativa dell’atto previsto dall’art. 829 c.c. da cui consegue la possibilità di una sdemanializzazione tacita, la dottrina e la giurisprudenza si dividono in relazione all’atto previsto dall’art. 35 del codice della navigazione in relazione ai beni appartenenti al demanio marittimo.

La Suprema Corte tende ad affermare la natura costitutiva di tale provvedimento, per cui sia con riferimento all’art. 157 del codice della marina mercantile del 1877 sia in relazione all’attuale normativa, “la sdemalializzazione si verifica soltanto in seguito ad un formale provvedimento di carattere costitutivo proveniente dall’autorità amministrativa” (cfr. Cass. Civ., sez. II, 18/10/2016,  n. 21018; Cass., sez. II, 2 marzo 2000, n. 2323; Cass., sez. I, 21 aprile 1999, 3950; Cass., Sez. I, 6 maggio 1980, n. 2995, cit.. Questa posizione è propria di numerose altre decisioni: Cass. 5 agosto 1949, n.2231, in Giur. comp. Cass., 1949, p. 1022 con nota di F. Nunziata, In tema di cassazione della demanialità; Cass. 16 giugno 1969, n. 2146; Cass. 4 maggio 1981, n. 2701; Cass. 5 novembre 1981, n. 5817; Cass. 14 marzo 1985, n.1987, in Foro it. 1985, 2297; Cass. penale, 7 settembre 1983, n. 7384).

La giurisprudenza muove dal tenore letterale dell’art. 35 cod. nav. dal quale sembrerebbe emergere l’intenzione del legislatore di collegare la cessazione della demanialità non a dati oggettivi – ovvero al mutamento dello stato di fatto – ma ad un atto di natura costitutiva esplicito dell’amministrazione titolare del diritto dominicale.

A ben vedere la formula utilizzata nell’art. 829 c.c., che, come detto, conduce gli interpreti a trarre conclusioni opposte, non diverge, nella sostanza, dall’art. 35 cod. nav.:  in parte qua stabilisce che “il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato deve essere dichiarato dall’autorità amministrativa”.

Dunque, un confronto letterale tra le norme non giustifica una così radicale differenza di interpretazione.

Non a caso, l’incoerenza di tale conclusione è stata segnalata dalla dottrina più autorevole la quale è ferma nel ritenere che: “nel sistema anzidetto non può essere interpretato come una eccezione l’art. 35 cod. nav.: nel disporre che le zone demaniali ritenute dall’Autorità marittima non utilizzabili per i pubblici usi del mare vengono escluse dal demanio marittimo con decreto ministeriale, l’articolo non può essere inteso nel senso di configurare un provvedimento costitutivo, bensì solo un atto ricognitivo” (A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, cit., 789. Va segnalato che attualmente la dottrina dominante sostiene la natura dichiarativa dell’atto previsto dall’art.35 cod. nav., (cfr. V. Caputi Jambranghi, cit., 11; Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, 103 ss.; V. Cerulli Irelli, Beni pubblici, voce del Digesto delle discipline pubblicistiche, II, Torino, 1986, p. 284. Sostiene l’opinione contraria P. Virga, Diritto amministrativo, cit., 390 che qualifica il provvedimento di sdemanializzazione relativo a beni appartenenti al demanio marittimo come atto di carattere costitutivo ma senza fornire una spiegazione)

Ed ancora “stante il criterio dell’appartenenza necessaria adottato dal legislatore, l’atto di sclassificazione non può che essere una constatazione della perdita di una qualità stabilita dalle norme sulla base di certe caratteristiche; la dichiarazione derogativa della certazione non è dunque da intendere come atto formale è solo un atto di revoca-derogazione della certazione. Nei confronti dei terzi esso non è atto necessario, potendo il giudice sempre accertare che il bene ha perduto il carattere di bene pubblico collettivo” (cfr. M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, 103-104)

Non sarebbe coerente, infatti, alla luce di una corretta interpretazione sistematica, concludere che il provvedimento di delimitazione del demanio emesso ex art 32 cod. nav. abbia natura dichiarativa ed al contrario quello di esclusione di zone dal demanio, quando queste abbiano perso le caratteristiche loro proprie, abbia natura costitutiva (in alcune decisioni anche la Cassazione ha aderito all’orientamento dominante in dottrina, statuendo in ordine a beni appartenenti al demanio marittimol’incontrovertibile carattere dichiarativo del provvedimento – esplicito o implicito – di classificazione o di sclassificazione dei beni” Cass., Sez. unite, 2 maggio 1962, n. 849, in Giur. it., 1962 p. 797; nel senso di ammetter la sdemanializzazione tacita di beni del demanio marittimo anche: Cass. sez. I, sent. 25 novembre 1976, in Rep. Foro it. 1976 voce Porti, spiagge, fari; Cass. sez.1 sent. 5 novembre 1981 n.5817 in Rassegna dell’avv. di Stato, 1982, p.196; Cass. pen., sez. 3, sent. 7 settembre 1983 n.7393).

Per quanto condivisibile la posizione che collega l’estinzione della demanialità sempre alla perdita delle caratteristiche naturali che identificano la porzione immobiliare come spiaggia, arenile ecc., non si può prescindere dall’orientamento giurisprudenziale dominante secondo cui “la sdemanializzazione delle aree del demanio marittimo…richiede necessariamente un espresso e formale provvedimento dell’autorità amministrativa di carattere costitutivo”(cfr. in terminis Tar Puglia, Lecce, sez. I, 20 luglio 2005, n.4527).

Ed ancora, “per i beni del demanio marittimo, quale la spiaggia, comprensiva dell’arenile, la disciplina in materia di sdemanializzazione è più rigorosa: per tali beni, infatti, la sdemanializzazione non può verificarsi tacitamente, ma richiede, ai sensi dell’art. 35 cod. nav., un espresso e formale provvedimento della competente autorità amministrativa, di carattere costitutivo. Il presupposto della sclassificazione è sempre nella mancata attitudine di determinate zone di spiaggia a servire agli usi pubblici del mare, ma il relativo giudizio è demandato a speciali organi che vi debbono provvedere in base ad una valutazione tecnico-discrezionale dei caratteri naturali di essi, variabili e contingenti secondo le diverse caratteristiche geofisiche e le varie esigenze locali, in relazione alla diversità degli usi”(cfr. Cass. Civ., sez. II, 11 maggio 2009, n. 10817).

Tuttavia, non può essere sottaciuto che, data la posizione oscillante tra la dottrina e la giurisprudenza – orientata, quest’ultima, a negare una c.d. sdemanializzazione tacita dei beni appartenenti al demanio marittimo – laddove sussista il dato obiettivo della perdita delle caratteristiche funzionali del bene, e cioè della concreta attitudine dello stesso ad essere destinato agli usi pubblici del mare, il giudizio dell’amministrazione statale in merito al procedimento di sdemanializzazione sarebbe svuotato di contenuti tecnico-discrezionali.

In tali ipotesi, fermo restando la necessità di esplicito provvedimento di sdemanializzazione dei beni ex art. 35 cod. nav., il provvedimento di sclassificazione avrebbe natura meramente ricognitiva di una situazione di fatto non suscettibile di diversa valutazione da parte della P.A. non essendo esclusa la sussistenza in capo al privato di richiedere, in via giudiziale, la sdemanializzazione del bene (sulla possibilità di un accertamento giudiziale della perdita della demanialità a prescindere da un atto amministrativo cfr. Cerulli Irelli, Beni pubblici, cit., pag. 284 e ss.)

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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