Coniuge divorziato e TFR

Una donna già separata legalmente dal marito ha diritto a richiedere, in sede di divorzio, una percentuale del TFR percepito dal marito prima della richiesta di divorzio?

 

La risposta è negativa.

L’art. 12 bis l. n. 898/1970 prevede che solo il coniuge titolare di un assegno di divorzio possa chiedere e ottenere il 40% dell’indennità totale di fine rapporto percepita dall’altro coniuge e riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

La giurisprudenza, in maniera uniforme, ha interpretato la norma nel senso di ritenere che l’ex coniuge cui sia riconosciuto un assegno di divorzio ha diritto alla quota del TFR, come sopra calcolata, solo se e quando questo è stato percepito dopo l’instaurazione del giudizio di divorzio (Cass. civ. 29 ottobre 2013, n. 24421Cass. 14 novembre 2008, n. 27233 )

Del resto qualora l’ex coniuge abbia percepito il TFR,  dopo la separazione ma prima del deposito del divorzio, in sede divorzile si terrà conto di questa circostanza  ai fini delle capacità economiche dell’obbligato all’assegno (Cass. 10 marzo 2005, n. 5283 ; Cass. civ. 29 luglio 2004, n. 14459)

Conseguentemente nel caso in esame nel quale il marito ha percepito  l’indennità di fine rapporto dopo la separazione ma prima del deposito del divorzio, la moglie non avrà alcun diritto sul TFR percepito dal marito, il cui importo dovrà, però, essere correttamente valorizzato – in concorso con gli altri elementi di cui all’art. 5 ln. 898/1970 – nel giudizio sull’an e sul quantum dell’assegno di divorzio.

Riferimenti normativi :

* Art. 12-bis. l.n. 898/1970

  1. Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.
  2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio

* Art. 5. l.n. 898/1970

  1. Il tribunale adito, in contraddittorio delle parti e con l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, accertata la sussistenza di uno dei casi di cui all’art. 3, pronuncia con sentenza lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ed ordina all’ufficiale dello stato civile del luogo ove venne trascritto il matrimonio di procedere alla annotazione della sentenza.
  2. La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio.
  3. Il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela.
  4. La decisione di cui al comma precedente può essere modificata con successiva sentenza, per motivi di particolare gravità, su istanza di una delle parti.
  5. La sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti. Il pubblico ministero può ai sensi dell’art. 72 del codice di procedura civile, proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.
  6. Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
  7. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Il tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione con motivata decisione.
  8. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.
  9. I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria.
  10. L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.
  11. Il coniuge, al quale non spetti l’assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell’ente mutualistico da cui sia assistito l’altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze .

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984 presso l’Università Federico II di Napoli.
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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La tutela del diritto d’autore per la creazione di ricette culinarie

La giurisprudenza italiana sulle ricette culinarie, la tutela delle ricette ex se e la paternità della ricetta.

 

  1. La giurisprudenza italiana sulle ricette culinarie

È possibile tutelare le ricette culinarie? Si tratta di una domanda tutt’altro che oziosa, alla luce dell’importanza che il settore food ha assunto nell’economia nazionale.

Della questione si è occupata, almeno in parte, una decisione giurisprudenziale – la sentenza del Tribunale di Milano n.9763/2013 – dalla quale conviene prendere le mosse, al fine di analizzare la fattispecie.

I giudici meneghini si sono, infatti, pronunciati in senso favorevole alla possibilità che anche una ricetta culinaria possa rientrare nel novero delle opere tutelate dalla legge del diritto d’autore. Questo assunto, però, merita di essere filtrato attraverso la verifica dell’esistenza di importanti presupposti: come la sentenza in parola ritiene, infatti, la tutela autorale può rinvenirsi esclusivamente nella forma espressiva delle ricette. Pertanto, la ricetta, rectius la sua forma espressiva, ai fini di una tutela, deve assumere le caratteristiche di un elaborato creativo.

Per elaborazione creativa si intende un’elaborazione che abbia un riconoscibile apporto creativo, suscettibile di manifestazione nel mondo esteriore: la creatività, ai fini di una rilevanza giuridica, deve, pertanto, estrinsecarsi in una determinata forma espressiva (cfr. sul punto Cass. n. 9854/2012; Cass. n. 15496/2014; Cass. n.20925/2005).

Nel caso sottoposto alla cognizione del Tribunale di Milano, la controversia aveva ad oggetto l’edizione di un libro di ricette che presentava contenuti espressivi di proprietà di terzi. Invero, l’autore del libro aveva provveduto – senza averne l’autorizzazione – a inserire nella sua opera alcune ricette come esattamente descritte da una terza persona nel suo blog di cucina. Pertanto, il libro di ricette presentava contenuti creativi di proprietà altrui e per questo si concretava una violazione sic et simpliciter della legge sul diritto d’autore.

Ciò che ha fatto propendere i giudici verso una tutela autorale della ricetta in discorso non è stato, quindi, il singolare metodo di preparazione, né tantomeno la realizzazione in sé della ricetta riprodotta, quanto, piuttosto, la forma espressiva utilizzata per descriverne il processo.

  1. La tutela delle ricette ex se

È chiaro, quindi, che il caso di specie non risponde in maniera esaustiva al dubbio circa l’estensione tout court della tutela autorale alle ricette di cucina. Tutt’altro. Dalla pronuncia in discorso sembrerebbe ricavarsi proprio l’assunto contrario ovvero l’assenza della possibilità di una tutela autorale per le ricette che non abbiano avuto una particolare, nonché creativa, forma espressiva.

Ma questa conclusione potrebbe non essere completamente esatta, dal momento che, a chi scrive, appare che anche ulteriori elementi debbano essere presi in considerazione.

