T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 28/07/2017,  n. 1329

Massima

A seguito della richiesta di un privato di rilascio di una concessione demaniale marittima, l’Amministrazione ha due possibilità: respingere la richiesta con un provvedimento debitamente motivato; oppure, ove intenda e possa pervenire alla concessione, indire una procedura selettiva nel rispetto dei principi di parità di trattamento, concorrenza, buon andamento ed efficienza. Per il rilascio di una nuova concessione demaniale marittima è infatti necessario il ricorso a procedure ad evidenza pubblica, in quanto tali concessioni hanno come oggetto un bene/servizio “limitato” nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali. La spiaggia è un bene pubblico demaniale (art. 822 c.c.) e perciò inalienabile e impossibilitato a formare oggetto di diritto a favore di terzi (art. 823 c.c.), sicché proprio la limitatezza nel numero e nell’estensione, oltre che la natura prettamente economica della gestione (fonte di indiscussi guadagni), giustifica il ricorso a procedure comparative per l’assegnazione .

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce – Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 281 del  2016,  integrato  da motivi aggiunti, proposto da:                                      Nautica Tito Group s.n.c. di Si. e Fr. Si.,  in  persona  del  legale rappresentante p.t., rappresentata e  difesa  dall’avvocato  Riccardo Leonardi, con domicilio eletto  presso  lo  studio  del  medesimo  in Ancona, corso Stamira, 49; ul ricorso numero di registro generale 403 del 2017, proposto da:

Buenavida  S.r.l.,  in  persona  del  legale  rappresentante    p.t., rappresentata  e  difesa  dall’avvocato  Daniela  Anna  Ponzo,    con domicilio eletto presso il suo  studio  in  Lecce,  via  Michelangelo Schipa 35;

contro

Comune  di  Nardò,  in  persona  del  legale  rappresentante    p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato  Paolo  Gaballo,  con  domicilio eletto presso lo studio Paolo Avv. Gaballo in Lecce, via  Rubichi  23 Presso Tar;

per l’esatta esecuzione-ottemperanza

– della Sentenza del T.A.R. Puglia -Sede di Lecce, Sezione Prima,  n. 724, pubblicata mediante deposito in Segreteria  in  data  04  maggio 2016, resa sul Ricorso R.G. n. 3192/2015, non appellata e,  comunque, notificata al Comune di Nardò, munita di formula  esecutiva  (apposta in data 06.12.2016) , il successivo 15.12.2016;

nonché per la declaratoria della nullità

della Nota racc.ta a.r.  del Comune di Nardò, prot. n. 38442/14 -22336/16, in data 19.05.2016  (di seguito: nota Comune di Nardò in data 19.05.2016) e  della  Nota  pec del Comune di  Nardò,  prot.  n.  0008636,  in  data  28.02.2017  (di seguito: nota Comune di Nardò in data 28.02.2017).

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Nardò;

Viste le memorie difensive;

Visto l’art. 114 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio  del  giorno  21  giugno  2017  la dott.ssa Patrizia Moro e uditi per  le  parti  i  difensori  come  da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

La società ricorrente espone quanto segue:

– in data 17.10.2014 presentava domanda per il rilascio di una concessione demaniale finalizzata a realizzare uno stabilimento balneare nel Comune di Nardò;

– stante il silenzio opposto dall’A.C. sull’istanza adiva il Tar di Lecce al fine di sentir dichiarare l’illegittimità del silenzio e la condanna del Comune all’adozione di un provvedimento espresso;

– con sentenza n. 724/2016 questo Tribunale dichiarava l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza;

– con nota del 19.5.2016 il Dirigente comunale, preso atto della citata sentenza, invitava la ricorrente a partecipare alla selezione per il rilascio della concessione demaniale marittima messa a bando sul lotto di mq2209 n. 31 del PCC./2016

– Buonavida, nella convinzione che la sua istanza di concessione non potesse ritenersi esitata con un invito a partecipare a un bando pubblico, sollecitava nuovamente il Comune a concludere il procedimento anche in esecuzione della sentenza del TAR 724/2016;

– il dirigente dell’Area Funzionale 1^ del Comune di Nardò, comunicava che il Comune “non può e non intende annullare in autotutela il bando già pubblicato…ciò in quanto, con il provvedimento nota di protocollo del 19.5.2016 ha già riscontrato l’istanza di rilascio della richiesta di concessione demaniale pervenuta in data 17.0.2014…”.

A seguito di ciò la ricorrente, ritenendo non sussumibili nell’accezione di provvedimento amministrativo e, quindi, di esatta esecuzione ottemperanza della sentenza n. 724/2016, né la nota del Comune di Nardò del 19.5.2016, né quella del 28.2.2017, con il ricorso all’esame ha richiesto l’esatta esecuzione della sentenza citata rilevando l’illegittimità delle note suindicate.

Questi i motivi a sostegno del ricorso:

Nullità delle note del Comune di Nardò, prot. 38442/14-22336/2016 del 19.5.2016 e prot. 0008636 del 28.2.2017, ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui all’art. 21 septies della L. 241/1990 e s.m.i. – violazione ed elusione del giudicato e, comunque, inesatta esecuzione della Sentenza del TAR Puglia-Lecce n. 724/2016 – violazione, erronea interpretazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui al combinato disposto degli artt. 2 e 3 della L. 241/1990 e s.m.i. sotto i profili di seguito specificati- violazione dei principi di cui all’art. 97 Cost – eccesso di potere per sviamento della causa tipica attributiva del potere concessorio – eccesso di potere per evidente disparità di trattamento, difetto/omessa istruttoria, ingiustizia manifesta e malgoverno .

Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Il Collegio ritiene che il Comune di Nardò, adottando il provvedimento del 19.5.2016 di invito della ricorrente a partecipare alla selezione per il rilascio della concessione demaniale marittima messa a bando sul lotto di mq2209 n. 31 del PCC./2016, abbia pienamente ottemperato all’obbligo scaturente dalla sentenza n. 724/206, la quale aveva sancito il mero obbligo della stessa di provvedere sull’istanza di rilascio di concessione demaniale marittima con un provvedimento espresso, sia esso di accoglimento, sia di rigetto.

Deve infatti chiarirsi che, a seguito della richiesta di un privato di rilascio di una concessione demaniale marittima, l’Amministrazione abbia due possibilità: ossia, respingere la richiesta con un provvedimento debitamente motivato( esplicitando ad es. le eventuali ragioni impeditive stabilite nel PCC o, in mancanza, nel PRC, o le ragioni di interesse pubblico); oppure, ove intenda e possa pervenire alla concessione, indire una procedura selettiva nel rispetto dei principi di parità di trattamento, concorrenza, buon andamento ed efficienza.

Invero, come ricordato di recente dalla Corte Costituzionale (nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 8 e 9, della legge della Regione Puglia 10 aprile 2015, n. 17 (Disciplina della tutela e dell’uso della costa) con la sentenza del gennaio 2017, n. 40, ( dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 14:a) comma 8, secondo periodo, e b) comma 9, della legge della Regione Puglia 10 aprile 2015, n. 17 ) “per il rilascio di nuove concessioni (in tal senso anche Consiglio di Stato, sezione sesta, 28 gennaio 2014, n. 432, con riferimento alla variazione del titolo concessorio), legittimamente la legge reg. Puglia n. 17 del 2015 prescrive, correttamente, il ricorso a procedure di evidenza pubblica” (non previste, invece, dal comma 9 dell’art. 14 della legge reg. Puglia n. 17 del 2015, che stabiliva che “il PCC , nelle disposizioni transitorie volte a disciplinare le modalità di adeguamento dello stato dei luoghi antecedenti alla pianificazione, salvaguarda le concessioni in essere fino alla scadenza del termine della proroga di cui all’articolo 1, comma 18, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25, salve le esigenze di sicurezza”. ).

“Il mancato ricorso a procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati determina, infatti, un ostacolo all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato, non solo risultando invasa la competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., ma conseguendone altresì il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia (sentenze n. 171 del 2013, n. 213 del 2011, n. 340, n. 233 e n. 180 del 2010)”.

Peraltro, la Corte di Giustizia ( sent. 14 luglio 2016) ha dichiarato l’illegittimità della proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per finalità turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura trasparente di selezione tra i potenziali candidati, qualora queste presentino un interesse transfrontaliero certo.

Del resto, le concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative hanno come oggetto un bene/servizio “limitato” nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali. La spiaggia è un bene pubblico demaniale (art. 822 cc) e perciò inalienabile e impossibilitato a formare oggetto di diritto a favore di terzi (art. 823 c.c.), sicché proprio la limitatezza nel numero e nell’estensione, oltre che la natura prettamente economica della gestione (fonte di indiscussi guadagni), giustifica il ricorso a procedure comparative per l’assegnazione.

Osserva il Collegio che le concessioni demaniali marittime sono concessioni amministrative aventi ad oggetto l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni facenti parte del demanio necessario dello Stato (art. 822, comma 1, c.c.) e il rilascio delle stesse è disciplinato dal Codice della Navigazione che, all’art. 37, prevede che nel caso di più domande di concessione sia preferito il richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di questa per un uso che risponda ad un più rilevante interesse pubblico e, a tal fine, l’art. 18 del Regolamento di esecuzione al Codice della Navigazione prevede un iter procedimentale finalizzato alla pubblicazione delle istanze di rilascio di concessione.

Quanto previsto dal Codice della navigazione è confortato dai principi Europei la cui attuazione si ritiene non possa prescindere dall’assoggettamento delle pubbliche Amministrazioni all’obbligo di esperire procedure ad evidenza pubblica ai fini della individuazione del soggetto contraente anche in materia di concessioni di beni pubblici.

Applicando tali principi è quindi da escludere che l’A.C., dinanzi a una richiesta di concessione demaniale marittima, possa rilasciarla, anche ove possibile in base alle disposizioni del PRC o del PCC(ove approvato), senza indire una procedura selettiva.

Da tanto discende, che l’unico provvedimento favorevole che poteva adottare l’a.C., a seguito della citata sentenza n. 724/2016 era quello dell’invito della ricorrente alla partecipazione a una procedura selettiva

Non può neppure sostenersi che l’istanza della ricorrente, in quanto presentata prima dell’entrata in vigore della L.R. 17/2015 (la quale all’art. 8 prescrive che “La concessione è rilasciata all’esito di selezione del beneficiario effettuata attraverso procedura a evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, proporzionalità, efficienza e parità di trattamento, nonché della libera concorrenza) non richiedesse alcuna valutazione comparativa o procedura selettiva.

Invero, secondo i principi espressi dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (dalla sentenza n. 11 del 2016), pronunciatasi proprio sulla questione dell’applicabilità della normativa sopravvenuta alle ipotesi di riesercizio del potere amministrativo dopo la formazione di un giudicato favorevole al ricorrente, occorre innanzitutto interpretare il contenuto dispositivo della pronuncia passata in giudicato da ottemperare, al fine di verificare se in esso sia stata sancita espressamente la spettanza del bene della vita (ipotesi nella quale le nuove norme non possono incidere pregiudicando la pretesa sostanziale dell’interessato già riconosciuta come spettante dal Giudice Amministrativo), ovvero se a seguito del giudicato il potere dell’Amministrazione di esprimersi sulla fondatezza sostanziale della pretesa sia rimasto inalterato, essendosi il Giudice Amministrativo limitato ad affermare l’obbligo per l’Ente di esercitare nuovamente il potere, senza invece vagliare la fondatezza della domanda sostanziale (e quindi il diritto al bene della vita) articolata dal privato (caso quest’ultimo, invece, nel quale la normativa sopravvenuta va applicata, anche laddove da ciò derivi il necessario respingimento della domanda articolata dal ricorrente, sulla base della nuova legge applicabile).

Nel caso in esame la sentenza n. 724/2016 ha semplicemente dichiarato l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza con qualsiasi provvedimento, senza pronunciarsi sulla spettanza del bene della vita, sicché bene ha fatto il Comune ad applicare la normativa portata dal citato art. 8 della LR. 17/2015, in vigore al momento dell’istruttoria e dell’adozione del provvedimento citato, rispettando quindi perfettamente il principio del tempus regit (regolatore dell’adozione dei provvedimenti amministrativi).

Non può neppure sostenersi la illegittimità della seconda nota del 28.2.2017 con la quale il Comune di Nardò ha rilevato di non poter annullare in autotutela in bando già pubblicato.

Come chiarito, giusta provvedimento 19.5.2016, lo stesso aveva già prestato ottemperanza alla sentenza n. 724/201 e, comunque, per consolidata giurisprudenza, dalla quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, la pubblica amministrazione non ha l’obbligo giuridico di pronunciarsi su un’istanza diretta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela, che costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, di cui essa è titolare per la tutela dell’interesse pubblico e che, in quanto tale, è incoercibile dall’esterno (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 4 maggio 2015, n. 2237; id., Sez. IV, 26 agosto 2013, n. 4309).

In particolare, la giurisprudenza è costante nell’affermare che “non è ravvisabile alcun obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi su un’istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l’attivazione del procedimento di riesame della legittimità di atti amministrativi mediante l’istituto del silenzio-rifiuto, costituendo l’esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale dell’Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l’esercizio; per cui sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l’illegittimità, è da ritenersi inammissibile” (T.A.R. Lazio, Sez. I ter, 18 luglio 2016, n. 9563).

Stante quanto sopra, i provvedimenti impugnati sfuggono alle censure rassegnate nel ricorso il quale deve quindi essere respinto.

Sussistono nondimeno giustificati motivi (in ragione della peculiarità e novità della questione) per disporre la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Prima, respinge il ricorso.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 21 giugno 2017 con l’intervento dei magistrati:

Antonio Pasca, Presidente

Patrizia Moro, Consigliere, Estensore

Roberto Michele Palmieri, Primo Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 28 LUG. 2017.

 

Avv. Alessandro Barbieri

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Consiglio di Stato, sez. V, 27/04/2017,  n. 1955

Massima

L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lg. 18 aprile 2016 n. 50, consente alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la loro integrità o affidabilità, in tali ipotesi rientrando, tra l’altro, significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione, che ne hanno causato la risoluzione anticipata, che siano alternativamente non contestate in giudizio dall’appaltatore privato o confermate all’esito di un giudizio.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.

sul ricorso numero di registro generale 326 del 2017, proposto da:

A.S.V.  –  Azienda  Servizi  Vari  s.p.a.,  in  persona  del   legale

rappresentante pro  tempore,  rappresentata  e  difesa  dall’avvocato

Angelo Giuseppe Orofino, con  domicilio  eletto  ex  art.  25,  comma

1-ter,    cod.    proc.    amm.    presso    l’indirizzo       p.e.c.

agorofinolegalmail.it;

contro

Tra.De.Co. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro  tempore,

rappresentata e difesa dall’avvocato  Aldo  Loiodice,  con  domicilio

eletto presso il suo studio, in Roma, via Ombrone 12/b;

nei confronti di

Stazione unica appaltante presso la Provincia di Brindisi, in persona

del presidente e legale rappresentante pro tempore,  rappresentata  e

difesa dall’avvocato Mario Marino  Guadalupi,  con  domicilio  eletto

presso la segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, piazza Capo  di

Ferro 13;

Comune di Mesagne, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA – SEZ. STACCATA  DI  LECCE,  SEZIONE

III, n. 1935/2016, resa tra le parti, concernente un provvedimento di

esclusione dalla procedura di gara  per  l’affidamento  del  servizio

integrato di igiene urbana, raccolta,  trasporto  e  smaltimento  dei

rifiuti solidi urbani ed assimilabili, e del servizio di  spazzamento

nel territorio del Comune di Mesagne;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, cod. proc. amm.;

Visti gli atti di costituzione in giudizio  della  Tra.De.Co.  s.r.l.

della Stazione unica appaltante presso la Provincia di Brindisi;

Vista l’ordinanza istruttoria della Sezione n. 948 del 6 marzo 2017;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di  consiglio  del  giorno  16  marzo  2017  il

consigliere Fabio Franconiero e  uditi  per  le  parti  gli  avvocati

Isabella Loiodice, su delega  di  Aldo  Loiodice,  Luigi  Quinto,  su

delega di Guadalupi, e Alberto Maria Durante, su delega di Orofino;

Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

  1. Con ricorso ex art. 120, commi 2-bise 6-bis, cod. proc. amm. al Tribunale amministrativo regionale della Puglia – sezione staccata di Lecce la Tra.De.Co. s.r.l. impugnava il provvedimento con la quale era stata esclusa dalla Stazione unica appaltante presso la Provincia di Brindisi dalla procedura negoziata d’urgenza senza bando ex art. 63, comma 2, lett. c), del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) per l’affidamento del servizio integrato di igiene urbana, raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani ed assimilabili, e del servizio di spazzamento nel territorio del Comune di Mesagne (provvedimento di esclusione adottato dalla Stazione unica appaltante resistente il 24 agosto 2016).

