Le start up innovative

Il progredire tecnologico, un’opportunità di approfondimenti anche giuridici e la tempestività nelle risposte dei consulenti giuridici

Sempre di più, nel sentire quotidiano, si utilizza il termine start up il quale corrisponde a realtà imprenditoriale ben determinata, soprattutto in Italia, essendo oggetto di leggi speciali fortemente incentivanti e agevolative: a partire dalla semplificazione nella costituzione.

Da una parte l’intraprendenza di tanti giovani che hanno voglia e capacità di affacciarsi al mondo dell’impresa col desiderio di mettere a frutto doti informatiche e le visioni innovative del mondo degli affari e degli interessi anche in ambito sociale.

Dall’altra i tradizionali percorsi per trasformare gli iniziali accordi tra amici in rapporti societari che reggano nel tempo e che diventino anche lo strumento giuridico per affrontare il non facile mondo delle realtà imprenditoriali, anch’esse sempre più complesse.

L’idea e le capacità ci sono e si è anche scelto il team giusto e affiatato: gli accordi da prendere sono tanti, magari perché uno ha avuto l’idea, ma è poco capace nell’attuarla, un altro è a tempo pieno lo sviluppatore, un altro trova il primo investitore o cliente: nel gergo si chiama gestire l’equity di ogni founder.

Le tante riflessioni comuni le tante parole devono concretizzarsi e devono assumere una veste tecnica: occorre una corretta veste giuridica e per far ciò il modo migliore per partire e di rivolgersi consulenti esperti. Gli strumenti sono ipertecnici anche e forse soprattutto per traghettare idee innovative in accordi societari; si potrà pensare a patti parasociali ma occorre aver consapevolezza che essi prima della costituzione della società rientrano nei contratti preliminari i quali devono, pertanto, rispettare, a pena di nullità, la forma prescritta per la costituzione della società e precisamente quella di atto pubblico.

Se la fase preliminare degli accordi è complessa lo è anche la successiva e cioè quella attuativa. Le domande maggiormente ricorrenti sono: come posso costituire la s.r.l., spendendo il meno possibile, anche per i futuri oneri fiscali –  cosa devo inserire nello statuto e nell’atto costitutivo, ad es. con un forte interesse all’exit –  posso aprire una s.r.l.s., così spendo di meno –  quali potranno essere i costi: consulenti, commercialista ecc. –  meglio aprire in Italia o all’estero.

Le esigenze sono sempre più complesse perché le relazioni e i contatti sono in costante progressione, ognuno ha libero accesso a infiniti sguardi sul mondo imprenditoriale a volte dimenticandosi che probabilmente potrà essere il futuro proprio concorrente. Lo startupper ha estese conoscenze che spesso però rimangono superficiali perché nell’ordinamento giuridico valgono una serie di principi che non si sorreggono su approssimazioni ma su tesi e antitesi attentamente valutate. Ne consegue che chi vorrà, ad esempio, voler promettere quote della società in cambio di prestazioni di servizi e/o di opere o dovrà necessitare di ulteriore capitale di rischio dovrà concretizzare le idee in precisi articoli degli statuti societari, in apposite scelte societarie, in delibere inoppugnabili e per far ciò è utile se non indispensabile il consulente giuridico per prevenire errori e pericoli.

Di pari passo vi è necessità di assistenza nella preliminare disamina dei documenti che l’investitore sottoporrà all’attenzione dello startupper, cd. termsheet di investimento e ad esempio nella redazione e operatività di clausole a garanzia dei soci costituenti.

Nel concetto di start up vi è anche quello di coltivare un’idea innovativa affinché il progetto possa replicarsi nel mercato, e anche in tal caso gli scenari sono diversificati a partire dalla esatta e capillare individuazione dei potenziali interessati anche a mezzo di una valutazione degli strumenti giuridici più appropriati e sicuri per operazioni che si mantengano stabili nel tempo.

In conclusione le leggi speciali hanno dato una forte spinta soprattutto per il sistema di  deroghe anche rilevante rispetto ai canoni societari tradizionali, basti pensare alla non fallibilità delle start up innovative ma vi è al contempo l’esigenza che si impari a utilizzare al meglio i nuovi impianti giuridici e per far ciò è indispensabile l’imprenditore lungimirante e amante del voler far e far bene, consapevole dei propri limiti e, quindi, anche compiaciuto nel saper farsi adiuvare da validi coadiutori anche nell’ambito dei consulenti giuridici.