Innanzitutto, occorre comprendere, da un punto di vista tassonomico, cosa si intenda per “ricetta culinaria”, potendosi tale lemma riferire al mero processo di preparazione ovvero al metodo di integrazione degli ingredienti o, ancora, al modo in cui viene espressa la ricetta stessa o, infine, al prodotto finale quale sintesi di tutto ciò. Ci si chiede, a questo punto, cosa accada nel momento in cui una ricetta di un prodotto originale non abbia avuto una propria elaborazione artistica, se non nella fase della realizzazione/esecuzione. È chiaro che il problema inerente alla tutela di una ricetta culinaria, intesa come momento di ideazione del procedimento di preparazione, afferisce al binomio ideazione/realizzazione (del resto una ricetta di un prodotto particolare altro non è che l’elaborazione di un’idea che dovrà poi essere concretata). E se, da un lato, il nostro ordinamento non prevede una tutela autorale per le idee in quanto tali, dall’altro, la fase che precede la realizzazione dell’opera e quindi l’elaborazione dell’idea, riscontra un’unanime esigenza di tutela (pensiamo, ad esempio, alla ormai indiscussa tutela autoriale del format di un programma televisivo).

Ma a questo importante passaggio dobbiamo senz’altro aggiungerne un altro: ai fini di una tutela autoriale è necessario che l’oggetto della tutela stessa presenti il carattere della creatività e della novità. Ora, nel caso di una ricetta e quindi di una elaborazione di idee, come si può effettivamente riscontrare il carattere creativo? È davvero sempre necessario che la ricetta abbia una forma esteriore creativa? È sufficiente che la creatività venga riscontrata nell’originalità relativa alla combinazione di determinati ingredienti?

È risaputo che l’elaborazione di idee, per ottenere tutela, deve presentare un livello minimo di compiutezza espressiva, al di là del contenuto originale e creativo. Pertanto, le ricette, per quanto originalissime, non possono concorrere alla tutela autorale semprechè non assumano altre forme espressive alle quali l’ordinamento estende – in maniera indiscussa – la tutela.

In tal senso, occorre considerare anche il carattere, per dir così, percettivo delle ricette. Le ricette – come osservato dalla migliore dottrina (cfr. A. Musso, Diritto d’autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2008, p. 54) – non sono associate alle facoltà di vista e udito che, storicamente, hanno rappresentato il discrimen concettuale e cognitivo delle opere ricomprese nell’ambito del diritto d’autore.

Alla luce di tale considerazione, si comprende il motivo che induce ad accordare protezione all’aspetto creativo di un blog di ricette, o ad un testo scritto che contenga l’indicazione per la preparazione di piatti, e non alle ricette in sé. Si comprende che la originale combinazione di ingredienti utilizzati per la realizzazione di un particolare piatto non è di per sé suscettibile di tutela.

A questo punto dovrebbe, quindi, concludersi per l’impossibilità di una tutela autorale per le ricette di cucina, in quanto si riscontrerebbe una tutelabilità solo laddove la ricetta sia trasposta in un testo scritto o in una presentazione orale, sempreché coperte dal diritto d’autore.

  1. La paternità della ricetta

Il problema, come si accennava, si pone di fronte al caso in cui sia necessario tutelare la ricetta in sé, perché, ad esempio, c’è una contestazione in merito alla sua paternità.

Per semplificare la nostra indagine sul punto, pensiamo al caso di un prodotto di pasticceria originale, denominato “A” e ideato dal pasticciere Tizio. Pensiamo inoltre che Tizio non abbia provveduto a scriverne la ricetta ed abbia, invece, provveduto a registrare il marchio e/o il disegno. Pensiamo infine che un altro pasticciere, Caio, assegni alla ricetta del prodotto “A” una forma espressiva creativa: quale tutela possiamo accordare al pasticciere Tizio?

Il quesito non è di pronta soluzione, in quanto molteplici sono gli aspetti da considerare. Invero, nel caso immaginato, il pasticciere Tizio, che ha ideato e realizzato per prima il dolce “A”, non ha provveduto a dare alla sua ricetta forma espressiva e ha, invece, ritenuto idoneo, al fine di evitare rivendicazioni da parte di terzi, provvedere a registrare il nome di “A” come marchio della sua impresa e provvedere a registrare il disegno del prodotto. In questo modo, però, ha certamente favorito la tutela della proprietà industriale – distintamente – del marchio e/o del disegno di “A”. In realtà marchio e disegno rappresentano parti di “A” ma non lo integrano totalmente e, ancor meno, integrano la sua idea. È certo, tuttavia, che il pasticciere Tizio abbia prodotto per primo il dolce denominato “A”, che presenta quella determinata forma esteriore, come descritta nel disegno registrato. Il pasticciere Caio, di contro, ha provveduto, per primo, a scrivere la ricetta di “A” in una originale raccolta.

Stando a quanto detto sinora, la forma originale di scrittura di Tizio trova certamente tutela autorale, nonostante contenga ricette ideate da terzi. Le pretese di Tizio possono, senz’altro, trovare terreno fertile sul piano della proprietà industriale. Pertanto, le posizioni dei due pasticcieri sono entrambe tutelabili ma sotto due diversi profili ed è proprio questa distinzione dei profili che rende impossibile un contrasto giuridicamente rilevante. Pertanto, da un lato, si dovrà accordare tutela autorale a Caio per il suo scritto e, dall’altro, tutela industriale a Tizio per la sua accertata proprietà. In nessuno dei due casi è però data rilevanza alla ricetta di “A” e alla sua paternità.