Il provvedimento era stato adottato sul presupposto di “gravi illeciti professionali” ex art. 80, comma 5, lett. c), del nuovo codice dei contratti pubblici, commessi dalla Tra.De.Co. in un precedente contratto con altra pubblica amministrazione (Comune di Montesilvano).

  1. Con la sentenza in epigrafe il Tribunale amministrativo adito accoglieva il ricorso.

Il giudice di primo grado statuiva che la citata disposizione del codice dei contratti pubblici richiede che l’illecito professionale risulti, tra l’altro, confermato “all’esito di un giudizio“, mentre nel caso di specie la Tra.De.Co. “ha giurisdizionalmente contestato dinanzi al Tribunale Civile – Sezione Imprese di L’Aquila la risoluzione contrattuale” pronunciata nel precedente contratto e “tale giudizio civile è tutt’ora pendente (essendo solo stata rigettata l’istanza cautelare incidentalmente avanzata dalla Società attrice) “. Con la stessa pronuncia il giudice di primo grado ha consequenzialmente annullato l’aggiudicazione provvisoria adottata in data 15 settembre 2016 (recte: proposta di aggiudicazione) disposta a favore della controinteressata A.s.v. Azienda Servizi Vari s.p.a., parimenti impugnata dalla Tra.De.Co.

  1. La A.s.v., poi dichiarata aggiudicataria definitiva (con determinazione n. 920 del 15 dicembre 2016) ha quindi proposto appello, nel quale ha formulato istanza di sospensione della pronuncia di primo grado ai sensi dell’art. 98 del codice del processo amministrativo.
  2. Si sono costituiti rispettivamente in resistenza ed adesione all’appello la Tra.De.Co. e la Stazione appaltante unica presso la Provincia di Brindisi.
  3. Con ordinanza collegiale n. 948 del 6 marzo 2017, resa all’esito della camera di consiglio del 2 marzo 2017, fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, la Sezione ha disposto istruttoria e preavvisato le parti circa la possibilità di definire all’esito il giudizio ai sensi dell’art. 60 del codice del processo amministrativo.

DIRITTO

  1. Facendo seguito all’avviso contenuto nell’ordinanza istruttoria, questa Sezione reputa sussistenti le condizioni per definire l’appello mediante sentenza ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm. sopra citato, in combinato con l’art. 38 del medesimo codice, con il rigetto dello stesso.
  2. Dalla documentazione esibita in giudizio dalla Tra.De.Co. in ottemperanza all’ordine istruttorio risulta infatti che il presupposto previsto dal parimenti richiamato art. 80, comma 5, lett. c), del nuovo codice dei contratti pubblici ai fini dell’esclusione da procedure di affidamento per “gravi illeciti professionali” non è stato integrato nel caso di specie.

In particolare, come rilevato dal Tribunale amministrativo la risoluzione contrattuale pronunciata nei confronti dell’originaria ricorrente da parte del Comune di Montesilvano (determinazione n. 215 del 25 febbraio 2016), è stata impugnata sia in sede giurisdizionale ordinaria che amministrativa, rispettivamente al Tribunale delle imprese dell’Aquila (con richiesta di disapplicazione) e al Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo – sezione staccata di Pescara.

Come del pari comprovato dall’originaria ricorrente, entrambi i giudizi sono ancora pendenti, mentre è stato per contro definito davanti al primo giudice il ricorso ex artt. 669-quater e 700 cod. proc. civ. in corso di causa, con l’ordinanza pronunciata dal menzionato Tribunale delle imprese sul reclamo della Tra.De.Co. ex art. 669-terdecies del medesimo codice (ordinanza del 27 luglio 2016).

  1. Ciò premesso in fatto, l’art. 80, comma 5, lett. c), consente alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti ad una procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza di “gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità“, con la precisazione che in tali ipotesi rientrano, tra l’altro, “significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata“, le quali siano alternativamente non siano contestate in giudizio dall’appaltatore privato o – per venire al caso che interessa nel presente giudizio – sia stata “confermata all’esito di un giudizio“.
  2. In questo caso difetta appunto quest’ultimo presupposto, perché come emerso dalla documentazione prodotta dalla Tra.De.Co. su ordine della Sezione è stato definito una fase incidentale, di natura cautelare, del giudizio civile contro l’atto di risoluzione adottato dalla stazione appaltante, mentre rimane tuttora impregiudicato il merito dello giudizio, così come il parallelo contenzioso amministrativo contro lo stesso atto.
  3. Non è per contro fondata l’interpretazione contraria propugnata dall’appellante A.s.v., secondo cui la disposizione in esame del nuovo codice dei contratti pubblici sarebbe riproduttiva dell’art. 38, comma 1, lett. f), del codice ora abrogato (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) e dunque consentirebbe alle stazioni appaltanti di valutare discrezionalmente ed in modo autonomo la risoluzione disposta da altra stazione appaltante.

Più precisamente, il ragionamento dell’aggiudicataria può essere condiviso nella parte in cui rileva che l’elencazione dei gravi illeciti professionali contenuta nell’art. 80, comma 5, lett. c), non è tassativa, ma esemplificativa, come si evince dalla formula di apertura del periodo (“Tra questi rientrano…“) recante l’elenco dei casi rientranti in questa nozione. Come puntualmente evidenzia la A.s.v., in tal senso si è del resto espresso questo Consiglio di Stato, nel parere del 3 novembre 2016, n. 2286, numero affare 1888 del 2016 (reso sulle linee guida dell’ANAC recenti l’indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione di un precedente contratto d’appalto che possano considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui all’articolo 80, comma 5, lett. c), del codice; in particolare al par. 6) e questa Sezione reputa di aderire a questo convincimento.

  1. Ma lo stesso ragionamento non può essere seguito nelle conseguenze finali che pretende di trarre, a fronte dell’ipotesi contemplata nell’elenco esemplificativo in questione, così espressa: “le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni“. Sulla base dell’interpretazione letterale della norma (ex art. 12 delle preleggi) si richiede quindi che al provvedimento di risoluzione sia stata prestata acquiescenza o che lo stesso sia stato confermato in sede giurisdizionale. E questa conferma non può che essere data da una pronuncia di rigetto nel merito della relativa impugnazione divenuta inoppugnabile, come si evince dalla locuzione (ancorché atecnica) “all’esito di un giudizio“. A questo medesimo riguardo è invece da ritenersi evidentemente insufficiente la definizione di un incidente di natura cautelare, con decisione avente funzione interinale e strumentale rispetto a quella di merito.
  2. La A.s.v. pone allora una questione di compatibilità comunitaria dell’art. 80, comma 5, lett. c), sotto il profilo qui in contestazione.

L’appellante assume in particolare che la norma interna sarebbe in contrasto con l’art. 57, par. 4, lett. c) e g), della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici, recepita con il nuovo codice dei contratti pubblici, poiché tali disposizioni sovranazionali prevedono quale causa di esclusione da procedure di affidamento la commissione di “gravi illeciti professionali” che siano stati dimostrati “con mezzi adeguati” dall’amministrazione aggiudicatrice (lett. c), o “significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un requisito sostanziale nel quadro di un precedente contratto” che hanno causato “la cessazione anticipata di tale contratto precedente, un risarcimento danni o altre sanzioni comparabili” (lett. g), senza mai richiedere “alcun accertamento definitivo della responsabilità dell’appaltatore” (così nell’appello).

Ad ulteriore sostegno dei propri assunti la A.s.v. richiama il considerando 101 della direttiva, a mente del quale le amministrazioni aggiudicatrici “dovrebbero continuare ad avere la possibilità di escludere operatori economici che si sono dimostrati inaffidabili“, ed in particolare dovrebbero “mantenere la facoltà di ritenere che vi sia stata grave violazione dei doveri professionali qualora, prima che sia stata presa una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori, possano dimostrare con qualsiasi mezzo idoneo che l’operatore economico ha violato i suoi obblighi“.

  1. La Sezione osserva innanzitutto che la A.s.v. non ha interesse a chiedere che la questione sia rimessa alla Corte di giustizia europea e dunque la questione medesima è irrilevante nella presente controversia.

Ciò per la decisiva considerazione che la Tra.De.Co. ha dichiarato (memoria depositata il 14 marzo 2017) – senza contestazione avversaria – di non avere impugnato l’aggiudicazione definitiva a favore dell’odierna appellante e che il proprio interesse alla conservazione della pronuncia favorevole di primo grado nel presente giudizio è limitato, innanzitutto, ad evitare che l’esclusione da questa gara possa essere considerato motivo di esclusione in procedure di affidamento successive; ed inoltre, in caso di apertura della busta contenente la propria offerta economica, alla luce della possibilità di collocarsi al secondo posto della graduatoria, in vista di una possibile esclusione dell’aggiudicataria.

Pertanto, atteso il consolidarsi dell’aggiudicazione a favore della A.s.v., l’eventuale conferma dell’esclusione della Tra.De.Co. all’esito della risoluzione della pregiudiziale comunitaria nel senso auspicato dalla prima in nulla gioverebbe alla stessa.

  1. La questione di conformità del diritto nazionale a quello europeo prospettata dall’appellante non può peraltro essere apprezzata in senso favorevole alla A.s.v. nemmeno ai fini di una disapplicazione del primo.

Deve infatti evidenziarsi che la causa di esclusione su cui si controverte nel presente giudizio ha carattere facoltativo.

Ciò lo si evince dal citato art. 57, par. 4, della direttiva 2014/24/UE. Questa disposizione prevede infatti che le situazioni da esso elencate relative agli operatori economici partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici sono quelle in presenza delle quali le amministrazioni aggiudicatrici “possono escludere“, oppure possono essere richieste da”gli Stati membri“, in sede di recepimento della direttiva, “di escludere dalla partecipazione alla procedura d’appalto” tali operatori. Quindi, la norma europea facoltizza gli Stati membri a prevedere quale causa di esclusione da procedure di affidamento di contratti pubblici, senza porre a carico degli stessi alcun vincolo. A fortiori deve ritenersi pertanto che non vi siano vincoli quanto alla definizione normativa della causa di esclusione in questione a livello nazionale.

  1. Al medesimo riguardo, non giova alla A.s.v. richiamare il considerando 101, laddove si fa riferimento alla possibilità di escludere dalla gara l’operatore economico in caso di “grave violazione dei doveri professionali“, dimostrata dall’amministrazione “con qualsiasi mezzo idoneo“, “prima che sia stata presa una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori“. Quest’ultima previsione è infatti espressamente riferita ai motivi di esclusione “obbligatori“, ovvero a quelli previsti dall’art. 57 della direttiva, ai paragrafi 1 e 2, mentre nel caso di specie si verte nelle ipotesi contemplate dal paragrafo 4 della medesima disposizione.

Per essa vale dunque il rinvio a “qualsiasi mezzo idoneo“, che il legislatore nazionale nell’esercizio della sua discrezionalità rispetto ad un ambito del diritto dei contratti pubblici non vincolato a livello europeo può ritenere integrato solo in presenza di una decisione giurisdizionale definitiva, come avvenuto nel caso di specie con l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016.

  1. Da ultimo rimane da esaminare la questione di costituzionalità di tale disposizione di legge per contrasto con il canone del buon andamento sancito dall’art. 97 della Carta fondamentale.

La questione – che pure presente aspetti di non manifesta infondatezza, alla luce dei rilievi formulati da questo Consiglio di Stato nel citato parere n. 2286 del 7 novembre 2016 (in particolare al par. 13.2, richiamato dall’appellante), che questa Sezione condivide – non è tuttavia rilevante. A questa conclusione si perviene sulla base delle stesse considerazioni svolte in relazione alla pregiudiziale comunitaria e cioè per l’avvenuto consolidamento dell’aggiudicazione definitiva e per la conseguente impossibilità per la A.s.v. di risentire alcun pregiudizio dalla conferma dell’annullamento dell’esclusione della Tra.De.Co. pronunciata dal Tribunale amministrativo.

  1. L’appello deve quindi essere respinto, ma l’indubbia novità della questione controversa, di prima applicazione della nuova fattispecie normativa del grave errore professionale, giustifica la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e compensa le spese.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2017 con l’intervento dei magistrati:

Francesco Caringella, Presidente

Paolo Troiano, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere, Estensore

Alessandro Maggio, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 27 APR. 2017.

 

Avv. Raimondo Nocerino

Raimondo Nocerino, classe 1976, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli
Federico II nel 2000 con lode, maturando esperienze di studio in Spagna.

Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Diritti dell’Uomo presso l’Ateneo Federiciano nel marzo 2006 e presso la stessa Università, nel2012, il diploma di perfezionamento in “Diritto dell’unione Europea: la tutela dei diritti”.