Avv. Giuseppe Sparano, nato a Napoli il 18.2.1965
Laureato nel 1987 con lode, presso l’Università Federico II di Napoli
Iscritto all’Albo degli Avvocati di Napoli dal 22.2.1991 -patrocinio presso le Corte Superiori.
Dottore di ricerca in Diritto delle Imprese in crisi –  Università Federico II di Napoli
Docente di Diritto Commerciale corso in “Diritto dei contratti d’impresa” nelle Scuole di Specializzazione delle Professioni Università Federico II di Napoli e Università Vanvitelli (già  Seconda Università di Napoli).
Presidente dei Collegio dei probiviri della Camera degli Avvocati Civili di Napoli (già segretario e tesoriere).

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MASSIME della Cassazione Penale

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza emessa in data 10/11/2017 n.55525, ha annullato senza rinvio, previa riqualificazione del fatto contestato, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma che  aveva confermato la decisione del Tribunale di Rieti  che aveva riconosciuto l’imputato colpevole del delitto di truffa aggravata in danno dell’Inpdap per l’omessa comunicazione all’istituto del decesso del genitore percettore di pensione.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere la prospettazione difensiva secondo cui il comportamento omissivo contestato all’imputato non si prestava a costituire l’elemento strumentale della truffa, sulla scia di  quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la pronuncia n.16568/200, ha statuito: “Questa Corte ha precisato che integra la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter cod. pen. e non quella di truffa aggravata l’indebita percezione della pensione di pertinenza di soggetto deceduto, conseguita dal cointestatario del medesimo conto corrente su cui confluivano i ratei della pensione, che ometta di comunicare all’Ente previdenziale il decesso del pensionato (Sez. 2, n. 48820 del 23/10/2013, Brunialti, Rv. 257430), evidenziando che quello che essenzialmente rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel primo di detti reati e presente, invece, nel secondo. Nel solco tracciato dalla pronunzia delle Sezioni Unite, n. 16568 del 19/04/2007 , Carchivi, Rv. 235962, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art. 316 ter c.p. abbraccia situazioni residuali rispetto alle contigue fattispecie ex artt. 640, comma 2, e 640 bis cod.pen., come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, il meno grave delitto di cui all’art. 316 ter è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa (Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, Oro, Rv. 266979; n. 49642 del 17/10/2014, Ragusa, Rv. 261000). Deve, pertanto, ritenersi che integri la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e non di truffa aggravata, per assenza di un comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio, la condotta di colui che ometta di comunicare all’istituto erogante il trattamento pensionistico il decesso del congiunto titolare dello stesso, così continuando a percepirlo indebitamente, come nella specie accaduto.”

La condotta  tenuta dall’imputato essendo, infatti, consistita unicamente nell’omessa comunicazione all’Inpdap del decesso del genitore, e non  essendo  tale comportamento omissivo stato accompagnato da ulteriori comportamenti fraudolenti, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, non integra l’artifizio e raggiro richiesto per poter configurarsi il reato di truffa aggravata ex art.640 bis c.p..

Ciò che rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel reato previsto e punito dall’art.316 ter c.p. e presente, invece, in quello p.e p. dall’art.640 bis c.p..  L’assenza di un positivo comportamento fraudolento rileva nella configurabilità di una o l’altra ipotesi delittuosa.

L’art.316 ter c.p. punisce tutte le condotte non fraudolenti nel conseguimento di erogazioni pubbliche: condotte che, pur avendo causato l’indebita percezione di erogazioni pubbliche, non siano propriamente consistite in artifici o raggiri. E tale condotta essendo  considerata dal Legislatore di minore disvalore  è  punita in maniera meno grave rispetto alla truffa aggravata.

E’ necessario sottolineare che dalla pronunzia delle dalle Sezioni Unite del 19 Aprile del 2007 n.16568, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art.316 ter c.p. comprende ipotesi  residuali rispetto alle fattispecie previste negli articoli 640 e 640 bis c.p., come quelle del mero silenzio o di condotte che non inducano in errore lo Stato o l’Ente erogatore  della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, laddove difettino nella condotta dell’imputato  gli estremi della truffa si configura sempre  il meno grave delitto di cui all’art.316 ter c.p.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Violenze endofamiliari

La violenza domestica è fisica, psicologica e sessuale. Quali misure per la tutela del minore e della donna?