Si deve dare atto che propendere per una soluzione di questo tipo è alquanto fuorviante, sempreché legally correct. Questo perché la forma espressiva creativa che consente alla ricetta di essere tutelata non deve necessariamente riguardare il momento dell’elaborazione dell’idea, ma può riguardare anche il momento finale ovvero quello in cui viene data esecuzione. Questo sembrerebbe possibile esclusivamente nel caso in cui, vincendo le resistenze di cui sopra, un prodotto culinario possa essere equiparato a un’opera architettonica o a un’opera fotografica. Difatti, questo tipo di opere riscontrano una tutela autorale certamente per la loro forma esteriore ma è chiaro che, laddove siano stati utilizzati particolari processi di lavorazione o particolari materiali, il lavoro finale ingloba tutte le fasi precedenti e crea una sintesi dell’opera che fa senza dubbio capo al suo autore finale (nel caso in cui non si tratti di un’opera collettiva). Seguendo questa logica, dunque, “A”, quale prodotto complesso, realizzato per primo da Tizio, sintetizza tutte le fasi utili alla sua realizzazione e costituisce esso stesso la forma espressiva creativa ultima che è indubbiamente meritevole di tutela. In questo modo Tizio sarà l’autore indiscusso di “A” se e solo se ad “A” possa estendersi tutela proprio come un’opera architettonica e al tempo stesso l’autore di tutti i processi utilizzati per la sua realizzazione, sempreché originali e creativi.

Pertanto, se pure lo scritto di “F” ha un suo spazio vitale parallelo rispetto a quello di “T” (il primo vede la tutela autorale dello scritto e il secondo la tutela della proprietà industriale del marchio e del disegno e, nel caso in cui si riesca a individuare nella ricetta in sé un’opera meritevole di tutela, anche tutela autorale) avendo “F” utilizzato nella sua opera originale un contenuto rilevante giuridicamente di proprietà di “T”, deve inevitabilmente subire la difesa in termini di proprietà intellettuale e, quindi, riconoscere la paternità della ricetta esclusivamente in capo a “T”, proprio come quando in un’opera cinematografica si utilizza un brano musicale di altri a suo completamento.

Questo potrebbe costituire uno slancio interpretativo utile a fondare una pretesa di tutela autorale per le ricette in sé che, altrimenti, rimarrebbero sempre irrilevanti per la proprietà intellettuale, nonché prive del carattere della creatività.

Paola Carmela D’Amato, nata ad Avellino il 5 luglio 1984, avvocato civilista, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II di Napoli.
Dopo una proficua collaborazione con lo Studio legale Sparano ha iniziato l’attività professionale in proprio fondando lo Studio legale D’Amato e dedicandosi, prevalentemente, al diritto della proprietà industriale ed intellettuale.
Assiste diverse aziende campane nella tutela dei marchi.
Assiste aziende di produzione cinematografica nella stipula di contratti e nella gestione legale dei prodotti cinematografici.

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Le zone economiche speciali

Pubblicato il decreto di attuazione delle Zes, sulla Gazzetta Ufficiale

 

È stato pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale del 27/02/2018, il Dpcm 25 gennaio 2018, n. 12, che sancisce il regolamento per l’istituzione delle Zone economiche speciali (Zes), insieme ai criteri per beneficiare, oltre che delle agevolazioni di natura di tipo amministrativa e tecnico-procedurale, anche del credito d’imposta per chi effettua investimenti nel Mezzogiorno d’Italia.

Con l’istituzione delle Zone economiche speciali previste dal “decreto Sud” dello scorso anno, si punta a favorire, in alcune aree del Paese, la creazione di condizioni favorevoli in termini economici, finanziari e amministrativi, finalizzate allo sviluppo delle imprese già operanti, nonché all’insediamento di nuove attività di impresa.

Per Zes il legislatore ha inteso “una zona geograficamente delimitata e chiaramente identificata, situata entro i confini dello Stato, costituita anche da aree non territorialmente adiacenti, purché presentino un nesso economico funzionale, e che comprenda almeno un’area portuale” (avente le caratteristiche stabilite dal regolamento (Ue) n. 1315/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, sugli orientamenti dell’Unione per lo sviluppo della rete transeuropea dei trasporti (TEN-T).
Le proposte di istituzione di una Zes possono essere presentate dalle regioni meno sviluppate e in transizione, come individuate dalla normativa europea, ammissibili alle deroghe previste in materia di disciplina degli aiuti di Stato.

Ogni regione interessata può presentare una proposta di istituzione di una Zes nel proprio territorio, o al massimo due proposte ove siano presenti più aree portuali che abbiano le caratteristiche richieste.
Le regioni che non posseggono aree portuali aventi tali caratteristiche possono presentare istanza di istituzione di una Zes solo in forma associativa, qualora contigue, o in associazione con un’area portuale avente le necessarie caratteristiche (Zes interregionali).

A favore delle nuove imprese e di quelle già esistenti, che avviano un programma di attività economiche imprenditoriali o di investimenti di natura incrementale nell’ambito della Zes, sono riconosciute agevolazioni e semplificazioni di carattere amministrativo, nonché uno specifico beneficio fiscale.

Infatti, per tali imprese, in relazione agli investimenti effettuati nelle Zes, il “bonus Sud” è commisurato alla quota del costo complessivo dei beni acquisiti entro il 31 dicembre 2020 (in luogo del termine generale del 31 dicembre 2019) nel limite massimo, per ciascun progetto di investimento, di 50 milioni di euro.

Il credito d’imposta è concesso nel rispetto di tutte le condizioni previste dalla disciplina europea sugli aiuti di stato compatibili con il mercato interno.

Per il riconoscimento delle agevolazioni, le imprese beneficiarie:

  • devono mantenere la loro attività nella Zes per almeno sette anni dopo il completamento dell’investimento oggetto delle agevolazioni, pena la revoca dei benefici concessi e goduti
  • non devono essere in stato di liquidazione o di scioglimento.