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Consiglio di Stato, sez. V, 30/10/2017,  n. 4979

Massima

In materia di delimitazione del demanio rispetto alla proprietà privata, la Pubblica amministrazione non esercita un potere autoritativo costitutivo, ma si limita all’accertamento dell’esatto confine demaniale che, pur svolgendosi con le forme del procedimento amministrativo, ha carattere vincolato, non comporta la spendita di potere amministrativo discrezionale ed è inidoneo a degradare il diritto di proprietà privata in interesse legittimo, trattandosi appunto di un atto di accertamento e non di un atto ablatorio, da qualificare come autotutela privatistica speciale e non come attività provvedimentale discrezionale; di conseguenza, nel caso in cui la parte ricorrente contesti la dichiarata demanialità di un’area ed affermi che si tratti di proprietà privata, la posizione soggettiva tutelanda è, in ogni caso, una posizione di diritto soggettivo, consistente nell’affermazione della natura privatistica dell’area di cui si discute e nella rivendicazione della proprietà dell’area stessa.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.

sul ricorso iscritto in appello al numero di registro  generale  5850

del 2017, proposto da:

Pe. Gi. e Gi.  Br.,  rappresentati  e  difesi  dall’avvocato  Daniele Granara, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, al  corso Vittorio Emanuele, n. 154/3;

contro

Comune di Sesta Godano, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Liguria, sez. I, n.  3/2017,  resa  tra  le parti, concernente la richiesta di annullamento  della  Deliberazione del Consiglio Comunale di Sesta Godano  24  settembre  2016,  n.  32, avente ad oggetto “demanializzazione e classificazione  quale  strada comunale del tratto di strada compreso tra Via Zeri e Via Scopesi”.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del  giorno  19  ottobre  2017  il Cons. Giovanni Grasso e uditi per le parti gli avvocati Granara;Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

FATTO E DIRITTO

LETTO il ricorso, notificato nei tempi e nelle forme di rito, con il quale i signori Pe. Gi. e Gi. Br., come in atti rappresentati e difesi, hanno impugnato la sentenza, resa in forma semplificata ex art. 60 cod. proc. amm. e meglio distinta in epigrafe, con la quale il T.A.R. Liguria ha dichiarato inammissibile per carenza di giurisdizione il ricorso dagli stessi proposto avverso la deliberazione del Consiglio Comunale di Sesta Godano del 24 settembre 2016, n. 32, avente ad oggetto “demanializzazione e classificazione quale strada comunale del tratto di strada compreso tra Via Zeri e Via Scopesi”;

RITENUTO che, a sostegno del gravame, gli appellanti (oltre a reiterare, in prospettiva devolutiva, le ragioni di doglianza rimaste assorbite in prime cure) hanno criticamente argomentato l’erroneità della sentenza impugnata (per violazione e falsa applicazione degli artt. 8,9 e 11 cod. proc. amm.), sul complessivo assunto che – a fronte del potere autoritativo esercitato, ad asserita connotazione sostanzialmente ablatoria – la posizione soggettiva vantata e dedotta in giudizio avesse, di fatto, la consistenza dell’interesse legittimo (come tale rimesso alla ordinaria cognizione del giudice amministrativo) e non del diritto soggettivo: con il che il petitum sostanziale non avrebbe dovuto essere riferito, come erroneamente ritenuto dal primo giudice, alla contestata “demanializzazione” delle aree oggetto di causa, né alla loro mera “classificazione” pubblicistica, ma solo alla denunziata e lesiva incidenza sul proprio finitimo compendio dominicale;

CONSIDERATO che l’appello si palesa prima facie infondato, di tal che la controversia può essere definitiva con statuizione in forma semplificata;

RITENUTO, invero, che il provvedimento impugnato è, in punto di fatto, inequivocabilmente inteso alla “demanializzazione del tratto di strada che unisce Via Scopesi a Via Zeri composto dalle […] particelle catastali individuate al fg. 42 particella 770”;

CONSIDERATO, in punto di diritto, che costituisce jus receptum, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi nel caso di specie, quello per cui:

  1. a) la giurisdizione del giudice ordinario e quella del giudice amministrativo vanno, in termini generali, determinate non già in base al criterio della c.d. prospettazione del ricorso (ossia alla stregua della qualificazione giuridica soggettiva che l’istante attribuisce all’interesse di cui invoca tutela), bensì in ragione dell’effettivo petitum sostanziale, ossia dello specifico oggetto e della reale natura della controversia, da identificarsi in funzione della concreta causa petendi, costituita dal contenuto della posizione soggettiva dedotta in giudizio e individuabile in relazione alla protezione sostanziale accordata in astratto alla posizione medesima dalla disciplina legale da applicare alle singole fattispecie;
  2. b) in materia di delimitazione del demanio rispetto alla proprietà privata, la p.a. non esercita un potere autoritativo costitutivo, ma si limita all’accertamento dell’esatto confine demaniale che, pur svolgendosi con le forme del procedimento amministrativo, ha carattere vincolato, non comporta la spendita di potere amministrativo discrezionale ed è inidoneo a degradare il diritto di proprietà privata in interesse legittimo, trattandosi appunto di un atto di accertamento e non di un atto ablatorio, da qualificare come autotutela privatistica speciale e non come attività provvedimentale discrezionale (cfr. ex multisCons. Stato, sez. VI, 9 novembre 2010, n. 7975; Id., 26 settembre, 2011, n. 5357;. Id., 23 maggio 2012, n. 3030; Id., sez. II, 3 aprile 2013, n. 7280; Id., sez. IV, 11 aprile 2014, n. 1758, nonché Cass. SS.UU., 9 settembre 2013, n. 20596);
  3. b) di conseguenza, nel caso in cui, come nella specie, la parte ricorrente contesti la dichiarata demanialità di un’area ed affermi che si tratti di proprietà privata, la posizione soggettiva tutelanda è, in ogni caso, una posizione di diritto soggettivo, consistente nell’affermazione della natura privatistica dell’area di cui si discute e nella rivendicazione della proprietà dell’area stessa (negli esatti termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 20 luglio 2016, n. 3288);

RITENUTO che la sentenza impugnata, con il dichiarare l’inammissibilità del proposto ricorso, ha fatto corretta applicazione dei riassunti principi e resiste, come tale, alle formalizzate ragioni di doglianza;

CONSIDERATO che nulla debba statuirsi in ordine alle spese e competenze di lite, stante la mancata costituzione in giudizio della intimata Amministrazione;

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), respinge l’appello.

Nulla per le spese.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 ottobre 2017 con l’intervento dei magistrati:

Carlo Saltelli, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere

Giovanni Grasso, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 30 OTT. 2017.

 

Avv. Alessandro Barbieri

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Consiglio di Stato, sez. V, 30/10/2017,  n. 4979

Massima

L’art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 fissa un termine perentorio ai fini della presentazione dell’istanza di sanatoria per opere abusive relative a immobili assoggettati a procedure esecutive che però deve razionalmente raccordarsi all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio.

Ne consegue che nella specie il termine ex art. 40 comma 6 non poteva decorrere dalla data dell’atto di trasferimento, dovendo riferirsi invece al momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva, che, in difetto di elementi di segno contrario, e secondo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà allegato all’istanza di condono, deve farsi risalire al momento della conseguita consegna dell’immobile, per effetto dell’esecuzione dell’ordine di rilascio.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9499 del 2011, proposto da:

Nunzia De Ceglia, rappresentata e difesa dagli avv.ti Francesco Lojacono e Alessandro Barbieri e presso il loro studio elettivamente domiciliata in Roma, alla via Leon Pancaldo n. 26, per mandato a margine dell’appello;

contro

Roma Capitale, in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Raimondo Angela e con questi elettivamente domiciliata presso l’Avvocatura comunale, in Roma, alla via del Tempio di Giove n. 21, per mandato in calce all’atto di costituzione in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, Sezione II bis, n. 3851 del 4 maggio 2011, resa tra le parti, con cui è stato rigettato il ricorso in primo grado n.r. 9573/2002, proposto per l’annullamento della determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, comunicata con successiva nota del 18 giugno 2002, recante diniego di condono edilizio in relazione alla tardività dell’istanza in quanto presentata oltre il termine di centoventi giorni dalla data di trasferimento dell’immobile ex art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, con compensazione delle spese del giudizio di primo grado.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 marzo 2013 il Cons. Leonardo Spagnoletti e uditi per l’avv. Nunzia De Ceglia, per delega degli avv.ti Francesco Lojacono e Alessandro Barbieri, appellante e l’avv. Domenico Rossi, per delega dell’avv. Angela Raimondo, per Roma Capitale appellato;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.) L’avv. Nunzia De Ceglia ha acquistato in comproprietà con Maria Giuseppina Bitonti un immobile residenziale ubicato in Roma, alla via Fasana n. 16, piano I, scala A, interno 4, con annesse pertinenze, costituite da un terrazzo di mq. 36 circa al piano attico e da un locale al piano servizi, in esito a procedura esecutiva immobiliare.

L’immobile è stato trasferito in proprietà con decreto del Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Roma del 14 giugno 2001, trascritto il 20 settembre 2001, che disponeva il rilascio dell’immobile, poi conseguito, a seguito di precetto e primo accesso, in data 10 dicembre 2001, come da relativo verbale.

Con istanza pervenuta all’amministrazione comunale il 18 marzo 2002, le comproprietarie acquirenti hanno chiesto di poter condonare un’opera abusiva realizzata sul terrazzo al piano attico, integrante ambiente “residenziale” di mq. 26,98 (per volume vuoto per pieno di mc. 70,41), con versamento in unica soluzione dell’oblazione di € 1.505,00, della quale, secondo la dichiarazione sostitutiva di atto notorio allegata all’istanza, esse hanno avuto contezza soltanto a seguito del rilascio dell’immobile.

Con determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, comunicata con successiva nota del 18 giugno 2002, è stata rigettata l’istanza di condono edilizio “…essendo decorsi oltre 120 giorni – termine previsto dall’art. 40 co. 6 ex lege 47/85 – dalla data di trasferimento dell’immobile interessato dalle opere abusive”.

Con il ricorso in primo grado n.r. 9573/2002, l’avv. De Ceglie, costituita in proprio, ha impugnato il diniego di condono edilizio, deducendone l’illegittimità sotto vari profili, profilando subordinata questione di costituzionalità dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985.

Con la sentenza n. 3851 del 4 maggio 2011 il ricorso è stato rigettato, sul rilievo che:

– l’’art. 40 comma 6 introduce eccezionale fattispecie di sanatoria di opere edilizie nel quadro del regime a sua volta derogatorio introdotto dalle disposizioni sul condono edilizio, ricollegando il termine per la presentazione dell’istanza irrefragabilmente all’atto del trasferimento, connesso all’esito di procedure esecutive anche concorsuali, senza che possa invocarsi alcun affidamento o possa rilevare la buona fede dell’acquirente;

– non sussistono evidenti profili di non manifesta infondatezza dell’evocata questione di costituzionalità dell’art. 40 comma 6 proprio in funzione del rilievo oggettivo dell’abuso edilizio, dell’inesistenza di profili di affidamento o di rilievo della buona fede dell’acquirente e della “inusuale lunghezza” del termine per la presentazione della domanda di sanatoria.

Con appello notificato il 4 novembre 2011 e depositato il 1° dicembre 2011, l’avv. De Ceglia ha impugnato la sentenza, deducendo in sintesi i seguenti motivi:

1) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 586 c.p.c. – Omesso esame punti e documenti decisivi della controversia – Motivazione insufficiente, contraddittoria, illogica, perché la disposizione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985, interpretata alla luce della sua ratio e coordinata con quella dell’art. 586 c.p.c., deve essere intesa nel senso che il termine decorre non già dalla data del decreto di trasferimento dell’immobile, sebbene da quella della sua consegna all’acquirente, nella quale si rende conoscibile l’effettivo stato di fatto e quindi anche l’esistenza di eventuali opere abusive.

2) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 586 c.p.c. – Omesso esame punti e documenti decisivi della controversia – Motivazione insufficiente, contraddittoria, illogica, ribadendosi che nel caso di specie non viene in rilievo una astratta tutela dell’affidamento dell’acquirente, sebbene la conoscibilità dell’esistenza dell’abuso edilizio.

3) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione della legge n. 47/1985 – Violazione dell’art. 112 c.p.c. – Omesso esame punti decisivi della controversia – Motivazione illogica, insufficiente, contraddittoria, con riferimento alla ritenuta manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, riproposta sub:

4) Questione di illegittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 42 e 97 Cost., in quanto l’art. 40 comma 6, se interpretato nel senso preclusivo della sanatoria, introduce ingiustificata disparità di trattamento in danno di acquirenti d’immobili abusivi in esito a procedure esecutive, manifestamente incolpevoli ed estranei all’abuso, con compressione ingiustificata del diritto di proprietà, per esposizione alle sanzioni repressive edilizie, ivi compresa demolizione e acquisizione gratuita dell’area di sedime del manufatto-

Costituitasi in giudizio, Roma Capitale, con memoria difensiva depositata in vista dell’udienza di discussione, ha dedotto a sua volta l’infondatezza dell’appello, richiamando la motivazione della sentenza gravata.

Con memoria di replica, l’appellante ha insistito per l’accoglimento dell’impugnazione.

All’udienza pubblica del 19 marzo 2013 l’appello è stato discusso e riservato per la decisione.

2.) L’appello in epigrafe è fondato e deve essere accolto, onde in riforma della sentenza gravata e in accoglimento del ricorso in primo grado deve essere annullata la determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, salvi i provvedimenti ulteriori dell’amministrazione in ordine all’esame della domanda di condono edilizio.

Com’é noto l’art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (come aggiunto dall’art. 8-bis, comma 4, del d.l. 23 aprile 1985, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 1985, n. 298 e, successivamente, sostituito dall’art. 7, comma 2, del d.l. 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 1988, n. 68) dispone che:

Nella ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge”.

La disposizione fissa un termine perentorio ai fini della presentazione dell’istanza di sanatoria per opere abusive relative a immobili assoggettati a procedure esecutive che però deve razionalmente raccordarsi all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio.

Nel caso di specie, il trasferimento riguardava in via principale l’appartamento, ex se legittimo, nonché due pertinenze, tra le quali il terrazzo in piano attico, riconosciute come tali e come parti indivisibili dell’immobile soltanto in esito alla perizia di stima del valore dell’immobile.

In effetti né nell’avviso di vendita all’incanto, né nella perizia di stima, né infine nel decreto di trasferimento si fa menzione alcuna della realizzazione sul terrazzo di un manufatto.

Ne consegue che nella specie il termine ex art. 40 comma 6 non poteva decorrere dalla data dell’atto di trasferimento, dovendo riferirsi invece al momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva, che, in difetto di elementi di segno contrario, e secondo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà allegato all’istanza di condono, deve farsi risalire al momento della conseguita consegna dell’immobile, per effetto dell’esecuzione dell’ordine di rilascio, ossia al 10 dicembre 2001, data rispetto alla quale la presentazione dell’istanza di sanatoria (18 marzo 2002) è affatto tempestiva.

3.) Alla stregua dei rilievi che precedono, sono pertanto fondati il primo e secondo motivo d’appello, che assorbono l’evocata questione di costituzionalità della disposizione, da interpretare nei sensi, costituzionalmente adeguati, che precedono.

4.) In relazione alla novità e peculiarità delle questioni esaminate, sussistono giusti motivi per dichiarare compensate per intero tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) accoglie l’appello in epigrafe n.r. 9499/2011, e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, Sezione II bis, n. 3851 del 4 maggio 2011 e, in accoglimento del ricorso proposto in primo grado, annulla la determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002.

Spese del doppio grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 marzo 2013 con l’intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Diego Sabatino, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere

Fulvio Rocco, Consigliere

Leonardo Spagnoletti, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

 

Avv. Alessandro Barbieri

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Consiglio di Stato, sez. IV, 16/08/2017, n. 4007

Massima

Ai sensi dell’art. 32 comma 27 lett. d),d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in l. 24 novembre 2003,n. 326, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo; in ogni caso, non possono essere sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque di inedificabilità, anche relativa; in ogni caso non possono essere sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque di inedificabilità, anche relativa.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello numero di registro  generale  1969  del  2010, proposto da:

Co. Fe., rappresentato e difeso dall’avvocato Sabrina Marcuccio,  con domicilio eletto presso  lo  studio  dell’avvocato  Francesca  Romana Nanni in Roma, viale Vaticano, 46;

contro

Comune di Sannicola, non costituito in giudizio;

nei confronti di

Ri. Lu.,  rappresentata  e  difesa  dall’avvocato  Bruno  Bruno,  con domicilio eletto presso  lo  studio  dell’avvocato  Francesca  Romana Nanni in Roma, viale Vaticano, 46;

per la riforma della sentenza del T.a.r. per la  Puglia,  sede  staccata  di  Lecce, sezione  terza,  n.  385  del  6  marzo  2009,  resa  tra  le  parti, concernente il diniego della sanatoria di opere edilizie.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista  la  costituzione  in  giudizio  di  Ri.  Lu.  ed  il   ricorso incidentale proposto dalla stessa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore  nell’udienza  pubblica  del  giorno  25  maggio  2017    il consigliere  Nicola  D’Angelo  e  udito,  per  la  parte  appellante, l’avvocato  Marcello  Marcuccio,  su  delega  dell’avvocato   Sabrina Marcuccio;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue;

FATTO e DIRITTO

  1. Con provvedimento prot. n. 1193/06 del 31 gennaio 2006 il Comune di Sannicola ha negato al signor Co. Fe. ed alla signora Lu. Ri. il rilascio della sanatoria edilizia per talune opere abusive consistenti in un aumento di volume di un fabbricato di loro proprietà.
  2. Il Comune ha fondato il diniego dell’istanza di sanatoria sul rilievo che l’area interessata è soggetta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico.
  3. I signori Fe. e Ri. hanno quindi proposto ricorso dinanzi al T.a.r. per la Puglia, sede staccata di Lecce, che con la sentenza indicata in epigrafe lo ha respinto.
  4. La sentenza è stata poi impugnata dal signor Fe. sulla base dei seguenti motivi di appello.