Decliniamo gli ambiti di espressione e di collocazione dei comportamenti che riconducono le persone nella dinamica della violenza domestica, premettendo la definizione che ne fa l’organizzazione Mondiale della Sanità , secondo la quale la violenza domestica è ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale, che riguarda tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo.

Inserendo i dati successivamente illustrati nella giusta cornice giuridica, possiamo individuare il soggetto agente, la fattispecie parentale ed ancora la conoscenza diretta delle conseguenze cui detti comportamenti mirano.

Come noto, a partire dalla Legge n. 154/2001 denominata “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari“, è stata introdotta la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare prevista dall’art. 282 bis c.p.p., misura che va ad ampliare il ventaglio delle misure cautelari e che, di recente, è stata prevista anche con una morfologia di misura precautelare (art. 384 bis c.p.p.), vale a dire di allontanamento d’urgenza

Prima ancora dell’affermazione del nuovo concetto di famiglia, e quindi della pluralità delle forme delle stesse non necessariamente stigmatizzate all’interno di una famiglia-tipo, l’introduzione nel nostro codice degli ordini di protezione all’art. 342-bis cc. andava ad individuare il “disturbatore” in chiunque limitasse la libertà dell’altra persona quale diritto fondamentale, quindi anche l’estraneo, quindi anche il convivente, quindi anche il familiare in ordine diverso di relazione, preferendo l’elemento della convivenza su ogni altro. I presupposti  quindi sono :

la convivenza ed una  condotta gravemente pregiudizievole all’integrità fisica, morale e/o alla  liberta’ personale.

 L’applicazione delle misure di protezione presuppone che la vittima ed il soggetto cui viene addebitato il comportamento violento vivano all’interno della medesima casa, in quanto l’art. 5 della L. 154/2001 fa esclusivo riferimento al nucleo costituito dai familiari conviventi (Cfr. Tribunale di Rieti, sentenza 6/03/2006, in Fam. Pers. Succ., 2007, 7, 606. Conformi, sul punto, Tribunale di Napoli, sentenza 1/02/2002, in Famiglia e Diritto, 2002, 5, 504; Tribunale di Napoli, sentenza 18/12/2002, in Gius., 2003, 2, 230)

Per la verità in talune ipotesi come lo stalking e come lo stesso 342 bis secondo alcune pronunce di merito i provvedimenti detti possono intervenire e concretizzarsi anche a convivenza interrotta perché il bene protetto è appunto la libertà di espressione della persona. (Trib. Napoli 19/12/2007 – Trib. Bologna 22/03/05).

Il concetto di libertà di espressione della persona si è radicato nella giurisprudenza di legittimità e di merito attraverso una ricostruzione progressiva dei diritti costituzionalmente garantiti laddove lentamente e attraverso riforme significative che hanno avuto il coraggio di leggere i mutamenti antropologici, il diritto della famiglia si è trasformato in diritto delle persone componenti la famiglia, nel senso che il bene famiglia non può più prevalere sull’interesse e sulle priorità dei singoli componenti la stessa.

Un sentenza bellissima del 2001 della Cassazione ci ricorda che la famiglia non è più un’istituzione verticistica, ma “un luogo di fioritura delle singole originalità”. In quest’ottica vanno rivisitati i diritti e i doveri coniugali e/o dei conviventi,  i diritti e doveri dei genitori verso i figli e i diritti e i doveri dei figli verso i genitori. Il benessere è quindi soddisfatto soltanto dalla capacità di favorire un processo di crescita e di autoresponsabilità di ciascuno.

Tutto ciò che interferisce con questo quadro normativo o con questi comportamenti è VIOLENZA.

Violenza è non amare, non curare, non assistere, non sostenere economicamente, non rispettare.

Violenza è umiliare, sottomettere, confondere, abdicando ai propri ruoli di compagni, genitori e quant’altro.

La violenza è una “comunicazione”. E la complessita’ del fenomeno e’ data proprio dalla disfunzionalita’ della relazione che ne e’ alla base.

L’effetto è quello di controllare emotivamente a volte anche fisicamente una persona che fa parte del nucleo familiare.