Il Dpcm 25 gennaio 2018, n. 12

In attuazione di quanto previsto dal comma 3, dell’articolo 4, Dl 917/2017, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri definisce:

  • le modalità per l’istituzione delle Zes, comprese quelle interregionali, e i relativi requisiti
  • la loro durata
  • i criteri per l’identificazione e la delimitazione dell’area della Zes
  • i criteri per l’accesso delle aziende
  • il coordinamento generale degli obiettivi di sviluppo.

 

Requisiti della Zes

La Zes, identificata mediante l’indicazione puntuale, contenuta nella proposta di istituzione, della denominazione e delle aree interessate, può ricomprendere anche aree della stessa regione non territorialmente adiacenti, purché aventi un nesso economico-funzionale e comprendenti almeno un’area portuale.

Il nesso economico-funzionale tra aree non territorialmente adiacenti sussiste qualora vi sia la presenza, o il potenziale sviluppo, di attività economico-produttive, indicate nel Piano di sviluppo strategico, o di adeguate infrastrutture di collegamento tra le aree interessate.
La Zes è formata da territori quali porti, aree retroportuali, anche di carattere produttivo e aeroportuale, piattaforme logistiche e interporti, e non può comprendere zone residenziali.

Requisiti della Zes interregionale

In caso di istituzione di una Zes interregionale, sono previsti analoghi limiti di estensione. Infatti, l’area complessivamente a disposizione per la Zes nelle due regioni non può essere superiore alla somma delle superfici indicate per ciascuna regione.

Anche per la Zes interregionale è richiesta la sussistenza di un nesso economico-funzionale tra le aree interessate.

 

Proposta di istituzione

Le proposte di istituzione di una Zes devono essere presentate al presidente del Consiglio dei ministri, dal presidente della Regione, sentiti i sindaci delle aree interessate. Per quelle interregionali la proposta dei presidenti di Regione deve essere congiunta.

Requisiti delle proposte e piano di sviluppo strategico

Le proposte di istituzione di una Zes devono essere corredate del Piano di sviluppo strategico e devono indicare i criteri e gli obiettivi di sviluppo perseguiti, nonché le forme di coordinamento, ove necessarie, con la pianificazione strategica portuale.

Il Piano di sviluppo strategico deve contenere, tra l’altro:

  • la documentazione necessaria all’identificazione delle aree incluse nella Zes, con l’indicazione delle porzioni di territorio interessate, evidenziando quelle ricadenti nell’area portuale
  • l’elenco delle infrastrutture già esistenti, nonché delle infrastrutture di collegamento tra aree non territorialmente adiacenti
  • un’analisi dell’impatto sociale ed economico atteso dall’istituzione della Zes
  • una relazione illustrativa dei dati e degli elementi, che identificano le tipologie di attività che si intendono promuovere all’interno della Zes, le attività di specializzazione territoriale che si intendono rafforzare, e che dimostrano la sussistenza di un nesso economico-funzionale con l’area portuale o con i porti, nel caso in cui la Zes ricomprenda più aree non adiacenti
  • l’individuazione delle semplificazioni amministrative per la realizzazione degli investimenti che la Regione si impegna ad adottare per le iniziative imprenditoriali localizzate nella Zes.

 

Durata e istituzione della Zes

La Zes è istituita con Dpcm e la sua durata non può essere inferiore a sette anni e superiore a quattordici, prorogabile fino a un massimo di ulteriori sette anni, su richiesta delle regioni interessate.

Entrata in vigore

Le nuove disposizioni entrano in vigore da oggi, giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del dpcm. La Giunta regionale della Campania, che ha contribuito ai contenuti del decreto nazionale e ha avviato da mesi un’approfondita opera di elaborazione della ZES, è pronta a concludere in tempi rapidi la definizione del Piano di Sviluppo Strategico della Campania, che comprende i porti di Napoli e Salerno e le principali aree retroportuali della Regione, individuando i nodi logistici e produttivi del territorio.

Vittorio Caliendo Dottore Commercialista e Revisore Legale

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Microimprese napoletane: le varie agevolazioni

Dal Comune di Napoli un Bando per la concessione delle agevolazioni a favore delle piccole e micro imprese

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Art. 388 c.p. Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice

È colpevole la madre che non rispetta l’ordine di far vedere la figlia al padre “quando vuole”?

 

La lettura della sentenza, n.1748 del 16 Gennaio 2018 emessa dalla VI Sezione Penale della Corte di Cassazione, ci permette di affrontare una questione particolarmente delicata  e di interesse sociale  in materia di  provvedimenti riguardanti l’affidamento dei minori  emessi dal Giudice Civile.

Il comma secondo dell’art.388 c.p. punisce tutte le condotte che costituiscono consapevole elusione del provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento dei minori, ovvero quei comportamenti che rendano vane le legittime pretese altrui.

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame chiarisce che la rilevanza penale dell’inosservanza del provvedimento del giudice debba essere ancorata al concreto disvalore della condotta, giacché la ratio della norma è quella di punire chi agendo  in spregio delle prescrizioni impartite ostacoli il diritto del minore ad essere accompagnato nella propria crescita da entrambi i genitori.

Per tale ragione,  in una materia così delicata ove soprattutto nella prima fase delle separazione tra i coniugi il livello di  conflittualità è molto alto,  si appalesa la necessità che il Giudice Civile statuisca in modo chiaro e dettagliato le modalità di visita del genitore non affidatario.