4.1. Nullità della sentenza ex art. 161 c.p.c. per violazione dell’art. 132 c.p.c..

4.1.1. La decisione del T.a.r. sarebbe nulla perché non è stata emessa nei confronti di tutte le parti evocate in giudizio. Secondo l’appellante, mentre il ricorso in primo grado è stato proposto anche dalla comproprietaria signora Ri. contro il Comune ed il dirigente dell’area tecnica, la sentenza è stata pronunciata solo nei confronti del signor Fe. e del comune di Sannicola. Il dirigente, tuttavia, sulla base dei suoi autonomi poteri di gestione nell’adozione degli atti in materia edilizia, avrebbe dovuto essere necessariamente destinatario della pronuncia.

4.2. Violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 43, dell’art. 32, comma 27 lettera D) e lettera E), dell’art. 37, comma 25, del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326/2003 e successive modificazioni, e degli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 – Violazione e fala applicazione della legge regionale della Puglia n. 28 del 2003 e n. 19 del 2004 – Illogicità manifesta – Eccesso di potere per erroneità dei presupposti.

4.2.1. Il vincolo di inedificabilità assoluta gravante sull’area su cui insiste il fabbricato oggetto delle opere abusive, sulla cui base il T.a.r. ha respinto il ricorso, non sussisterebbe. Secondo l’appellante, sull’immobile di cui è causa non graverebbe alcun vincolo e ciò sarebbe comprovato anche dalla sentenza del Tribunale di Lecce, sezione staccata di Gallipoli, nel procedimento penale a suo carico nella quale egli è stato condannato per la costruzione dell’immobile senza concessione edilizia, ma è stato assolto dall’imputazione di aver costruito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico in assenza di autorizzazione.

4.2.2. Sarebbe inoltre errata la circostanza prospettata dal Comune nel diniego della sanatoria che l’abuso sarebbe ascrivibile alla tipologia 1 (cioè realizzato in difformità o assenza di titolo edilizio), in area soggetta al vincolo di cui all’art. 32, comma 43, del d.l. n. 269 del 2003. Trattandosi in ogni caso di un abuso minore, la legge regionale della Puglia n. 19 del 2004, che ha modificato la precedente legge regionale n. 28 del 2003, ne avrebbe comunque consentito la sanatoria.

4.2.3. Altrettanto errato sarebbe inoltre l’assunto del T.a.r. in ordine al mancato effetto sanante delle prescrizioni previste dal PUTT (Piano Urbanistico Territoriale Tematico) approvato dalla regione Puglia con delibera della Giunta reginale n. 1478 del 15 dicembre 2000. Ai sensi delle sue norme di attuazione (art. 5), nell’ambito dei cosiddetti territori costruiti (la zona è stata così individuata anche dal PUG del Comune di Sannicola), l’autorizzazione paesaggistica non andava richiesta in quanto già sottoposti alla tutela dello stesso PUTT. Il diniego opposto dal Comune è intervenuto sotto la vigenza del PUTT e quindi l’amministrazione avrebbe dovuto prescindere dal vincolo precedente.

4.3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 51, lettera f), della legge regionale della Puglia n. 56 del 1980, dell’art. 1 quinquies del d.l. n. 312 del 1985, convertito con modificazione nella legge n. 431 del 1985, dell’art. 2, comma 2, della legge regionale della Puglia n. 30 del 1990, come modificata dalle leggi regionali nn. 2 del 1991 e 14 del 1993, dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985, dell’art. 1, comma 2, della legge n. 431 del 1985, dell’art. 32, comma 43, dell’art. 32, comma 27 lettera D) e lettera E), dell’art. 37, comma 25, del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326/2003 e successive modificazioni, e degli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 – Violazione e fala applicazione della legge regionale della Puglia n. 28 del 2003 e n. 19 del 2004 – Traviamento dei fatti.

4.3.1. La conclusione del T.a.r. in odine alla sussistenza del vincolo di inedificabilità assoluta è errata anche perché non tiene conto che lo stesso, previsto dall’art. 51, lettera f), della legge regionale n. 56 del 1980 e dell’art. 1 quinquies del d.l. n. 312 del 1985 per le aree all’interno della fascia di 300 metri dal mare, non poteva essere applicato al momento della realizzazione dell’abuso (1999). Parte appellante evidenzia che nel Piano particolareggiato dell’area, approvato già dal 1988, l’immobile ricade in zona B1 – edilizia esistente, nella quale era consentito il completamento degli edifici esistenti nonché la costruzione di nuovi edifici per residenze turistiche o per usi commerciali. Il vincolo dei 300 metri dalla costa, che comunque a suo avviso avrebbe natura temporanea, non avrebbe perciò potuto riguardare le zona A, B e C individuate dagli strumenti urbanistici per esplicita previsione dello stesso art. 51 della legge regionale n. 56 del 1980 e dell’art. 1, comma 2, della legge n. 431 del 1985.

4.4. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 – Omessa pronunci su un motivo di impugnazione dell’atto – Difetto di motivazione.

4.4.1. Il T.a.r non avrebbe esaminato il dedotto difetto di motivazione del provvedimento impugnato evidenziato nella mancata individuazione da parte dell’Amministrazione della natura del vincolo ritenuto sussistente nell’area.

4.5. Violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 43, dell’art. 32, comma 27 lettera D) e lettera E), dell’art. 37, comma 25, del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326/2003 e successive modificazioni, e degli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 – Violazione e fala applicazione dell’art. 82 del DPR n. 616 n. 1977, così come integrato e modificato dall’art. 1 del d.l. n. 312 del 1985, convertito nella legge n. 431 dl 1985, del d.lgs. n. 490 del 1999, degli artt. 5, comma 3, e 20, comma 3, del DPR n. 380 del 2001, dell’art. 1, comma 39, della legge n. 308 del 2004 – Violazione e falsa applicazione della legge n. 1479 del 1939 – Difetto di motivazione – illogicità manifesta – Travisamento dei fatti.

4.5.1. Il T.a.r. ha erroneamente ritenuto che anche un vincolo di inedificabilità relativa avrebbe legittimato l’adozione del provvedimento impugnato. L’imposizione del vincolo paesaggistico e idrogeologico ai sensi della legge n. 1479 del 1939 comporta infatti la sottoposizione delle opere al regime autorizzatorio di cui all’art. 7 della stessa legge. Pertanto, il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune avrebbe dovuto avviare il relativo procedimento una volta presentata l’istanza di sanatoria.

  1. Il comune di Sannicola non si è costituito in giudizio.
  2. La signora Lu. Ri. si è costituita in giudizio ed ha contestualmente depositato ricorso incidentale, deducendo anch’essa la nullità della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 161 c.p.c. per violazione dell’art. 132 c.p.c.. La decisione del T.a.r. sarebbe nulla perché non è stata emessa anche nei suoi confronti seppure ricorrente in primo grado.
  3. Il signor Fe. ha depositato una relazione tecnica il 22 febbraio 2017 ed una memoria il 12 maggio 2017.
  4. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 25 maggio 2017.
  5. Preliminarmente, il Collegio rileva la tardività della memoria di parte appellante del 12 maggio 2017 per violazione dei termini di deposito di cui all’art. 73, comma 1, del c.p.a.. Pertanto, la stessa è esclusa dall’esame degli atti di causa.

Parimenti inammissibile, per violazione del divieto delle nuove prove sancito dall’art. 104 c.p.a., è la produzione documentale (perizia del geometra Tu.), effettuata per la prima volta in questo grado di giudizio.

  1. Ciò premesso, l’appello non è fondato.
  2. Con il primo motivo di appello si contesta la nullità della sentenza in quanto la stessa sarebbe stata pronunciata solo nei confronti dell’appellante e del Comune e non anche dell’altra ricorrente in primo grado, comproprietaria dell’immobile oggetto di giudizio, e del dirigente dell’ufficio tecnico comunale.

12 Il motivo è palesemente infondato, tenuto conto che:

– la mancata indicazione nella sentenza del nome dell’altra ricorrente (signora Lu. Ri.) costituisce un mero refuso che ben poteva essere eliminato mediante la procedura per la correzione dell’errore materiale prevista dall’art. 86 c.p.a.; sotto tale angolazione il Collegio dispone la correzione della impugnata sentenza nei sensi anzidetti;

– il provvedimento impugnato, seppure adottato nell’ambito dei poteri di gestione del dirigente, deve essere comunque imputato all’amministrazione comunale nel suo complesso, amministrazione che dunque deve è evocata in giudizio attraverso il suo legale rappresentate.

  1. Anche gli ulteriori motivi di appello, che possono essere trattati congiuntamente, sono da ritenere infondati specie alla luce degli specifici precedenti della Sezione (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 1935 del 27 aprile 2017 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d) c.p.a.).
  2. Innanzitutto, l’appellante con la relazione tecnica depositata il 22 febbraio 2017 tende ad introdurre nuove prove nel giudizio in violazione dell’art. 104 del c.p.a.. Il Collegio, come già precisato, esamina perciò la controversia alla luce delle risultanze emerse nel corso del giudizio di primo grado.
  3. Le opere abusive di cui è causa, come risulta incontestabilmente, ricadano in un’area posta ad una distanza inferiore a 300 metri dalla linea di battigia. Per questo motivo il Comune di Sannicola, le ha ritenute non sanabili in costanza del vincolo apposto proprio su tale fascia costiera. In particolare, l’abuso in questione è stato realizzato in un’area sottoposta al vincolo di inedificabilità assoluta previsto dall’art. 51, lettera f), della legge regionale n. 56 del 1980 (a meno di 300 metri dalla linea di battigia) e dall’art. 1 quinquies del d.l.. n. 312 del 1985, convertito con modificazioni nella legge n. 431 del 1985 (quest’ultima legge poi abrogata dall’art. 166 del d.lgs. n. 490 del 1999).
  4. Conseguentemente, il Comune ha fatto applicazione l’art. 32, comma 27, lettera D), del DL n. 269 del 2003: ” 27. Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora:……d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;“.
  5. L’art. 2, comma 1, della legge della regione Puglia n. 28 del 2003, così come modificato dall’art. 4 della legge n. 19 del 2004, ha poi previsto che: “Fermo restando il disposto dell’articolo 32, comma 26, del d.lgs. 269/2003, per i numeri da 1 a 3 dell’allegato 1 e purché gli abusi abbiano i requisiti previsti dall’articolo 31, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, nella Regione Puglia sono suscettibili di sanatoria le tipologie di illecito di cui ai n. 4, 5 e 6 dell’allegato 1 al d.lgs. 269/2003.”
  6. Tuttavia, la sanabilità in Puglia degli abusi maggiori (nn.da 1 a 3 dell’Allegato 1 al d.l. n. 269 del 2003) e di quelli minori (nn.da 4 a 6 dell’allegato) non opera sempre.
  7. Il combinato disposto dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985 e del citato art. 32 comma 27, lettera D) del d.l. n. 269 del 2003 comporta infatti che, come nel caso di specie, se un abuso è commesso su un bene vincolato non si può procedere al condono se ricorrono, insieme, talune circostanze: l’imposizione del vincolo di inedificabilità precedente alla esecuzione delle opere; la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo edilizio; la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
  8. Ed infatti la giurisprudenza di questa Sezione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1935 del 2017 cit.), ha avuto modo di recente di rilevare, esattamente in termini, che ” Ai sensi dell’art. 32 comma 27 lett. d),d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in l. 24 novembre 2003,n. 326, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo; in ogni caso, non possono essere sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque di inedificabilità, anche relativa; in ogni caso non possono essere sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque di inedificabilità, anche relativa.
  9. D’altra parte, si tratta di principi pacifici secondo i quali qualsiasi vincolo, assoluto o relativo o temporaneo, antecedente alla data di realizzazione delle opere abusive inibisce il condono straordinario (cfr. Corte cost. n. 225 del 2012, che dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 27, lettera d) del DL n. 269 del 2003; Ad. plen. n. 4 del 2009; Cass. pen. 12 gennaio 2007).
  10. Come rilevato dal T.a.r., l’area in questione è anche sottoposta ad vincolo di inedificabilità relativa previsto dall’art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977 (così come integrato dall’art. 1 del DL n. 312 del 1985, convertito con modificazioni nella legge n. 431 del 1985). Quest’ultimo vincolo è stato poi reiterato dall’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999. (che è entrato in vigore l’11 gennaio 2000), coprendo quindi l’arco di realizzazione temporale dell’abuso (fine 1999 – inizio 2000).
  11. Contro la suddetta ricostruzione non può poi essere invocata l’entrata in vigore del PUTT, approvato il 15 dicembre 2000 dalla Giunta regionale della Puglia, in quanto gli abusi si sono realizzati in un arco temporale antecedente nel quale era comunque in vigore il vincolo dei 300 metri (abusi realizzati tra la fine del 1999 e gli inizi del 2000). Irrilevante, dunque, l’asserito venir meno dei vincoli di inedificabilità ad opera dello stesso PUTT.
  12. Quanto infine al richiamo alla intervenuta assoluzione in sede penale dell’appellante per la costruzione delle opere in una zona vincolata, va rilevato che, a prescindere dai principi di autonomia dei due procedimenti, quello amministrativo e quello penale, le risultanze in ordine alla sussistenza del vincolo non appaiono in dubbio. Quello che invece contesta parte appellante è la permanenza e l’efficacia del vincolo stesso e la sua operatività all’atto del provvedimento di diniego, circostanza che non riguarda dunque l’accertamento nel momento della decisione del giudice penale.
  13. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e per l’effetto va confermata la sentenza impugnata.
  14. Di conseguenza, va anche respinto l’appello incidentale proposto dalla signora Lu. Ri..
  15. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c..

Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.

  1. Nulla sulle spese del presente grado di giudizio.
  2. La manifesta infondatezza dell’appello rileva, eventualmente, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, nr. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, nr. 208, conformemente ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. da ultimo Cass. civ., sez. VI, n. 11939 del 2017 e n. 22150 del 2016).

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto: – respinge l’appello principale e quello incidentale e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata; – nulla per le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 maggio 2017 con l’intervento dei magistrati:

Vito Poli, Presidente

Oberdan Forlenza, Consigliere

Leonardo Spagnoletti, Consigliere

Luca Lamberti, Consigliere

Nicola D’Angelo, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 16 AGO. 2017.