Le condizioni di chi subisce violenza sono tanto più gravi quanto più la violenza si protrae nel tempo o quanto piu esiste un legame consanguineo tra l’aggressore e la vittima.

Gli indicatori che si riscontrano nella persona vittima di violenza sono la perdita dell’identità e dell’autostima correlati a minacce, isolamento, perdita della rete amicale (il famoso vuoto attorno), silenzio, indifferenza, non soddisfare i bisogni essenziali, costringere alla dipendenza economica e/o all’assunzione di impegni finanziari, vietare o impedire il lavoro o la formazione, atteggiamenti che rendono possibile una sottomissione ad un modello di vita non profondamente condiviso né scelto e inducono la persona a subire conseguenze devastanti dall’interruzione violenta del proprio progetto di vita che viene praticamente annullato.

Accanto a queste manifestazioni ci sono poi gli episodi e/o i comportamenti reiterati a sfondo sessuale imposti contro la volontà del partner che comportano ogni forma di denigrazione sessuale sino allo stupro. Quando questi comportamenti si verificano all’interno di un nucleo convivente con figli minori si parla della “violenza assistita” che e’ un vero e proprio abuso.

Nel 1978 il Consiglio d’Europa  fornisce una definizione sostenendo che:

“l’abuso è rappresentato dagli atti e le carenze che turbano gravemente il bambino, che attengono alla sua incolumità corporea, al suo sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cure del bambino”.

Il genitore che si trova nelle condizioni di essere a sua volta maltrattato e/o in una condizione costante di infelicità e/o di incapacità a superare lo stallo conseguente all’”attacco” è un genitore che inevitabilmente coinvolge il bambino in situazioni assolutamente destabilizzanti perché diventa incomprensibile e non decodificabile il pati da un lato e il facere dall’altro. E’ ovvio che il danno del minore è un danno più forte perché interferisce con l’equilibrio psico-fisico e con la crescita serena.

Questi descritti sono “fatti” che incidono sulle relazioni familiari e sulle decisioni del giudice civile non necessariamente riconducibili ad ipotesi di REATO, gestiti il più delle volte dall’intervento di urgenza dei carabinieri, dei servizi o anche dai Centri Antiviolenza CAV.

 

Esiste pero un ALTRO TIPO di violenza meno eclatante, ma forse ancor più persistente e dannosa ed è quella che si può svolgere nel processo della separazione di genitori e/o di regolamentazione dell’accesso dell’altro genitore.

Le ipotesi sono quelle del genitore alienato, quello del genitore che abdica al proprio ruolo per un conflitto con l’altro, non esercitando a soddisfazione assistenza morale e materiale, non visitando adeguatamente il figlio, non trattenendolo presso di se, non avendo verso lo stesso un atteggiamento empatico e di lettura dei suoi bisogni.

Sembrano situazioni apparentemente opposte, ma in realtà producono lo stesso effetto e hanno la stessa matrice di violenza psicologica nella misura in cui, mettendo al centro il proprio conflitto e le proprie individualità, i genitori  isolano il figlio facendo in modo che lo stesso non possa considerarli punti di riferimento, ma in molti casi favorendo un inversione di ruoli (i figli protettivi, sostitutivi, consolatori che non hanno spazio per la loro crescita e per i loro percorsi).

I provvedimenti dall’ammonimento alla sanzione ed alle limitazioni della responsabilità genitoriale di cui all’art. 709 ter rispondono all’esigenza di “dissuadere” dall’ulteriore verificarsi della condotta pregiudizievole. In quest’ottica l’ulteriore applicazione delle sanzioni di cui al 614 c.c.

Tale norma è stata inserita dalla legge 69/2009 che ha previsto uno strumento di coercizione indiretta al fine di incentivare l’adempimento spontaneo degli obblighi che non risultano facilmente coercibili. La norma, infatti, prevede in capo al soggetto inadempiente l’obbligo di pagare una somma di denaro, al fine di indurlo a realizzare la sua obbligazione.

Il giudice, previa richiesta della parte, unitamente al provvedimento di condanna ad un fare o a un non facere, fissa una somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, al fine di esercitare una pressione psicologica sulla parte obbligata in modo tale da indurlo all’adempimento spontaneo.