L’incapacità dei genitori di riuscire a regolamentare i loro rapporti in modo civile, e di garantire soprattutto, per quel che interessa, la crescita equilibrata dei figli in presenza di entrambe le figure genitoriali, impone l’emissione da parte del Giudice Civile di provvedimenti ove i diritti ed i doveri di ciascuna parte   siano ben chiari ed esplicitati. Non è peregrino sottolineare, infatti, che è proprio l’incapacità di una coppia a regolare i propri rapporti, a seguito della fine del matrimonio, a giustificare il ricorso al Tribunale Civile.

Il caso concreto posto all’attenzione della Corte di Cassazione: il Presidente del Tribunale di Roma, in sede di giudizio di separazione, aveva riconosciuto al padre  il diritto di fare visita alla figlia presso l’abitazione materna quando vuole e proprio la vaghezza e la genericità di tale prescrizione aveva reso i rapporti tra i coniugi maggiormente conflittuali. Il padre della bambina, in forza di tale mera dicitura comunicava semplicemente  quando intendeva recarsi dalla minore  senza in alcun modo armonizzarsi con gli impegni e con le esigenze dell’affidataria, la quale dal canto suo in varie occasioni avrebbe negato il diritto di visita al padre in base ad impegni precedentemente presi, esigenze lavorative e di salute.

Tale  situazione, però,   sarebbe cessata con l’emissione di un nuovo provvedimento da parte del Presidente del Tribunale di Roma, che  revocato l’incondizionato diritto di visita del padre, aveva diversamente disciplinato i rapporti tra il  genitore non affidatario e la minore.

I Giudici di merito pur avendo riconosciuto che  in alcune occasioni le sussistenti esigenze di lavoro e di salute avrebbero impedito alla imputata di osservare il contenuto del provvedimento obiettivamente generico emesso dal Presidente del Tribunale di Roma e di garantire quindi il diritto di visita del padre, ritenuta integrata l’ipotesi di reato,  condannavano la madre affidataria alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento del danno nei confronti dell’ex coniuge.

 Il ricorso presentato  dall’imputata è  articolato in due motivi, con i quali, da un lato, viene dedotto il vizio di violazione di legge in relazione alla fattispecie di cui all’art.388 del codice penale, e, dall’altro, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata.

La decisione della Corte di Cassazione: i giudici di legittimità approfondiscono il contenuto del provvedimento con cui il Presidente del Tribunale aveva disciplinato il diritto di visita della figlia in favore del padre, evidenziando, al pari di quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la vaghezza e genericità delle prescrizioni, poi in un secondo momento revocate.

La Corte di Cassazione si sofferma sul percorso motivazionale seguito dai giudici di merito evidenziandone l’illogicità e la contraddittorietà. Ed infatti pur leggendosi nella sentenza della Corte di Appello che il padre della minore avesse obbiettivamente approfittato della genericità del provvedimento del giudice civile e che  in alcuni casi le violazioni erano state giustificate  da esigenze di lavoro della donna nonché da problematiche di salute, ha ritenuto integrato il comma secondo dell’art.388 c.p..

In merito a tale reato,  la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, ha ribadito che: “..integra una condotta elusiva dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori, rilevante ai sensi dell’art. 388 c.p., comma 2, anche il mero rifiuto di ottemperarvi da parte del genitore affidatario, salva la sussistenza di contrarie indicazioni di particolare gravità, quando l’attuazione del provvedimento richieda la sua necessaria collaborazione. “Eludere” significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione; il genitore affidatario è tenuto a favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. Ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo (in tal senso, Sez. 6, n. 12391 del 18/03/2016, M. Rv. 266675; Sez. 6, n. 27995, del 05/03/2009, Fichera, Rv. 244521)”

Secondo il dictum della Cassazione ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art.388 comma secondo, c.p., e che non è stato chiarito attraverso idonea e logica  motivazione da parte della Corte di Appello, se nel caso di specie vi sia stato un atto di rifiuto, una espressa manifestazione da parte della madre affidataria posta in essere in una qualsiasi forma, di non ottemperare alle legittime pretese altrui nascenti da un  provvedimento, definito “vuoto e generico”, del Giudice Civile.

Nell’impugnata sentenza questa problematica viene ignorata perché non chiarisce quale fosse il limite di esigibilità del comportamento della madre affidataria rispetto ad un diritto rimesso all’arbitrio incondizionato del padre non affidatario.  Nemo tenetur ad impossibilia: la madre affidataria  non avrebbe mai  potuto allontanarsi dalla propria abitazione per non sottrarsi alla richiesta incondizionata e non previamente concordata del padre  di   fare visita alla bambina.

Nel caso di affidamento di un figlio minore, le prescrizioni  poste dal giudice civile hanno la finalità di contemperare e tutelare i diritti di entrambi i genitori per il bene  del minore.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione in accoglimento del ricorso presentato in favore della madre affidataria ha annullato la sentenza impugnata  rinviando per un nuovo giudizio innanzi ad altra sezione della Corte di Appello  che dovrà procedere, in maniera non sbrigativa,  a chiarire i punti indicati e verificare  se ed in che limiti il comportamento della imputata sia sussumibile nell’ambito della fattispecie di reato contestata.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Art. 468 cod. procedura penale: Citazione di testimoni, periti e consulenti tecnici

Processo penale: quali sono i limiti che giustificano la non ammissione di un testimone?

 

L’art. 468, comma 1, c.p.p.  prevede che “le parti che intendono chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210 devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame”.

Come chiarito anche dalla Suprema Corte, la parte che abbia omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge ha la facoltà di chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, “considerato che il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni è stabilito, a pena di inammissibilità, dall’art. 468, comma 1, soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria, e che l’opposta soluzione vanificherebbe il diritto alla controprova, il quale costituisce espressione fondamentale del diritto di difesa” (Cass. pen., Sez. V, 12 novembre 2013, n. 2815; negli stessi termini, Cass. pen., Sez. V, 3 novembre 2011, n. 9606).