 

Avv. Alessandro Barbieri

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Presentazione: UnicaMente incontra la città

È nata a Napoli UnicaMente, una rete multidisciplinare di professionisti che operano nel campo del diritto e dell’economia. Una rete di professionisti capaci di lavorare insieme, come un’unica mente, e di interagire per fornire al cliente la massima competenza, grazie ad una ripartizione di specifici ambiti di competenza. UnicaMente raggruppa 16 studi professionali per un totale che supera i 50 professionisti e si articola in 5 aree di competenza: Area diritto Civile per il cittadino e le famiglie; Area diritto Civile per le imprese; Area diritto Penale; Area diritto Amministrativo e in ultimo ma non per importanza l’area Commerciale. In italiano unicamente significa anche «in modo particolare» ed è proprio questo quello che la rete di professionisti vuole fare, offrire, ai cittadini e alle imprese, risposte innovative ai loro problemi, dargli un’assistenza quanto più completa possibile, ma soprattutto proporre un modo differente di lavorare che, grazie al lavoro di gruppo, faccia coincidere l’esigenza di competenze sempre più specifiche a quella visione d’insieme che è necessaria per affrontare qualsiasi problematica. UnicaMente si è presentata lunedì 28 maggio alla città e ha invitato alcuni suoi prestigiosi esponenti ad un confronto per discutere insieme del rapporto tra il mondo delle professioni e la città, sia essa quella dolente, bisognosa di tutela e diritti, sia quella produttiva, non solo di ricchezze e posti di lavoro ma anche di idee e prospettive.

Galleria fotografica della Presentazione

UnicaMente, la prima rete multidisciplinare di professionisti

Oltre ai professionisti aderenti alla rete hanno partecipato:

 Sergio D’Angelo 

Presidente ABC

 Emilio D’Angelo 

Imprenditore CIS

 Giuseppe Oliviero 

Vicepresidente CNA

 Giandomenico Lepore 

Presidente Camera Arbitrale Camera di Commercio

 Bruno Discepolo 

Architetto

 Massimo Milone 

Direttore Rai Vaticano

 Vincenza Amato 

Consigliere Regionale

 Edoardo Imperiale 

Direttore Generale della Stazione Sperimentale per l’industria delle pelli e delle materie concianti

 Francesco Eriberto D’Ippolito 

Professore Universitario e Difensore Civico della Regione Campania

 Franco Malvano 

Commissario Antiracket Regione Campania

(Intervistati da Leandro Del Gaudio, giornalista del Mattino)

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Il diritto della Unione Europea nei rapporti di agenzia

Il contratto di agenzia in Europa: affinchè gli agenti e rappresentanti ne sappiano l’influenza.

 

Incentreremo l’attenzione sulla materia dell’agenzia come trattata nel diritto e nella giurisprudenza comunitari.

L’agenzia, come sapete, è quel contratto, di cui il nostro codice civile si interessa negli articoli dal 1742 al 1751bis e che riguarda la figura d’un particolare tipo di lavoratore, che la dottrina ha definito parasubordinato, perché dotato di autonomia organizzativa e non sottoposto a potestà disciplinare cogente, ma che, pur tuttavia, ha un rapporto coordinato, continuativo e stabile con un mandante (ciò che lo distingue dal procacciatore d’affari,  che lo ha discontinuo ed occasionale).

L’agente di commercio assume, verso retribuzione, in genere provvigionale, l’incarico di promuovere affari per la propria azienda preponente, in una zona determinata.

Solo quando vi è  il potere anche di concludere i contratti impegnando la propria mandante (ciò che avviene di rado) si ha invece la figura del rappresentante di commercio. Quando sentiamo, nel comune parlare, di rapporti di rappresentanza, noi addetti ai lavori, dobbiamo sapere, quindi, che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta, in effetti, di rapporti di agenzia.

A conferma della posizione peculiare dell’agente di commercio ( e ovviamente anche del rappresentante di commercio) v’è la previsione contenuta, nel ns. codice civile procedurale civile, all’art. 409, della devoluzione al Giudice specializzato del Lavoro delle controversie che li riguardano, ovviamente allorquando essi non siano costituiti in forma societaria.

Anche il legislatore comunitario si è interessato di disciplinare, tra gli altri rapporti di lavoro, quello dellagenzia.

Il 18 dicembre 1986 il Consiglio della Comunità Europee emanò difatti la Direttiva 653/86, la quale fissa anche dei presupposti, necessari per la liquidazione della indennità alla cessazione del rapporto agenziale, in essa prevista.

Nei nostri AEC, per le indennità lì previste, v’è da dire che tali presupposti non sono previsti e quindi vedremo che, almeno in subordine, la nostra fonte contrattualistica collettiva resta in vigore quando non vi siano i presupposti di cui ho appena accennato, per il riconoscimento della invero spesso migliore indennità di derivazione comunitaria.

La direttiva venne emanata, in effetti, per armonizzare i sistemi normativi europei e per creare un sistema di principi uniformi (il cosiddetto “ tronco comune”, termine che si sente spesso discettando di diritto comunitario), volto ad incentivare le relazioni tra agenti e preponenti appartenenti a paesi diversi.

L’obiettivo dichiarato era, inoltre, quello di garantire all’agente, all’atto della cessazione del rapporto, una indennità certa (ovvero, secondo alcuni che ritengono l’emolumento in questione di natura risarcitoria, che sono in minoranza, la riparazione del danno subìto in conseguenza del venir meno del rapporto di lavoro per disdetta o per colpa del mandante.

Il legislatore comunitario si è avvalso dello strumento normativo della Direttiva, obbligando pertanto gli stati membri ad adottare le misure necessarie a garantire all’agente la corresponsione di siffatta indennità, lasciando però la possibilità agli Stati membri, in sede di recepimento della Direttiva, di optare per due sistemi alternativi: il modello compensativo ovvero quello risarcitorio di cui dicevo prima, mutuati, rispettivamente, dai sistemi tedesco e francese.

La direttiva prevede, in particolare che Gli Stati membri prendono le misure necessarie per garantire all’agente commerciale, dopo l’estinzione del contratto, un’indennità in applicazione del paragrafo 2 o la riparazione del danno subito in applicazione del paragrafo 3”.

V’è da dire che l’esigenza del legislatore comunitario di disciplinare la materia era  sentita e pressante anche perché non tutti gli stati membri avevano una compiuta disciplina in materia di indennità agenziali vuoi sotto il profilo legislativo (e più strettamente codicistico) che, soprattutto, della contrattualistica collettiva.

V’è da dire che l’Italia, in verità, al riguardo già faceva un figurone sia sotto un profilo (quello legislativo) che sotto l’altro (della contrattualistica collettiva).

Quanto all’ultimo perché la rappresentatività sindacale nel ns. paese era molto sentita

Peraltro gli AEC per gli agenti di commercio esistevano già dal primo  trentennio del secolo scorso e il primo accordo del 1935, nel 1938 era stato addirittura reso valido erga omnes e quindi con efficacia di  legge, con regio provvedimento legislativo.

Ciò a conferma dell’ottimo impianto del nostro Ordinamento, rispettoso  degli insegnamenti del Diritto  romano, che faremo bene a seguire ancora pur senza chiuderci nell’esaminare ed a compararci anche con altre tradizioni giuridiche.

Sull’efficacia delle Direttive Comunitarie vi hanno detto e vi diranno altri ben più qualificati relatori e ci limiteremo qui, quindi, a ricordarne la caratteristica saliente di fonte cosiddetta verticale:

“le direttive, che hanno come destinatari i singoli Stati membri, vincolano ciascuno di essi solo per quanto riguarda il risultato finale da raggiungere, che deve esserle conforme. Impongono un’obbligazione di risultato, lasciando liberi, però,  gli Stati di adottare le misure ritenute opportune al fine dell’armonizzazione al tronco comune fissato dalla direttiva. Esse hanno un’efficacia mediata nel senso che creano diritti ed obblighi per i singoli soltanto in seguito all’adozione da parte dei singoli Stati membri degli atti con cui vengono recepite. Ma il Giudice nazionale, come poi ripeteremo, in caso di confliggenza, deve disapplicare la norma nazionale a favore della fonte comunitaria. Qualora, poi,  uno Stato non dovesse adeguarsi alle prescrizioni di una determinata direttiva, esso sarà inadempiente e costretto, quindi, a pagare una sanzione per avere violato gli obblighi comunitari e il singolo non potrebbe che solo stimolare la stigmatizzazione e la sanzione nei confronti dello Stato che non abbia recepito le direttive”.

La Direttiva era quindi lo strumento comunitario da utilizzare da parte del legislatore comunitario per fare quello che voleva fare qui e che abbiamo detto poco fa e cioè per armonizzare e per stabilire una volta per tutte il “tronco comune” di cui abbiamo detto più volte, per gli ordinamenti di tutti gli Stati membri, che statuisse un’indennità a favore degli agenti di commercio alla fine del rapporto quando disdetto dalla preponente.

C’è da dire più specificamente e chiaramente che addirittura, prima della Direttiva, non in tutti gli Stati membri era addirittura prevista una indennità.

In Italia abbiamo detto che era prevista.

Pertanto il recepimento della Direttiva 653/86 nel nostro ordinamento non avrebbe dovuto causare grossi mutamenti nella disciplina indennitaria per gli agenti di commercio, in quanto appunto già erano previste le indennità  nel ns. c.c. e negli A.E.C. anche se questi ultimi non validi però erga omnes nelle numerose elaborazioni successive al 1935/1938., quand’anche sempre di largo utilizzo in giurisprudenza.

Invece, come approfondiremo appresso, i problemi principali (anche se non esclusivi) sono poi sorti al riguardo della misura dell’indennità, che era ciò che l’Italia doveva adattare, col recepimento della Direttiva, nel proprio ordinamento e sono stati problemi, per dipanare i quali è occorso, addirittura, un ventennio.

La Direttiva è intitolata: Direttiva del Consiglio relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti (Pubblic. in G.U.  31/12/86 n. 382 )

Il Consiglio delle Comunità Europee, vista  la interinale soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione dei servizi e in particolare per le attività degli intermediari del commercio, dell’industria e dell’artigianato, considerando che le differenze tra le legislazioni nazionali in materia di rappresentanza commerciale che influenzavano sensibilmente, all’interno della Comunità, le condizioni di concorrenza e l’esercizio della professione potevano pregiudicare il livello di protezione degli agenti commerciali nelle loro relazioni con il loro preponente, considerando che gli scambi di merci tra Stati membri dovevano (e devono) effettuarsi in condizioni analoghe, come quelle di un mercato unico, imponendosi così il ravvicinamento dei sistemi giuridici degli Stati membri, concedendo termini transitori supplementari a taluni Stati membri per compiere gli sforzi per adeguare le loro regolamentazioni alle esigenze della Direttiva, in particolare per quanto riguarda l’indennità di fine rapporto, adottò la Direttiva, che, per quel che qui ora ci riguarda, è particolarmente rilevante al suo art. 17, le altre parti limitandosi principalmente a definire l’attività dell’agente, i suoi obblighi, gli obblighi del preponente e cosi via.

Detto art. 17 stabilisce tra l’altro che:

a) L’agente commerciale ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui:
– abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente abbia ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
– il pagamento dell’indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

b) L’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente commerciale negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione.

L’art. 19 prescrive poi che:

Le parti non possono derogare, prima della scadenza del contratto, agli articoli 17 e 18 a detrimento dell’agente commerciale.

Seguono altre norme che qui, per limitatezza di tempo, non esaminiamo.

**********************************

Il nostro ordinamento recepì, perché doveva recepirla, la Direttiva, coi decreti legislativi 303/’91, quindi già un po’ lentamente e precisamente dopo circa cinque anni e poi con il correttivo decr. legislat. 65/’99, modificando gli artt. 1742 e segg. del c.c., che, abbiamo detto, sono quelli che si occupano dell’agenzia, introducendo per l’agente meritevole (quello, come abbiamo visto, che avesse incrementato il numero dei clienti o il volume degli affari, a condizione d’un permanente vantaggio del preponente), una indennità parametrata, nel suo massimo, alla media annua provv.le degli ultimi cinque anni del rapporto o del minor tempo della sua durata.

Veniva quindi, con la Direttiva, introdotto per la prima volta un criterio meritocratico, che porta taluni a definirla impropriamente “indennità meritocratica” quando, non ancor più banalmente, “indennità europea”.

Il range dell’indennità parte da zero. Quindi da zero alla media annuale degli ultimi 5 anni.

Per il riconoscimento dell’indennità e per la sua quantificazione, entro questo range, la Direttiva introduce anche il criterio dell’equità. Il  suo  riconoscimento  deve  esser  equo.

Il concetto di equità è un po’ nebuloso, a noi italiani, ci appare astratto, soggettivo, quando non arbitrario.

Si pensi a come poteva apparirci nel 1986.

Altri stati membri ne avevano e ne hanno maggior dimestichezza.

Abbiamo, quindi, dovuto fare uno sforzo per metabolizzarlo almeno un po’.

La Germania, poi, relativamente alla quantificazione dell’indennità adottò criteri tanto rigidi quanto complessi e basati su calcoli aritmetici (durata del mandato, numero di clienti e di affari incrementati, aliquota del mantenimento di tali miglioramenti da parte della mandante dopo la fine del rapporto, ecc.).

In Italia decide il Giudice senza eccessi di rigidità matematica, ma indubbiamente i riferimenti “tedeschi” vengono tenuti in genere in conto sia pure se elasticamente e non uniformemente.

Ho accennato già di un secondo nostro decreto legislativo, il n° 65/’99.

L’Italia difatti subì un procedimento di infrazione per non aver correttamente recepito la Direttiva nella parte in cui i requisiti di incremento della clientela o degli affari e il mantenimento dei vantaggi della preponente era stato previsto come alternativo invece che cumulativo, come era invece previsto  nella Direttiva.

Solo per il recepimento corretto ed esaustivo quindi, come si vede, passarono tredici anni.

In questo lasso di tempo la Giurisprudenza è stata ondivaga tra l’applicazione dell’indennità prevista dalla Direttiva che chiamiamo solo per un attimo qui meritocratica, per intenderci facilmente e quelle (codicistiche e contrattualistica collettiva) previste ante la direttiva.

Intervenne poi un accordo sindacale cosiddetto “ponte” nel 1992, che, in pratica, eludeva la Direttiva sostenendosi, in esso, che il sistema indennitario previsto della contrattualistica collettiva vigente (principalmente riconducibile ad una indennità lì nominata esattamente indennità suppletiva di clientela) già soddisfaceva i criteri fissati dal recepimento in Italia della Direttiva.

La cosa non era affatto vera, perché pressochè in nessun caso o comunque in rari casi, l’indennità suppletiva di clientela raggiunge il tetto massimo di quella prevista nella Direttiva e quindi nel novellato (dai decreti legislativi del 91 e del 99) art. 1751 c.c. che è l’articolo che tratta appunto dell’argomento). Perché, inoltre, la parametrazione dell’indennità prevista della contrattualistica collettiva (una percentuale, peraltro bassa, sulle provvigioni) è del tutto diversa in quanto, invece, il legislativo comunitario primo e quello nazionale poi, la avevano individuata, in una media provv.le annua (quindi non semplicemente in una percentuale sulla provvigione).

In tal stato di assoluta incertezza giurisprudenziale si è andati avanti sino al 2004.

La giurisprudenza che propendeva per la disapplicazione delle indennità introdotta dalla Direttiva ne sosteneva il minor vantaggio in astratto per tutto il ceto degli agenti, alcuni dei quali non erano nelle condizioni di beneficiare dell’indennità detta meritocratica per assenza o difficoltà di prova dei requisiti di merito e di vantaggio per la preponente e quindi un’indennità, quale quella prevista dagli accordi economici, che era come suol dirsi “automatica alla disdetta della preponente” senza bisogno d’altro, sarebbe stato più conveniente.

Altra considerazione era che in Italia la rappresentatività dei sindacati era molto elevata e quindi i contratti collettivi dovevano esser quelli da tenere a riferimento.

Venivano in pratica ritenuti prevalenti sulle norme di rango primario, anche in caso di minor vantaggio in concreto!

Una alchimia di pensiero che i più hanno sempre fatto fatica a comprendere.

