La Legge Cirinnà sulle Unioni Civili
Lo scioglimento dell’unione e il diritto al mantenimento del partner più debole.
Dopo un lungo e travagliato iter parlamentare anche l’Italia si è dotata di una legge che permette a due cittadini dello stesso sesso di godere di diritti che, prima, era riservati alle sole coppie eterosessuali. L’introduzione del nuovo istituto nasce dalla necessità di rispondere alle pressioni interne, derivanti dalle plurime sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, e da quelle esterne, non solo quindi la legislazione europea ma anche le sentenza di condanna inflitte all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in ordine all’opportunità di riconoscere anche alle coppie dello stesso sesso un nucleo di diritti indiscutibili.
La legge n. 76/2016, meglio nota come Legge Cirinnà, al comma 11 dell’art. 1, prevede espressamente la costituzione della cosiddetta unione civile, con cui le parti acquistano gli stessi diritti ed assumono gli stessi doveri. Si tratta di una disposizione analoga a quella che l’art. 143, comma 1, c.c. prevede per il matrimonio, come diretta emanazione dell’art. 29 Cost., in base al quale il matrimonio si basa sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.
Tuttavia tra l’unione civile ed il matrimonio sussistono peculiari differenze in relazione agli specifici doveri che sorgono dal vincolo. Come è noto, il comma 2 dell’art. 143 c.c. riconduce al matrimonio gli obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e coabitazione, di contro, il comma 3 dell’art. 1 della nuova legge prevede per entrambi gli uniti il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo. Si vede, quindi, come la legge non contempla, dunque, i doveri di fedeltà e di collaborazione, facendo solo riferimento, all’interno dell’unione civile, agli obblighi di assistenza e coabitazione. L’obbligo di fedeltà ha assunto, col tempo, un significato affievolito al punto che la giurisprudenza, nell’occuparsi dell’addebito della separazione in relazione alla sua violazione, ha richiesto la prova che l’adulterio abbia determinato la crisi coniugale e, dunque, l’intollerabilità della convivenza. Dalla mancata previsione di detto obbligo all’interno dell’unione civile non consegue che le parti non debbano considerarsi vincolate dall’impegno di un progetto condiviso ma detto impegno viene incanalato, appunto, nel quadro di un più generale dovere di assistenza materiale e morale. Nell’unione civile manca altresì il riferimento al dovere di collaborazione nell’interesse delle famiglia che, tuttavia, può essere ricondotto nel più generale obbligo di assistenza morale e materiale in proporzione alle proprie capacità di lavoro professionale e casalingo. Si legge, in questo passaggio, un chiaro riferimento ad un nuovo modello di famiglia in cui non è più concepibile la netta distinzione di ruoli (lavorativo e casalingo) che non appartiene più alla nostra epoca.
Un’ulteriore e rilevante differenza rispetto al vincolo coniugale e comunque strettamente connessa alla natura dei doveri che scaturiscono dall’unione civile è che la legge Cirinnà esclude la fase della separazione quale momento prodromico allo scioglimento dell’unione civile. In base ai commi 22, 23 e 24 dell’art. 1 della legge, l’unione civile si scioglie per alcune cause previste dalla legge sul divorzio (ad eccezione, in primis della pregressa separazione, non configurata), ma anche per dichiarazione, congiunta o disgiunta, di sciogliere l’unione stessa.
La mancata previsione della separazione preclude la possibilità che venga accertato l’addebito della crisi della coppia in caso di inottemperanza degli obblighi previsti.
Tuttavia, la violazione di quel reciproco impegno sancito per legge non resta senza conseguenze in quanto, sebbene non configuri un addebito, può certamente costituire motivo di risarcimento del danno da illecito endo-familiare, ove compromessi quei diritti – quali la salute, reputazione, libertà personale – costituzionalmente garantiti. La giurisprudenza ha infatti ritenuto configurabile detto illecito, in presenza di condotte del coniuge contrastanti con i doveri che derivano dal matrimonio in quanto detti doveri si considerano espressione di principi generali di rispetto e solidarietà operanti anche all’interno di una convivenza more uxorio e dunque direttamente riconducibili all’impianto costituzionale e non quale mero rinvio all’art. 143 c.c. (Cass. 20 giugno 2013, n. 15481).