Tale orientamento  giurisprudenziale  risulta essere aderente ai principi che regolano il diritto dell’imputato alla controprova, tenuto conto, in primo luogo, del disposto dell’art. 495, comma 2, c.p.p., che  sancisce il diritto dell’imputato di ottenere l’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a e soprattutto, dei principi costituzionali in materia (art. 111, comma 3, Cost.) ed è rispettoso della Cedu (art. 6, paragrafo 3, lett. D),Cedu).

In altri termini, l’imputato ha sempre diritto all’ammissione delle prove che tendono a negare i fatti di cui è chiamato a rispondere ed analogo diritto spetta al pubblico ministero in ordine alle prove a discarico indicate dall’imputato.

Tale breve inquadramento tematico si è ritenuto necessario per affrontare la questione relativa al bilanciamento tra la discrezionalità, riconosciuta dal Legislatore, in capo al  Giudicante  nel valutare la necessità o meno di ammettere  un mezzo istruttorio ed il diritto costituzionalmente garantito all’imputato a vedersi ammessa  prova diretta o contraria. Tale delicato tema unitamente a quello relativo alla cd. prova decisiva è stato affrontato dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione con la pronuncia n.53823/2017.

La Suprema Corte in accoglimento dei motivi della difesa del ricorrente ha emesso il seguente principio di  diritto:  la circostanza per la quale in sede dibattimentale siano già stati sentiti numerosi testimoni non vale, di per sé, a giustificare la compressione del diritto della difesa di assumere la deposizione di un teste rilevante (rectius, decisivo), essendo ovviamente scopo del processo quello di pervenire ad una decisione “giusta” all’esito di un processo “giusto”, il che impone e presuppone la più ampia disponibilità di elementi di prova al fine di evitare che residuino lacune “colmabili” attraverso, appunto, l’ammissione di uno o più elementi probatori.

La vicenda processuale: la Corte d’appello aveva confermato la condanna irrogata nei confronti dell’imputato in  primo grado per il reato di maltrattamenti in famiglia per fatti commessi anche in presenza dei figli minori. Secondo quanto argomentato dai Giudici di merito, la prova era stata desunta dalle  dichiarazioni della vittima e da quelle rese dalla nonna materna che avrebbe riferito in dibattimento di fatti e di vicende apprese dal racconto fattole dalla nipotina minorenne. La testimonianza della minore, però, veniva ritenuta dal Giudice del primo grado superflua senza che venisse addotta  alcuna specifica e necessaria  motivazione trattandosi di un testimone che non solo risultava essere stato indicato nella lista testimoniale ammessa della difesa, ma anche soggetto  che avrebbe dovuto essere escusso a conferma delle dichiarazioni de relato della nonna.

Proponeva ricorso per cassazione, avverso la sentenza di condanna, l’imputato censurando sotto molteplici profili la decisione della Corte di Appello. Non solo la ritenuta configurabilità del reato contestato e delle ritenute aggravanti, ma anche l’assenza di motivazione in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e la conseguenziale lesione  del diritto alla prova contraria erano oggetto degli  specifici ed analitici motivi di impugnazione.

La  Cassazione ha accolto le doglianze difensive riconoscendo come nel caso di specie vi fosse la necessità, in considerazione degli elementi emersi nel contraddittorio, ad escutere la figlia minore per poter ottenere la reale e riscontrata ricostruzione degli accadimenti. Decisiva, sotto tale profilo, appariva per la Cassazione la prova omessa, in quanto, la concreta assunzione della testimonianza avrebbe potuto concretamente intaccare la trama della sentenza impugnata erta sulle sole dichiarazioni della p.o., e su quelle prive di conferma rese  de relatodalla nonna.

I Giudici di legittimità hanno criticano, inoltre, la motivazione della Corte d’appello che, senza in alcun modo soffermarsi sull’importanza della testimonianza richiesta, si era limitata a rappresentare che erano stati escussi ben 7 testimoni della difesa. Da qui l’annullamento della sentenza essendo  sempre necessario l’ approfondimento delle fonti di prova disponibili al fine di giungere ad una sentenza giusta.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Indebita percezione di erogazione a danno dello Stato e non truffa all’Inpdap

Familiare che non comunica all'INPS il decesso del prossimo congiunto e incassa la pensione: non è truffa aggravata

 

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza emessa in data 10/11/2017 n.55525, ha annullato senza rinvio, previa riqualificazione del fatto contestato, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma che  aveva confermato la decisione del Tribunale di Rieti  che aveva riconosciuto l’imputato colpevole del delitto di truffa aggravata in danno dell’Inpdap per l’omessa comunicazione all’istituto del decesso del genitore percettore di pensione.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere la prospettazione difensiva secondo cui il comportamento omissivo contestato all’imputato non si prestava a costituire l’elemento strumentale della truffa, sulla scia di  quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la pronuncia n.16568/200, ha statuito: “Questa Corte ha precisato che integra la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter cod. pen. e non quella di truffa aggravata l’indebita percezione della pensione di pertinenza di soggetto deceduto, conseguita dal cointestatario del medesimo conto corrente su cui confluivano i ratei della pensione, che ometta di comunicare all’Ente previdenziale il decesso del pensionato (Sez. 2, n. 48820 del 23/10/2013, Brunialti, Rv. 257430), evidenziando che quello che essenzialmente rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel primo di detti reati e presente, invece, nel secondo. Nel solco tracciato dalla pronunzia delle Sezioni Unite, n. 16568 del 19/04/2007 , Carchivi, Rv. 235962, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art. 316 ter c.p. abbraccia situazioni residuali rispetto alle contigue fattispecie ex artt. 640, comma 2, e 640 bis cod.pen., come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, il meno grave delitto di cui all’art. 316 ter è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa (Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, Oro, Rv. 266979; n. 49642 del 17/10/2014, Ragusa, Rv. 261000). Deve, pertanto, ritenersi che integri la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e non di truffa aggravata, per assenza di un comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio, la condotta di colui che ometta di comunicare all’istituto erogante il trattamento pensionistico il decesso del congiunto titolare dello stesso, così continuando a percepirlo indebitamente, come nella specie accaduto.”