Tale orientamento, difatti, sarebbe stato plausibile,  solo se in concreto e non in astratto, cioè in tutti singoli casi specifici, i contratti collettivi avessero previsto una disciplina in melius per ogni agente, insomma se l’agente, con l’indennità suppletiva di clientela prevista dagli accordi economici, avrebbe visto  riconosciuto almeno il massimo o più del massimo previsto dalla Direttiva. Quest’ultima ed i suoi recepimenti nel nostro ordinamento d’altronde prevedevano specificamente l’inderogabilità a svantaggio dell’agente dell’indennità riconosciuta dalla Comunità Europea col criterio meritocratico.

Orbene, già prima del primo recepimento del 1991 col decr. legislativo 303 e quindi tra la data di entrata in vigore della Direttiva (1986) e per i cinque anni successivi, il Giudice, nel contrasto tra la norma nazionale e quella comunitaria, avrebbe dovuto, come abbiamo detto, disapplicare la prima e applicare la seconda quale norma “verticale” .

Figurarsi dopo il recepimento di quest’ultima!

Eppure non sempre fu così, anzi!

Ciò fa comprendere come non sia stato sempre facile e come non sia stato certo immediata, la metabolizzazione, come già dicevo, delle norme comunitarie nei vari stati membri e in particolare in Italia laddove anche i giudici nazionali spesso sono stati tempestivi nell’applicarla.

E’ stata necessaria allora, in subiecta materia, una questione pregiudiziale che la Corte di Cassaz., appunto nel 2004, pose alla Corte di Giustizia Europea con la sua ordinanza n° 20410 nella causa DE ZOTTI contro HONEYWEM informaz.ni comm.li.

Dell’agenzia, quindi, s’è interessato non solo il legislatore, ma anche il Giudice comunitario.

Il 23 Marzo 2006, a vent’anni come vi ho detto all’esordio di questo intervento, dall’entrata in vigore della Direttiva, la Corte del Lussemburgo, emetteva difatti la sentenza 465 C 04, conforme alla relazione del Procuratore Generale, che era il portoghese POJARES MADURO.

Il contenuto era del tenore, invero già ovvio ai più, che in tutti quei casi in cui il calcolo secondo il criterio meritocratico fissato dalla Direttiva può esser  applicabile, per l’esistenza dei requisiti di merito dell’agente e per il persistente vantaggio del preponente e porti ad un risultato migliore in concreto, nel singolo caso in esame, di quello previsto da qualsiasi altra fonte di diritto degli stati membri, anche di quello eventualmente degli A.E.C. , va preso in considerazione il trattamento migliore.

Subito dopo, il 3 Ottobre 2006, con la sentenza n° 21309,  la nostra Corte di Cassazione recepì l’indirizzo fissato della Corte Lussemberghese ed oggi finalmente nessun Giudice italiano sostiene più la questione dell’esame in astratto e non in concreto.

Per la verità già prima la Corte di Giustizia Europea si era interessata della materia dell’agenzia, anche se non in materia di indennità di fine rapporto, ma riguardo ad altra non meno importante questione, sempre riguardo alla Direttiva 653/86.

Era avvenuto con la sentenza del 30 aprile 1998 nella causa BALLONE contro YOKOHAMA, la ditta orientale produttrice di pneumetici.

In questo caso la Corte Europea era stata tirata in ballo da una questione pregiudiziale non postale dal Giudice nazionale di nomofiliachia, cioè dalla Cassazione, bensì da un giudice di merito, il Tribunale di Bologna.

Non sfuggirà allora come importante può essere che gli avvocati stimolino i Giudici nazionali a porre questioni pregiudiziali, quando ne ricorre il caso.

La vicenda qui riguardava una agente, la Sig.ra BALLONE, la quale richiedeva i diritti retributivi agenziali dalla Società YOKOHAMA nonostante l’eccezione di nullità del suo mandato svolta da quest’ultima (che pure lo aveva stipulato), per carenza del requisito soggettivo della Sig.ra BALLONE per non essere la stessa iscritta all’albo degli agenti, iscrizione prevista come obbligatoria dalla legge del nostro Stato n° 204/’85.

Sapete bene che uno dei principi informatori del legislatore comunitario è la libertà di stabilimento e di esercizio delle proprie attività in ambito comunitario e quindi di liberalizzazione dell’attività con l’ostativa, quindi, per quanto possibile, alle  restrizioni in ambito lavorativo prevista da norme degli stati membri a mezzo degli albi.

Orbene la Direttiva 653/86, che come abbiamo potuto notare, è la pietra miliare nella elaborazione della figura dell’agente e del rappresentante di commercio europeo, non prevedeva e non prevede quale requisito necessario ed indispensabile per poter esercitare l’attività di agente, quello dell’iscrizione ad uno specifico albo.

La pronuncia del Lussemburgo fu coerente a ciò e, anche in questo caso, dopo della sentenza BALLONE / YOKOHAMA e assolutamente non prima, i Giudici nazionali hanno recepito il principio comunitario in questione scandito dalla Direttiva che per esercitare l’attività di agente di commercio, non è necessaria l’iscrizione all’albo prevista dalla legge 204/85.

Pensate che, prima di ciò, l’agente non iscritto all’albo, veniva definito abusivo e, se conveniva in giudizio la sua preponente, vedeva respinta la sua domanda non solo al riguardo di indennità di fine rapporto, ma anche per le provvigioni maturate a seguito del suo lavoro di procacciamento d’affari, in quanto la sua attività veniva considerata come svolta illegittimamente.

Ciò che appare ancora più paradossale è che la legge 204 del 1985, che prevedeva l’obbligatorietà dell’iscrizione all’albo, non solo non fu oggetto di modifica con l’abolizione di tal obbligo di iscrizione, come doveva avvenire l’anno dopo della sua emanazione del 1985 e, quindi nel 1986, a seguito dell’entrata in vigore della Direttiva 653/86 che non la prevedeva, ma neppure a seguito della sentenza della Corte Europea del ‘98!

E’ stato mantenuto in essere l’obbligo di iscrizione nell’albo, ormai non più efficace, per esigenze tutto sommato inspiegabili o, semplicemente, per la cronica  lentezza del legislatore quando non vi è grosso interesse di legiferare velocemente.

I fautori del mantenimento della norma invero presero pure a giustificarla con la considerazione che la stessa potesse ancora valere sotto il profilo amministrativo.

Pensate allora che solo il decreto legislativo del 26/03/2010,  n. 59 (in recepimento invero anche della Direttiva Servizi CE 123/06) ha soppresso, con decorrenza dal giorno 8 maggio 2010, il ruolo oltre che degli agenti di affari in mediazione anche del ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio.

Il suddetto decreto non ha abrogato peraltro le altre norme che disciplinano le attività in questione.

In particolare l’esercizio delle suddette attività rimane subordinato alla sussistenza di requisiti normativamente previsti.

Solo per gli agenti e rappresentanti di commercio sono state comunque apportate alcune modifiche alla normativa di settore.

In particolare, sono stati, come si diceva,  abrogati i requisiti di cui alle lettere a), b), e d) della L. 204/1985.

I requisiti mantenuti sono:

  • La cittadinanza italiana o di uno degli stati UE ovvero la residenza nel territorio italiano per gli stranieri;
  • Il godimento dei diritti civili;
  • L’assolvimento dell’obbligo scolastico con conseguimento del relativo titolo.

Inoltre, solo per gli agenti e rappresentanti di commercio, il fallimento non è più considerato ostativo all’esercizio dell’attività.

Le attività di mediatore e agente e rappresentante di commercio restano attualmente soggette, quindi, semplicemente a segnalazione certificata di inizio attività – la cosiddetta SCIA (in sostituzione della precedente dichiarazione di inizio attività) da presentare alla Camera di Commercio, corredata delle autocertificazioni e delle certificazioni attestanti il possesso dei requisiti prescritti.

La Camera di Commercio verifica il possesso dei requisiti e iscrive i relativi dati nel registro delle imprese e nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA).

Ad ogni effetto di legge, i richiami al ruolo contenuti nella normativa di settore si intendono solo riferiti alle iscrizioni previste nel registro delle imprese e nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA).

****************************

Da ultimo evidenziamo che pure in altre occasioni la Corte di Giustizia Europea si è interessata di agenzia, come nella recente Sentenza 31.10.2010, che ha statuito che l’agente ha diritto all’indennità ex Direttiva 653/86 se un suo inadempimento anche grave è avvenuto dopo il recesso fosse anche in costanza del periodo di preavviso.
La sentenza della Corte è quella resa nel proc.nto C‑203/09 ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, dall’Autorità Giudiziaria Tedesca in data  29 aprile 2009, nella causa tra la  VOLVO e la sua concessionaria AWG
La Corte (Prima Sezione), era presieduta  tra l’altro, dal napoletano Prof. TIZZANO.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione dell’art. 18, lett. a), della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti (GU L 382, pag. 17; in prosieguo: la «direttiva»).
L’art. 18 della direttiva prescrive tra l’altro che:
«L’indennità o la riparazione ai sensi dell’articolo 17 (che è quella indennità a contenuto meritocratico di cui abbiamo detto) non sono dovute:
a) quando il preponente risolve il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente commerciale, la quale giustifichi, in virtù della legislazione nazionale, la risoluzione immediata del contratto;
La disposizione era stata ovviamente recepita dall’ordinamento tedesco.

Nel caso di specie la VOLVO Germany aveva rescisso il mandato concedendo il preavviso alla propria agente , poi si era accorta che durante il periodo di preavviso quest’ultima aveva tenuto un comportamento di tal gravità da giustificare a suo avviso,  il recesso senza preavviso, per giusta causa.

La Direttiva però cristallizza al momento della comunicazione di recesso l’imputazione di giusta causa non prevedendo l’ipotesi sottoposta alla Corte del Lussemburgo di successiva imputazione fosse anche dovuta ad avvenuta conoscenza di fatti nuovi successivamente.

E, poiché la previsione della non debenza dell’indennità all’agente è prevista dalla Direttiva come ipotesi eccezionale, la Corte ha ritenuto tassative le ipotesi, appunto, di privazione di questa sorta di trattamento di fine rapporto.

Ha escluso cioè applicazioni estensive.
Costituendo cioè un’eccezione al diritto dell’agente ad ottenere un’indennità, l’art. 18, lett. a) della direttiva, va interpretato restrittivamente e tassativamente.

Pertanto, tale disposizione non può essere interpretata in un senso che finirebbe per aggiungere una causa di decadenza dal diritto all’indennità da essa non prevista espressamente.

La Corte osserva più precisamente che, qualora il preponente prenda conoscenza di un inadempimento grave  dell’agente commerciale soltanto dopo la fine del contratto avvenuto a mezzo di recesso da essa proponente operato, non è più possibile applicare il meccanismo previsto dall’art. 18, lett. a) della direttiva, che esclude il riconoscimento dell’indennità appunto per inadempimento grave dell’agente.

Di conseguenza, l’agente commerciale non può essere privato del suo diritto all’indennità sulla scorta di tale disposizione qualora il preponente, dopo avergli notificato il recesso dal contratto mediante preavviso, dimostri l’esistenza di un inadempimento di tale agente che avrebbe potuto giustificare un recesso immediato dal contratto in parola.
La Corte aggiunge che, ai sensi dell’art. 17, n. 2, lett. a), secondo trattino, della direttiva, l’agente commerciale ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso. Non può dunque escludersi quindi, però, che del comportamento di detto agente si tenga conto nell’ambito della valutazione intesa a stabilire il carattere equo dell’indennità che gli spetta.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, comunque la Corte ha dichiarato che l’art. 18, lett. a), della direttiva osta a che un agente commerciale indipendente venga privato della sua indennità di clientela qualora il preponente dimostri l’esistenza di un inadempimento di tale agente, verificatosi dopo la notifica del recesso dal contratto mediante preavviso e prima della scadenza di quest’ultimo, che avrebbe potuto giustificare un recesso immediato dal contratto in parola.
Si deve notare come la pronunzia è particolarmente importante ed interessante per gli operatori del diritto, perché la nostra giurisprudenza è attestata nel senso contrario. Quando successivamente al recesso la preponente venga a conoscenza di comportamenti integranti gli estremi di giusta causa, viene ritenuta legittima una imputazione anche tardiva. Dovremo quindi valutare l’impatto di tale pronuncia del Giudice Comunitario sui nostri Tribunali.

Spero, quindi, di aver dato, sia pur rapidamente, un’idea di come e quando, appunto legislatore e giurisprudenza comunitari, si siano interessati, nell’ambito del diritto del lavoro, anche dei rapporti parasubordinati come quello dell’agente e del rappresentante commerciale e di come vi siano state lungaggini e a volte qualche resistenza, nel raggiungere l’attuale assetto, stabile sino a nuove modifiche, di autentica ed effettiva applicazione della Direttiva 653/86, come è capitato per tante altre Direttive.

Di questo ne va assunta consapevolezza, ma chi si appassiona al diritto comunitario da ciò non può che ricevere stimoli per contribuire, ciascuno per quanto può, a rimuovere le residue disapplicazioni di Direttive per la verità ormai, sempre più rare.

Uno strumento per gli Avvocati, va ribadito, è quello della sollecitazione al Giudice a proporre la questione pregiudiziale al Giudice comunitario.

Nei casi, poi, come quello della sentenza del Lussemburgo del 2010 di cui ho detto da ultimo bisognerà allegare al Giudice Nazionale il precedente giurisprudenziale del Giudice Comunitario.

 

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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L’A.E.C. agenti commercio settore industriale del 30/7/2014. Differenze col previgente del 20/3/2002.

Nuovo Accordo Economico Collettivo nel settore industria: affinché gli agenti siano consapevoli della contrattualistica collettiva che li riguarda

 

Esaminiamo questo accordo intervenuto dopo oltre dodici anni dal precedente a conferma del travaglio e delle difficoltà che vi sono state con la controparte stipulatrice.

Quello del settore commercio, come sapete, fu sottoscritto già nel 2009.

Sappiamo bene che gli A.E.C. sono frutto di mediazioni a volte, come qui, difficili per contemperare e trovare un punto di incontro tra le diverse posizioni delle parti stesse.

Dobbiamo dire che le associazioni stipulanti di parte agenziale hanno fatto un buon lavoro.

Rispetto ad altre stesure si nota un impegno notevole da parte di tutte le componenti sindacali, ma un buon risultato il ceto degli agenti ha ottenuto grazie all’opera di chi ha lavorato per loro e quindi, per quel che ci riguarda, della F.N.A.A.R.C.

L’oggetto della chiacchierata che andiamo a fare sarà quello di verificare le differenze rispetto all’accordo previgente del 20/3/2012 così sarà pure più agevole il raffronto per apprezzare le modifiche in melius.

Esaminiamole anzitutto, cominciando con l’articolo riguardante le variazioni di zona, territorio e prodotti, che è l’art. 2.

Vi sono qui importanti novità.

E’ diminuita l’aliquota che fa divenire di rilevante entità, le modifiche al mandato, che passa dal 20% al 15 %, con vantaggio per l’agente, il quale vede limitata a questa minore aliquota le modifiche in peius definite, come detto,  rilevanti.

Le variazioni restano quindi così previste:

Restano considerate di lieve entità le variazioni che incidono fino al 5%

Di media entità se incidono sino al 15% del valore del rapporto.

Di forte entità se incidono sul valore oltre al 15%

Le variazioni di lieve entità, come prima, possono essere imposte previa semplice comunicazione scritta all’agente senza diritto neppure al preavviso.

Quelle di media entità, sempre come prima, previa comunicazione scritta da darsi all’agente almeno due mesi prima, ovvero quattro mesi nel caso di agenti monomandatari.

E ancora come nell’A.E.C. precedente nel caso di variazioni di rilevante entità, il preavviso deve esser pari almeno a quello previsto per la risoluzione del rapporto.