Non solo, le ragioni dello scioglimento dell’unione civile rilevano ai fine della determinazione dell’assegno “divorzile” che dovesse essere liquidato nella ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 5 l. n. 898/1970, in quanto la legge prevede tra i vari parametri di cui il giudice deve tenere conto nella quantificazione dell’assegno, rientrano pure “le ragioni della decisione”.
In effetti, la Legge n. 76/2016 – rinviando alle disposizioni vigenti in tema di matrimonio “per quanto compatibili” – al comma 25 dell’art. 1 regolamenta le possibili conseguenze di natura economica che possono derivare in capo ai soggetti di una unione civile nel caso di disgregazione.
E’ indubbio, pertanto, che la legge abbia voluto riconoscere al soggetto debole di una unione civile le medesime garanzie previste per il coniuge debole. Tuttavia la evidente non equiparabilità dell’unione rispetto al matrimonio non può non avere conseguenze sotto il profilo dell’an e del quantum dell’assegno spettante al soggetto debole dell’unione.
Relativamente all’an, al momento dello scioglimento dell’unione civile, il Tribunale adito può stabilire l’obbligo per uno degli uniti di somministrare periodicamente al partner un assegno quando quest’ultimo non abbia mezzi adeguati o comunque non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Non si tratta, pertanto, di una attribuzione automatica ma condizionata all’accertamento dell’assenza, in capo al soggetto richiedente l’assegno, di mezzi adeguati a garantirne il mantenimento o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive che dovrà essere valutata in concreto, tenuto conto delle condizioni soggettive (età, malattia) del richiedente alla luce di fattori economici, sociali, individuali, e territoriali.
Una volta accertata la sussistenza del diritto, la misura della relativa contribuzione verrà poi determinata considerando: a) le condizioni delle parti dell’unione; b) le ragioni della decisione; c) il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune; d) il reddito di entrambi, il tutto parametrato in relazione al criterio temporale della e) durata dell’unione civile.
E’ importante sottolineare come il riferimento al parametro c) consente di annoverare a tutti gli effetti l’unione civile in un concetto lato di famiglia, bene distante dall’accezione tradizionalmente intesa. Probabilmente alcune criticità emergeranno, di contro, rispetto ad altri due elementi: quello della durata dell’unione e quello delle ragioni dello scioglimento.
Infatti, se rispetto al criterio temporale, i giudici non potranno non far riferimento alla durata legale del vincolo, ci si chiede quale valore verrà attribuito, in sede di quantificazione dell’assegno, alla convivenza intervenuta prima della formalizzazione del vincolo, considerato l’enorme ritardo con cui il legislatore italiano è intervenuto a riconoscere le coppie same-sex.
Con riguardo poi alle “ragioni della decisione”, tale parametro – a prima lettura – potrebbe risultare incompatibile con la mancata previsione di un preventivo giudizio di separazione in cui venga valutata l’eventuale “colpa” per il dissolvimento dell’unione civile. Tuttavia, il parametro è congruente se considerato come meramente funzionale alla quantificazione della misura dell’assegno, per ricostruire una verità storica e non la colpa dell’eventuale obbligato. Il legislatore italiano, verosimilmente, non ha voluto introdurre nessun surrogato di accertamento di addebito per colpa sulla falsariga del divorzio in quanto il riferimento a tale parametro ha solo lo scopo di ricostruire le condotte dei singoli all’interno dell’unione civile per attenuare il diritto alla percezione di contributo economico ancorché tali apporti non vi siano stati in materia reciproca.
Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.