La condotta  tenuta dall’imputato essendo, infatti, consistita unicamente nell’omessa comunicazione all’Inpdap del decesso del genitore, e non  essendo  tale comportamento omissivo stato accompagnato da ulteriori comportamenti fraudolenti, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, non integra l’artifizio e raggiro richiesto per poter configurarsi il reato di truffa aggravata ex art.640 bis c.p..

Ciò che rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel reato previsto e punito dall’art.316 ter c.p. e presente, invece, in quello p.e p. dall’art.640 bis c.p..  L’assenza di un positivo comportamento fraudolento rileva nella configurabilità di una o l’altra ipotesi delittuosa.

L’art.316 ter c.p. punisce tutte le condotte non fraudolenti nel conseguimento di erogazioni pubbliche: condotte che, pur avendo causato l’indebita percezione di erogazioni pubbliche, non siano propriamente consistite in artifici o raggiri. E tale condotta essendo  considerata dal Legislatore di minore disvalore  è  punita in maniera meno grave rispetto alla truffa aggravata.

E’ necessario sottolineare che dalla pronunzia delle dalle Sezioni Unite del 19 Aprile del 2007 n.16568, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art.316 ter c.p. comprende ipotesi  residuali rispetto alle fattispecie previste negli articoli 640 e 640 bis c.p., come quelle del mero silenzio o di condotte che non inducano in errore lo Stato o l’Ente erogatore  della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, laddove difettino nella condotta dell’imputato  gli estremi della truffa si configura sempre  il meno grave delitto di cui all’art.316 ter c.p.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Processo civile minorile

Le garanzie costituzionali e i doveri genitoriali

 

La tutela del minore all’interno delle nuove norme e del sistema garantista predisposto dal legislatore risente fondamentalmente della trasformazione del concetto di famiglia.

Nella famiglia del terzo millennio  trovano accesso le libertà fondamentali della persona, imprescindibili, anzi arricchite da quelle del ruolo esercitato all’interno del gruppo. Si assiste ad un’osmosi continua tra “dentro” e “fuori”, una continuità mai percepita nella tutela dei diritti della persona tra il pubblico ed il privato.

La tutela della persona non si affievolisce nella famiglia, non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano una diversa protezione a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare. Vengono sottolineati attraverso interessanti e critici passaggi giurisprudenziali i nuovi contenuti dei doveri coniugali e genitoriali, che vedono protagonisti la solidarietà, il sostegno attivo, il rispetto delle singole individualità, l’attenzione alle esigenze personali, senza schemi precostituiti, finalizzati a garantire il perfetto inserimento nel contesto sociale e la partecipazione. Sembra che la grande rivoluzione sia immaginare un privato che aiuti a collocare fuori la persona. La famiglia diventa quindi sintesi del processo di conoscenza, come esperienza affettiva e di cura.. In un’ottica idealtipica weberiana l’amore di cui parla il legislatore non e’ il fine ma lo strumento che consente una sana espansione della persona. Non può trovare ingresso nella prassi giuridica un’affermazione di genitorialità priva dei contenuti descritti, si evolve, quindi, il concetto di educazione andando a fondare proprio l’idoneità genitoriale. L’elemento fondante la responsabilità genitoriale è l’educazione.

Essa si configura come un munus affermato all’art.30C per i genitori, riconosciuto all’interno dell’autonomia che l’art.2 C. attribuisce alla famiglia, contemperato dai  limiti posti dagli artt. 2,8,19, 21 C.

Le libertà di culto, di pensiero, di stampa, libertà di associazione politica, rispetto alle formazioni sociali, sono considerate alla stregua di diritti indeclinabili del minore naturalmente capace, un nucleo base, dunque, che deve essere assunto a modello dell’azione pedagogica dei genitori integrando la serie di diritti e doveri loro assegnati dal primo comma dell’art.30C

Questo dovere si è sostanziato negli anni di nuovi contenuti rispetto a cosa e rispetto al come.

L’ambito genitoriale si delinea attraverso un gioco di cerchi concentrici in cui vengono definiti i limiti massimi e minimi usando come parametri il welfare del minore, il pregiudizio e la violazione dell’ordine pubblico.

Il pregiudizio non è predeterminato così come il welfare, ma, soccorrono a identificarlo vari indicatori psicosociali che permettono di contestualizzare le diverse modalità socio-ambientali, culturali ed economiche, in cui si vanno a misurare i bisogni e la mancanza di tutela degli stessi.

Più precisamente le norme che menzionano le esigenze, i bisogni, rinviando alla famiglia considerata nella sua totalità, si riferiscono però agli interessi della singola famiglia quali emergono dalla concreta esperienza di vita, di quella famiglia della quale eventualmente il giudice debba occuparsi per valutare diritti e doveri dei coniugi e dei figli e per apprezzarne la condotta in termini di adeguatezza o di difformità dagli standards esigibili.