Solo che qui il discrimine tra media e rilevante entità delle modifiche scende dal 20 al 15%.

E sempre come prima l’agente, entro 30 giorni, può comunicare alla mandante di non voler accettare le variazioni di rilevante entità.

Una ulteriore novità consiste che ora lo può fare anche per le variazioni di media entità (5/15%).

In tal caso, la comunicazione dell’agente costituisce preavviso per la cessazione del rapporto di agenzia o rappresentanza come se provenisse dalla casa mandante, con riguardo a tutti i diritti indennitari dell’agente, che restano salvaguardati.

Inoltre, il nuovo A.E.C. porta da 12 a 18 mesi per i plurimandatari e da 12 a 24 mesi per i monomandatari, il periodo precedente l’ultima variazione, in cui la singola modifica apportata dal mandante, o le varie modifiche, anche se realizzate mediante più modifiche ciascuna di lieve entità, si sommano ai fini del superamento del 5%  di variazione, considerandosi unitariamente, come detto, sia ai fini del diritto di preavviso che alla possibilità di cessare il rapporto con gli stessi diritti indennitari come se il rapporto fosse cessato ad iniziativa della preponente.

Pertanto il nuovo art. 2 rappresenta un sensibile miglioramento rispetto all’analogo dell’accordo precedente.

E giungiamo all’ARTICOLO 3: – DOCUMENTI – CAMPIONARIO

L’articolo 3 dell’accordo economico collettivo precedente recita :

All’atto del conferimento dell’incarico, all’agente o rappresentante debbono essere precisati per iscritto, in un unico documento, oltre al nome delle parti, la zona assegnata, i prodotti da trattarsi, la misura delle provvigioni e compensi e la durata, quando questa non sia a tempo indeterminato.

In ogni contratto individuale dovrà essere inserito l’esplicito riferimento alle norme dell’accordo economico collettivo in vigore e successive modificazioni.

Nel caso di affidamento del campionario, sarà altresì previsto che il valore dello stesso potrà essere addebitato all’agente o rappresentante in caso di mancata o parziale restituzione o di danneggiamento.

Nell’accordo del 2014 è stato aggiunto, in calce all’art. 3, la frase :

Non è previsto l’addebito del campionario all’agente o rappresentante per motivi diversi da quelli sopra indicati.

Si è trattato, quindi, di un rafforzamento di un concetto già espresso precedentemente, che però era opportuno per le diatribe che vi erano state e che ora la nuova formulazione intende eliminare.

E così passiamo all’ARTICOLO 4- CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO

Nell’A.E.C. del 2002 si legge:

Le norme previste nel presente accordo si applicano anche al contratto a tempo determinato in quanto compatibili con la natura del rapporto, con esclusione, comunque, delle norme relative al preavviso (di cui all’art 9).

Nei contratti a tempo determinato di durata superiore a 6 mesi, la casa mandante comunicherà all’agente o rappresentante, almeno 60 giorni prima della scadenza del termine, l’eventuale disponibilità al rinnovo o proroga del mandato.

Nell ‘accordo del 2014 è stata aggiunta in coda la frase:

In caso di rinnovo di rapporti a termine aventi lo stesso contenuto di attività (zona, prodotti e clienti) la casa mandante può stabilire un periodo di prova solo nel primo rapporto.

Questa è una modifica importante perché precedentemente si era ritenuto che la prova potesse riguardare anche i vecchi rapporti, invece qui la prova viene prevista come possibile solo avuto riguardo alla persona fisica o giuridica dell’agente per cui, se già la mandante ha avuto affidamento verso questa, non v’è motivo di effettuare nei suoi confronti nuove prove, perciò inammissibili.

E’ quindi un’altra norma a salvaguardia dell’agente, della sua professionalità e del suo diritto al preavviso.

E quindi esaminiamo l’ARTICOLO 6 – PROVVIGIONI

Il nuovo accordo disciplina, sempre ovviamente, il momento in cui sorge il diritto alla provvigione.

In sintesi:

  1. I) l’agente ha diritto alla provvigione sugli affari conclusi durante il rapporto, quando l’operazione sia stata conclusa per effetto del suo intervento;
  2. II) l’agente ha diritto alla provvigione per gli affari che non hanno avuto esecuzione per causa imputabile al preponente;

III) l’agente o rappresentante che tratta in esclusiva gli affari di una ditta ha diritto alla provvigione anche per gli affari conclusi senza suo intervento, sempreché rientranti nell’ambito del mandato affidatogli;

  1. IV) qualora la promozione e l’esecuzione di un affare interessino zone e/o clienti affidati in esclusiva ad agenti diversi, la relativa provvigione verrà riconosciuta all’agente, che abbia effettivamente promosso l’affare, salvo diversi accordi fra le parti per un’equa ripartizione della provvigione stessa;
  2. V) in caso di cessazione o risoluzione del contratto di agenzia, l’agente o rappresentante ha diritto alla provvigione sugli affari proposti prima della risoluzione o cessazione del contratto ed accettati dalla ditta anche dopo tale data;
  3. VI) l’agente o rappresentante ha diritto alla provvigione sugli affari proposti e conclusi anche dopo lo scioglimento del contratto, se la conclusione è effetto soprattutto dell’attività da lui svolta ed essa avvenga entro un termine ragionevole dalla cessazione del rapporto.

E’ nell’ultimo caso che il nuovo accordo economico collettivo aumenta, rispetto al precedente, il periodo successivo alla fine del rapporto da prendere in considerazione per il diritto all’agente disdettato alla provvigione sugli affari conclusi dopo la fine, appunto, del rapporto. E lo porta da 4 a 6 mesi.

Così infatti recita il comma 12:

Qualora nell’arco di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto, alcune delle trattative iniziate dall’agente vadano a buon fine, quest’ultimo ha diritto alle relative provvigioni. Decorso tale termine, la conclusione di ogni eventuale ordine non verrà più considerata conseguenza dell’attività da svolta dall’agente e non sarà quindi a lui dovuta alcuna provvigione.

E veniamo agli articoli di sempre maggior interesse e cioè gli

ARTICOLI 10 E 11 – INDENNITA’ DI FINE RAPPORTO

Le modifiche più importanti riguardano la quantificazione e determinazione dell’indennità meritocratica nonché la nomenclatura stessa dell’indennità in questione.

Precedentemente l’aggettivazione meritocratica era stata ammessa solo dalla controparte preponente delle aziende commerciali.

Quella delle aziende industriali non aveva mai voluto così nomenclarla volendo rimanere ancorata ad una dizione generica di indennità o componente della indennità di fine rapporto.

La introduzione della parola meritocratica ha, quindi, la sua importanza e valenza.

A questo punto è opportuno ricordare ancora una volta il sistema binario delle indennità di fine rapporto.

Uno è quello codicistico, scandito nell’art. 1751 c.c. la cui formulazione dal 1990 in poi ha inteso dare applicazione alla Direttiva Comunitaria del 1986 e che prevede, quando vi siano i requisiti meritocratici (attività performante dell’agente, vantaggio per la preponente ed equità), una assolutamente unica indennità da quantificazione in un range da zero alla media provvigionale annua dell’ultimo quinquennio o del minor periodo comunque lavorato.

L’altro, secondo la contrattualistica collettiva, che prevede il F.I.R.R. o la I.R.R., la indennità suppletiva di clientela nonché, quando presenti, i requisiti meritocratici (gli stessi fissati dall’art. 1751 c.c., attività performante dell’agente e vantaggio per la preponente) la ulteriore indennità prima qualificata come componente della indennità di fine rapporto e ora, col nuovo accordo 30/7/2014, finalmente, anche definita, meritocratica.

E’ ovvio che nei casi in cui l’indennità codicistica è migliore nel caso concreto alla somma di indennità risoluzione rapporto, suppletiva clientela e meritocratica secondo l’accordo economico collettivo, si dovrà applicare a mente dell’orientamento della Corte di Giustizia europea del 2006, l’indennità codicistica.

Non c’è dubbio però che la migliore (rispetto alla precedente) indennità meritocratica secondo l’A.E.C. 30/7/2014 rappresenta un indiscutibile ulteriore atout per così dire alle giuste pretese dell’agente.

Gli elementi che danno diritto all’indennità meritocratica, secondo il nuovo accordo economico collettivo, vengono indicati all’articolo 10, capo III) che precisa che l’indennità sia dovuta qualora, alla cessazione del contratto, l’agente o rappresentante abbia più precisamente apportato al preponente un sensibile incremento della clientela e/o del giro d’affari e procurato al preponente, anche dopo la cessazione del contratto, sostanziali vantaggi.

Il diritto di percepire l’indennità meritocratica viene perduto dall’agente qualora il contratto si sciolga per un fatto a lui imputabile.

Viene precisato che non si considerano fatti imputabili all’agente o rappresentante le dimissioni:

  1. i) dovute ad accertati gravi inadempimenti del preponente;
  2. ii) dovute ad invalidità permanente e totale;

iii) dovute ad infermità o malattia che non consentano la prosecuzione del rapporto;

  1. iv) successive al conseguimento della pensione di vecchiaia ENASARCO
  2. v) successive al conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata ENASARCO;
  3. vi) successive al conseguimento della pensione di vecchiaia INPS;

vii) successive al conseguimento della pensione anticipata INPS

Un po’ come prima, con la opportuna specificazione di entrambe le pensioni I.N.P.S. e ENASARCO.

MODALITA DI CALCOLO

Il calcolo per la quantificazione dell’indennità meritocratica passa attraverso alcune fasi:

La prima è la determinazione dell’incremento della clientela

E’ necessario innanzitutto individuare l’incremento di clientela che si è avuto durante lo svolgimento del mandato.

Detto valore si calcola tra la differenza degli imponibili complessivi [cioè ogni tipo di emolumento (vedasi art. 11, comma 1)] del periodo finale del rapporto rispetto a quello iniziale.

I periodi (finali e iniziali) da prendere in considerazione per operare il raffronto sono diversi secondo la durata prevista dalla tabella che ora dico:

primi 5 anni di rapporto – si prendono in considerazione le ultime 4 liquidazioni trimestrali rispetto alle prime 4 liquidazioni trimestrali;

dal 6° al 10° anno  –  si prendono in considerazione  le ultime 8 liquidazioni trimestrali rispetto alle prime 8 liquidazioni trimestrali; 

rapporti in corso da oltre 10 anni  – si prendono in considerazione le ultime 12 liquidazioni trimestrali rispetto alle prime 12 liquidazioni trimestrali-

II valore iniziale deve essere rivalutato applicando secondo i dati ISTAT di rivalutazione per i crediti di lavoro.

Il raffronto tra i due periodi deve essere fatto su dati omogenei e, pertanto, quindi, se ci sono state variazioni in melius o in peius nel corso del rapporto (per territorio, clientela, prodotti, ecc.)  ne va tenuto conto.

In base alla durata del rapporto va poi individuato un periodo c.d. di “prognosi” previsto secondo la ulteriore tabella, che anche se noiosa vi accenno, ma che poi ovviamente è da andarsi a vedere di volta in volta:

In pratica è un coefficiente da applicare, come vedremo in un esempio che Vi farò.

 

TIPOLOGIA                                                                                    PERIODO DI PROGNOSI

                                                                                                                                 (anni di proiezione)

Agente monomandatario con durata del mandato fino a 5 anni                                         2,25

Agente monomandatario con durata superiore a 5 anni e fino a 10 anni                          2, 75

Agente monomandatario con durata superiore a 10 anni                                                    3,25

Agente plurimandatario con durata fino a 5 anni                                                                   2,00

Agente plurimandatario con durata superiore a 5 anni e fino a 10 anni                            2,50

Agente plurimandatario con durata superiore a 10 anni                                                      3,00

Va poi determinato un ulteriore coefficiente e cioè il c.d. “tasso di migrazione” che si individua secondo la seguente tabella

TIPOLOGIA                                                                        TASSO DI MIGRAZIONE

Agente monomandatario con durata inferiore o uguale a 5 anni                                       15%

Agente monomandatario con durata superiore a 5 anni e uguale o           inferiore a 10 anni  20%

Agente monomandatario con durata superiore a 10 anni                                                    35%

Agente plurimandatario con durata inferiore o uguale a 5 anni                                         17%

Agente plurimandatario con durata superiore a 5 anni e uguale o inferiore a 10 anni  22%

Agente plurimandatario con durata superiore a 10 anni                                                      37%

Si sottrae, per il primo anno di “prognosi” il tasso di migrazione che si è dato dal valore dell’incremento degli imponibili provvigionali dell’agente.

Per gli anni successivi di prognosi lo stesso tasso di migrazione va sottratto dal valore determinato per l’anno di prognosi precedente e si sommano i risultati così ottenuti.

Vi è poi da calcolare una diminuzione forfettaria.

L’importo ottenuto si diminuisce quindi di una percentuale variabile pari:

al 10% per i contratti di agenzia di durata inferiore o uguale a 5 anni;

al 15% per i contratti di agenzia di durata superiore a 5 anni e uguale o inferiore a 10 anni

al 20% per i contratti di agenzia di durata superiore a 10 anni

Il tutto poi va confrontato con il massimo dell’indennità prevista dall’articolo 1751 c.c.

L’indennità meritocratica secondo l’A.E.C. come risultante dai complessi conteggi detti viene confrontata con quella massima dell’articolo 1751 del cod. civ.(media annua delle provvigioni degli ultimi 5 anni di durata dal rapporto, oppure nel minor periodo lavorato).

Qualora l’importo calcolato ecceda il tetto massimo del 1751 c.c. , l’indennità non potrà esser superiore a quest’ultimo.

V’è da applicare comunque la detrazione da quanto ottenuto degli importi dell’indennità di risoluzione rapporto (FIRR) e dell’indennità suppletiva di clientela.

All’indennità meritocratica come sopra calcolata va difatti sottratta l’indennità di risoluzione del rapporto (FIRR) e l’indennità suppletiva di clientela.

Il calcolo della meritocratica, lo dico più volte qui, è complesso.

Un esempio di calcolo può far meglio comprendere il sistema appena descritto, ma sinceramente la complessità permane.

Si ipotizzi allora un rapporto di agenzia con agente plurimandatario e con una durata di 7 anni.

Secondo la tabella di cui all’articolo 11, il periodo di prognosi è pari a 2,50 anni e il tasso di migrazione è del 22%.

Si ipotizzi un valore dell’incremento apportato dall’agente di € 100.000,00.

Applicazione del tasso di migrazione

Si applica il tasso di migrazione al valore dell’incremento (€ 100.000,00) per il periodo di prognosi:

1° anno     € 100.000,00 – 22%    – € 78.000,00     intero                   €   78.000,00

2° anno     €   78.000,00 – 22%    – € 60.840,00     intero                   €   60.840,00

3° anno     € 60.840,00  – 22%     – € 47.455,00     0,5             €   23.727,00

                                                                           TOTALE             € 162.567,00

Riduzione forfettaria (art. 11 comma 5)

Si abbatte l’importo di € 162.567,00 del tasso di migrazione, con la percentuale forfettaria del 15%, pari ad € 24.385,00, essendo il contratto di durata superiore a 5 anni e inferiore a 10 (art. 11 punto 5).

Si ottiene quindi la somma di € 138.182,00.

Confronto col massimo ex art. 1751 c.c.

La somma ottenuta di € 138.182,00 rispetto al massimo ex art. 1751 deve esser inferiore (cfr. art. 11, punto 6).

Ipotizzando che sia superato e che tale tetto massimo ex art. 1751 c.c. sia di                        € 100.000,00, l’importo di indennità meritocratica è ridotto a € 100.000,00.

Sottrazione di I.R.R. ( o F.I.R.R.) e indennità suppletiva di clientela.

Dalla indennità meritocratica ex A.E.C. 30/7/2014 vanno sottratte I.R.R. e I.S.C.

E’ prevista, poi, una disciplina transitoria per i mandati in corso al 30 luglio 2014 e stipulati prima del 1 gennaio dello 2014.

In questi casi si applicherà fino al 31 dicembre 2015 la disciplina prevista dall’A.E.C. 2002 e a decorrere dal 1° gennaio 2016 quella del nuovo accordo.

Il tutto sempre che il rapporto termini dopo il 31 marzo 2017.

Se cessa prima di tale data i conteggi vanno eseguiti soltanto secondo quanto previsto dall’A.E.C. 2002.

Riepilogando avremo:

  1. a) immediata applicazione del nuovo A.E.C. per i mandati in vigore dopo il 1° gennaio 2014;
  2. b) applicazione della precedente contrattazione per i mandati in vigore dal 1° gennaio 2014 e cessati prima del 31 marzo 2017;
  3. c) applicazione sia dell’A.E.C. 2002 (fino al 31.12.2015) che dell’A.E.C. 2014 (dal 1° gennaio 2016) per i contratti stipulati prima del 1° gennaio 2014 e terminati dopo il 31 marzo 2017.

Il sistema di calcolo della meritocratica, avete visto, necessita il più delle volte degli specialisti o di agenti particolarmente portati ai conteggi e ai calcoli.

Anche in altri stati membri, in verità, come la Germania, hanno elaborato complessi sistemi di calcolo.

Possiamo rilevare come questo sistema di calcolo ottemperi al dettato della fonte normativa (Direttiva Comunitaria e suo recepimento nell’art. 1751 c.c.) senza incorrere in alcuni dei motivi di censura formulati circa gli accordi previgenti dalla sentenza della Corte del Lussemburgo, che è la n° 465C/04 del 03/03/2006.

Vale a dire che l’indennità è rapportata alle provvigioni (come prevede la Direttiva)  e non ad una percentuale delle stesse. Una obiezione che potrebbe resistere è che il raffronto viene sempre fatto in seno all’incremento che ha avuto l’agente durante il suo rapporto e non rispetto all’incremento che l’agente ha apportato avuto riguardo alla situazione quo ante, cioè precedentemente alla sua assunzione del mandato.

Un altro rilievo è che la nostra giurisprudenza ha spesso affermato che il massimo previsto dall’art. 1751 c.c. (la media annua) è la misura base dell’indennità, da decrementare solo in casi poi da giustificare e motivare (ex multis: Cassazione 16347/2007).

Certamente questi sono argomenti ancora da considerare per le precedenti stesure.

Ma s’è detto pure della esigenza di mediare tra gli interessi contrapposti e ora questo è quello che si è evidentemente riusciti a strappare.

Ed invero è un buon passo avanti.

Per – GRAVIDANZA E PUERPERIO, l’art. 13 del A.E.C. porta a 12 mesi la sospensione momentanea del rapporto di agenzia nel caso di gravidanza e puerperio (prima fino a 8 mesi).

Ultima differenza sull’ ARTICOLO 14 – PATTO DI NON CONCORRENZA POST CONTRATTUALE

Le differenze rispetto alla quantificazione previgente sono di scarso contenuto perché relative solo al caso di dimissioni dell’agente, di rapporto plurimandato e solo nel caso di un mandato che non rappresenti più del 25% degli introiti dell’agente.

Nell’ipotesi in cui dovessero concorrere le tre circostanze appena descritte l’accordo economico precedente stabiliva una riduzione dell’indennità al 70% qualora le dimissioni dell’agente non fossero state determinate da:

  1. a) inadempimento della preponente;
  2. b) pensionamento di vecchiaia (ENASARCO);
  3. c) grave inabilità che non consenta più all’agente lo svolgimento dell’attività.

Il nuovo A.E.C. stabilisce che la riduzione del 70% dell’ammontare dell’indennità peri il patto di non concorrenza post contrattuale non si debba applicare in tre ulteriori ipotesi ovvero:

  1. d) pensionamento di vecchiaia anticipata ENASARCO;
  2. e) pensionamento di vecchiaia INPS;
  3. f) pensionamento di anticipata INPS;

Complessivamente, come dicevamo, quindi, il giudizio sul nuovo A.E.C. può esser senz’altro positivo e i miglioramenti rispetto al previgente accordo sono più tangibili che nelle altre precedenti occasioni.

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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Ipotesi di nullità per le cd. fideiussioni omnibus

Lo schema negoziale predisposto dall’A.B.I. viola la disciplina della Concorrenza e del Mercato

 

Le cd. “fideiussioni omnibus” sono garanzie personali, diffuse nella pratica bancaria, attraverso le quali un soggetto terzo (fideiussore) garantisce le obbligazioni già assunte o da assumersi dal debitore principale in favore del creditore.

L’A.B.I. – Associazione Bancari Italiana, nello svolgimento delle proprie prerogative associative, predispone degli schemi negoziali aventi ad oggetto condizioni generali di contratto che le Banche possono utilizzare nei rapporti con la Clientela.

Nell’ottobre dell’anno 2002, l’A.B.I. concertò con diverse associazioni di Consumatori uno schema negoziale relativo al contratto di “fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie” (cd. fideiussioni omnibus), tra l’altro già oggetto di modifiche su indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, per rilievi di incompatibilità di alcune clausole negoziali alla disciplina della Concorrenza e del Mercato.

Va, in proposito, considerato che la Banca d’Italia ha esercitato, sino all’anno 2006, le funzioni di tutela della Concorrenza nel settore bancario, successivamente attribuite all’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, e che la predetta banca d’Italia, con Provvedimento n. 55/2005, ha rilevato il contrasto di diverse disposizioni contenute nello schema negoziale predisposto dall’A.B.I. con l’art. 2, II comma, lettera a) della Legge n. 287/1990, ritenendo configurabile, nella vicenda in questione, un’intesa restrittiva della Concorrenza nel settore del credito bancario.

La Banca d’Italia ha rilevato la sostanziale uniformità dei contratti utilizzati dagli Istituti Bancari rispetto allo schema negoziale standard predisposto dell’A.B.I., riconducibile ad una consolidata prassi bancaria, anche preesistente allo schema negoziale predisposto dalla stessa Associazione, derogativo della disciplina ordinaria, suscettibile di aggravare la posizione contrattuale del fideiussore, ritenuto privo di un valida giustificazione e che, comunque, impediva un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti.

In particolare l’attenzione della Banca d’Italia si è soffermata su tre clausole negoziali contenute nello schema uniforme predisposto dall’A.B.I.: a) la clausola derogativa della disciplina di cui all’art. 1957 c.c., che esonerava il creditore dal proporre le proprie istanze nei confronti del debitore entro un termine (sei mesi) dalla scadenza dell’obbligazione principale, pena la liberazione del garante; b) la clausola di “reviviscenza” della garanzia dopo l’estinzione del debito principale avvenuto per l’adempimento, per l’ipotesi in cui il creditore fosse tenuto a restituire le somme al debitore principale, impegnando, quindi, il fideiussore a tenere indenne il creditore”; c) la clausola che sanciva la permanenza della garanzia prestata dal fideiussore anche nell’ipotesi di eventuali vizi dell’obbligazione principale, impegnando, quindi, il fideiussore a garantire il creditore anche nell’ipotesi di invalidità dell’obbligazione principale o revoca del relativo pagamento.

La valutazione effettuata dalla Banca d’Italia in ordine alla predette clausole negoziali o, meglio, agli oneri aggiuntivi posti a carico del fideiussore rispetto alla disciplina ordinaria è che non contenessero alcun legame di funzionalità volto a garantire l’accesso al credito bancario, ma che si risolvessero, esclusivamente, nel tentativo di ribaltare sul fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza proprie degli Istituti Bancari, nella fase della predisposizione del contratto o, comunque, nella sua esecuzione.

Da tale valutazione e dall’ampia diffusione, nei contratti utilizzati dagli Istituti Bancari, delle clausole oggetto di verifica, la Banca d’Italia ha tratto la conclusione che il fenomeno non poteva essere ricondotto ad una dinamica spontanea di mercato, ma piuttosto agli effetti di un’intesa tra gli operatori sulle condizioni contrattuali da sottoporre alla Clientela, con la conseguente configurabilità di una violazione dell’art. 2, II comma, lettera a), della legge n. 287/1990 e, quindi, nullità di tali clausole contrattuali.

Merita di essere segnalata una recente Ordinanza della Corte di Cassazione, con la quale è stato affermato il principio in forza del quale anche i contratti stipulati anteriormente al richiamato provvedimento n. 55/2005, emesso dalla Banca d’Italia, possono essere affetti dalla nullità innanzi richiamata; il Supremo Collegio ha, infatti, affermato che: “in tema di accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dall’art. 2 della L. n. 287/1990, la stipulazione “a valle” di contratti o negozi che costituiscono l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” (nella specie: relative alle norme bancarie uniformi A.B.I. in materia di contratti di fideiussione, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative) comprendono anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte dell’Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel Mercato a condizione che quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato nullo, considerato anche che rientrano sotto quella disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive del rapporto che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della Concorrenza” (Cass. Sez. I, Ord. 29810/2017 del 12.12.2017).

La Corte di cassazione ha, pertanto, evidenziato come l’illecito concorrenziale rappresentato dall’intesa tra gli Operatori del settore bancario relativo alle cd. “fideiussioni omnibus” realizzatasi “a monte” era, com’è, idonea a travolgere le negoziazioni “a valle”, rappresentate dalle fideiussioni prestate nei rapporti bancari, a prescindere dall’anteriorità al provvedimento adottato a conclusione dell’indagine dell’Autorità indipendente.

“Intervista” che gli Intermediari sono soliti effettuare mediante appositi “Questionari” e che devono assicurare che la raccolta delle “informazioni” sia utile a consentire l’attribuzione di un adeguato profilo di “rischio e rendimento” del Cliente e che, in ogni caso, sia effettuata in modo tale da consentire la genuinità delle “informazioni” e la consapevolezza dello stesso.

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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Gli Intermediari Finanziari e la raccolta delle informazioni

La cd. “Intervista” al Cliente e l’importanza del Questionario
per una corretta profilatura.

 

Gli Intermediari Finanziari sono tenuti a raccogliere informazioni dal Cliente (“Known your customer rule”) per la cd. “profilatura” ovvero per la definizione del profilo di “rischio e di rendimento” del Cliente, necessario parametro di riferimento per valutare l’adeguatezza di ogni Operazione d’Investimento.

Sono diverse le disposizione del T.U.F. e del Regolamento Consob che disciplinano tale attività cui sono tenuti gli Intermediari e tra questi si segnala l’art. 39 del Regolamento Consob n. 16190/2007, rubricato “Informazioni dai Clienti nei Servizi di consulenza in materia di investimenti di gestione di portafogli”, che espressamente prevede: “Al fine di raccomandare i Servizi di Investimento e gli strumenti finanziari adatti al Cliente o potenziale Cliente, nella prestazione dei Servizi di Consulenza in materia di Investimenti o di gestione di Portafoglio, gli Intermediari ottengono dal Cliente o potenziale Cliente le informazioni necessarie in merito: a) alla conoscenza ed esperienza nel settore di Investimento rilevante per il tipo di strumento o di servizio;” … “2. Le informazioni di cui al comma 1, lettera a), includono i seguenti elementi, nella misura in cui siano appropriati tenuto conto delle caratteristiche del Cliente, della natura e dell’importanza del servizio da fornire e del tipo di prodotto od operazione previsti, nonché della complessità e dei rischi di tale servizio, prodotto od operazione: a) i tipi di Servizi, Operazioni e Strumenti Finanziari con i quali il Cliente ha dimestichezza; b) la natura, il volume e la frequenza delle Operazioni su strumenti finanziari realizzate dal Cliente ed il periodo durante il quale queste operazioni sono state eseguite; c) il livello di istruzione, la professione o, se rilevante, la precedente professione del Cliente”.

L’attività di “Raccolta delle Informazioni dal Cliente” appare strumentale al dovere previsto per gli Intermediari di fornire informazioni adeguate in merito ai prodotti finanziari proposti alla clientela e ciò non solo nell’interesse del singolo investitore, ma a tutela di un interesse generale quale quello dell’integrità e del buon funzionamento dei mercati finanziari e, proprio per tale caratteristiche è da considerarsi inderogabile alla volontà dei contraenti.

A riprova della rilevanza che riveste l’attività di “Raccolta delle Informazione dal Cliente”, l’Autorità Europea di Vigilanza, istituita con Regolamento UE n. 1095/2010, ha fornito diverse indicazione in proposito negli “Orientamenti ESMA” concernenti alcuni aspetti dei requisiti di adeguatezza prescritti dalla MIFID, tra l’altro, recepiti dalle Linee Guida dell’A.B.I., che, seppur non rappresentano obblighi assoluti per gli Intermediari, costituiscono criteri d’interpretazione dei requisiti di adeguatezza della Direttiva M.I.F.I.D. ed hanno lo scopo di garantire un’applicazione comune, uniforme e coerente della stessa.

In particolare, l’Orientamento n. 31 prevede che: “Prima di prestare Servizi di Consulenza in materia di Investimenti o di gestione di Portafogli, le Imprese di Investimento devono sempre raccogliere le <<Informazioni necessarie>> sulle conoscenze e le esperienze del Cliente, sulla situazione finanziaria e sui suoi obiettivi di Investimento”.

Vanno, poi, segnalati gli “Orientamenti” che prevedono la necessità, per l’Intermediario, di adottare politiche e procedure adeguate atte a consentire loro la possibilità di comprendere i dati essenziali sui loro Clienti e di predisporre “questionari” da far compilare ai loro Clienti o da compilare con loro durante le discussioni, strumenti abitualmente utilizzati dagli Intermediari.

Meritano, inoltre, di essere richiamati quei “Orientamenti” che incidono, in modo rilevante, sull’organizzazione interna degli Intermediari al fine di soddisfare esigenze di tutela del Cliente come:  – a) l’Orientamento n. 25 che prevede che: “le imprese di investimento sono tenute a garantire che il personale coinvolto in aspetti rilevanti del processo di adeguatezza possieda un livello adeguato di conoscenze e competenze”; – b) l’Orientamento n. 41 che prevede che: “le imprese di investimento dovrebbero adottare misure ragionevoli per garantire che le informazioni raccolte sui clienti sono affidabili”; – c) l’Orientamento n. 47 che prevede che: “se l’impresa di investimento ha un rapporto continuativo con il cliente, dovrebbe adottare procedure adeguate al fine di conservare informazioni aggiornate ed adeguate sul cliente”.

A ciò va aggiunto che l’attività di “Raccolta delle Informazioni” rientra tra quei obblighi di comportamento che la Legge pone a carico degli Intermediari Finanziari e che gli stessi sono tenuti ad adempiere con diligenza, correttezza e trasparenza, anche nel rispetto degli artt. 1176 e 1375 c.c. e che, ai sensi dell’art. 23, VI comma, del T.U.F., sono gli Intermediari tenuti, nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento, a provare di aver agito con la specifica diligenza richiesta.

Da quanto innanzi evidenziato possiamo, pertanto, concludere che vi è una sensibile attenzione alla “profilaturadel Cliente anche mediante la cd. “Intervista” che gli Intermediari sono soliti effettuare mediante appositi “Questionari” e che devono assicurare che la raccolta delle “informazioni” sia utile a consentire l’attribuzione di un adeguato profilo di “rischio e rendimento” del Cliente e che, in ogni caso, sia effettuata in modo tale da consentire la genuinità delle “informazioni” e la consapevolezza dello stesso.

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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