E’ fondamentale quindi il concetto innovativo di famiglia e i nuovi doveri che definisce, quale ad es. descritto nella sentenza 18/4- 10/5/2005 n.9801 Costituisce infatti acquisizione da tempo condivisa che nel sistema delineato dal legislatore del 1975 il modello di famiglia-istituzione al quale il c.c. del 1942 era rimasto ancorato, e’ stato superato da quello di famiglia comunità i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato ma si identificano con quelli solidali dei suoi componenti. La famiglia si configura come luogo d’incontro e di vita comune dei suoi membri come sede di autorealizzazione e di crescita segnata dal reciproco rispetto ed immune da ogni distinzione di ruoli nell’ambito della quale i singoli componenti ricevono tutela come persone in adesione al disposto di cui all’art.2 C.  La storia della giustizia minorile ha condotto di pari passo al riconoscimento del diritto all’educazione del minore, quale interesse pubblico e della collettività di appartenenza ed infine al diritto del minore all’educazione quale posizione soggettiva meritevole di tutela a prescindere dai vantaggi del contesto sociale circostante con conseguente evoluzione della finalità delle procedure minorile dirette, in un primo tempo, a disporre un intervento sostitutivo o suppletivo dell’azione educativa dei genitori e soltanto in un secondo tempo alla pronuncia di una decisione sulla condizione giuridica del minore. Tale premessa  (il diritto del minore a crescere in una famiglia adeguata al compito di formazione) e’ indispensabile per comprendere come il processo minorile vada ad incidere sul conflitto tra il diritto-dovere dei genitori ad assolvere il compito di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, potendo la decisione giungere ad una definitiva declaratoria dello stato di abbandono e della estromissione del figlio dal nucleo di appartenenza. La gravità delle situazioni affrontate ha reso opportuna la previsione di strumenti processuali duttili, ispirati a criteri di urgenza, immediatezza delle decisioni ed officiosità dell’istruttoria. L’affermarsi quindi di una progressiva tendenza a giurisdizionalizzare i rapporti afferenti alla funzione di protezione del minore ha origine in una istanza di garanzia che soltanto attraverso l’attribuzione al giudice della detta funzione si e’ ritenuto di poter assicurare, potendo il giudice non soltanto esercitare un’assistenza e salvaguardia dell’infanzia abbandonata ma soprattutto interferire sulla volontà genitoriale attraverso un controllo dei poteri-doveri loro spettanti in funzione dell’interesse del figlio. Da ciò nasce l’esigenza di garantire la partecipazione e la difesa di tutti i soggetti interessati. La L. 149/01 che ha modificato la 184/83 recependo i principi espressi nella Convenzione adottata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata in Italia con la L. 20/3/2003 n. 77 (ascolto del minore) ha delineato una modifica del processo civile minorile con la previsione di una partecipazione di tutte le parti chiamate tra cui anche il minore rivestito di un’autonoma veste processuale e pur attribuendo al Pubblico Ministero il potere di iniziativa, ha lasciato comunque al giudice la possibilità di intervenire in via di urgenza anche in assenza dei difensori salva la necessita’ di ratifica successiva e con le garanzie della difesa. La legge ha fissato alcuni principi: 1) l’avvocato del minore in ogni provvedimento relativo  a questioni di potestà e non solo in caso di conflitto di interessi, e questo  e’ l’ovvia conseguenza della natura dei procedimenti aventi ad oggetto condotte pregiudizievoli dei genitori nei confronti dei figli minori; 2) il principio della obbligatorietà della difesa tecnica del minore; 3) la nomina di un avvocato a prescindere dalla capacita’ di discernimento del minore. Con la medesima riforma e’ stato affermato il diritto del minore all’affidamento etero-familiare nelle situazioni di difficoltà del nucleo di origine con conseguente trasferimento in tutto o in parte, da un lato delle espressioni della responsabilità genitoriale quali il  mantenimento,  l’educazione e l’ istruzione in capo agli affidatari nelle ipotesi di limitazione o ablazione della stessa incidendo in tal modo sulla titolarità spettante ai genitori, dall’altro lato consentendo al minore di esprimere il proprio parere o consenso per la prosecuzione o sospensione dell’affidamento stesso ed attribuendogli, dunque, un valore di partecipazione essenziale al processo stesso.

Quindi in linea generale si afferma il diritto del minore a vivere nella propria famiglia, ma, al contempo, si richiede al nucleo originario un’adeguatezza tale da garantire l’inserimento e la crescita del minore quale cittadino in formazione. Si attribuisce e si riconosce la valenza della famiglia come primaria agenzia formativa.

D’altra parte la capacità affettiva, con la quale si indica generalmente la capacità genitoriale anche nella individuazione delle coppie pronte all’adozione, si sostanzia proprio dei tre indicatori di cui alla Costituzione, mantenere, educare, istruire; indicatori ormai inscindibili nella valutazione del giudice minorile e che possono essere surrogati e/o integrati da risorse dello stato sociale solo per breve tempo, considerando , per cassazione costante, una inadeguatezza senza possibilità come dire di rinascita anche il mancato reperimento di strumenti idonei al superamento dei propri problemi.

Nata a Napoli il 24/08/55 si e’ laureata in giurisprudenza nel 1982, presso l’Universita’ di Napoli,  discutendo una tesi finale sperimentale sull’imputabilita’ dei tossicodipendenti alla luce della L. basaglia.
Segue il corso biennale del CRF di animatore di comunita’ psichiatrica discutendo la tesi finale Il nuovo concetto di salute mentale.
Segue master Psicologia della comunicazione
Segue il corso seminariale biennale Mediazione familiare, conflittualita’ di coppia e responsabilita’ genitoriale presso l’Universita’ degli Studi di Napoli, discutendo la tesi finale La mediazione familiare, storia e modalita’ di approccio (2003)
Segue il master in diritto di famiglia presso il CEIDA in Roma e discute la tesi finale La genitorialita’ giuridica e le liberta’ fondamentali(2005)
Esercita la professione di avvocato civilista con studio in Napoli: ambiti prevalenti diritto di famiglia e minori, responsabilita’ civile, amministrazione di sostegno.

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