Nel determinare la somma dovuta per ogni violazione, il giudice dovrà tenere conto di alcuni parametri come il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o quello prevedibile, le condizioni personali e patrimoniali delle parti, accanto ad ogni altra circostanza utile.

La giurisprudenza di merito piu’ recente ha ritenuto applicabile tale norma in materia di diritto di famiglia “con la precisazione che la tutela del superiore interesse del minore cui l’obbligo di cooperazione genitoriale e’ sotteso consente a differenza del procedimento esecutivo in cui e’ regolamentata l’attuazione di un diritto di credito per sua natura disponibile, l’applicabilita’ d’ufficio della sanzione volta sotto forma di dissuasione indiretta alla cessazione del protrarsi dell’inadempimento degli obblighi familiari che attesa la loro natura personale e indisponibile non sono di per se’ suscettibili di esecuzione diretta” In questi termini  Tribunale Milano sez. IX sent. 7/1/2018; Tribunale di Napoli Nord sez. 1 sent. 26-7-2017 Tribunale Roma sez. 1 sent. 27/06/2014 – Tribunale Napoli Nord  ord. 15/3/2018 –

Associare quindi la tutela delle donne e del minore all’interno della famiglia sembra essere la risposta più efficace ad un fenomeno purtroppo pericolosamente in crescita, iniziando dai bambini e quindi da una capacità educativa particolare.

Secondo l’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo l’educazione, oltre ad essere un diritto fondamentale è decisiva per il riconoscimento dei diritti civili, politici, economici, sociali, culturali e di solidarietà. E’ importante quindi, per educare ai diritti umani, rispettare questi diritti nella vita quotidiana.

La famiglia nelle diverse forme in cui si presenta è il contesto principale dei processi di socializzazione e di trasmissione culturale tra le generazioni. Da essa deriva qualsiasi forma di riproduzione culturale e le sono attribuite funzioni educative che contribuiscono in modo decisivo al processo di formazione della persona. La famiglia è il primo agente di controllo sociale che dovrebbe restringere le alternative di comportamento a quelle socialmente approvate.

Si parla di diritti RELAZIONALI perché attraverso l’educazione i minori possano entrare in contatto nel pieno rispetto con l’esterno da se e considerarlo parte della propria vita relazionale, declinando in quest’ottica la possibilità di contenere l’amore per il prossimo sia come individuo, sia nei contesti sociali in cui si esprime, affinando l’accoglienza, i comportamenti antidiscriminatori, il rispetto del diverso, perché attraverso la relazione e la partecipazione attiva possa allargare il proprio mondo interno.

L’ incidenza della capacità educativa di un genitore è non solo d’interesse pubblico per la formazione del nuovo cittadino, ma soprattutto deve tendere ad interrompere quei cicli disperati in cui un minore, soggetto anche indiretto di violenza, possa poi da adulto esprimere le stesse modalità danneggiando irreparabilmente la propria vita e perseguendo inesorabilmente un modello dal quale non sia stato aiutato ad affrancarsi.

Quindi il primo mezzo di tutela è l’EDUCAZIONE al rispetto di se’ e degli altri a riconoscere l’amore positivo attraverso l’esperienza di cura quando tutto questo per fatti assolutamente improvvisi, ma anche contenuti all’interno di uno spazio ben definito (quale quello della separazione) viene meno e’ compito delle istituzioni, dei servizi e di quant’0altri si impattino con il nucleo disagiato ad intervenire tempestivamente e con mezzi adeguati affinché le relazioni si curino e si riparino. L’intervento infatti in primis deve essere salvifico delle relazioni familiari, protettivo per conservare la propria identità e le proprie origini. Soltanto in un momento successivo, e all’esito di verifiche purtroppo non positive, si può pensare di interrompere la relazione genitoriale per dare al minore un’altra possibilità di crescita.

Il processo che vede coinvolto questo nucleo familiare,  NUCLEI DISAGIATI MA NON COLPEVOLI DI REATI, deve essere necessariamente sinergico con i servizi ed efficace nei provvedimenti e nei tempi perché il radicarsi di una condotta negligente e trascurante renderebbe vanifico/vano ogni provvedimento finale.

I mezzi di tutela nelle varie declinazioni (ordine di protezione, allontanamento del minore, percorsi di sostegno alla genitorialità, potere e discrezione del Centro antiviolenza) in uno alla giurisprudenza di legittimità e di merito che ne hanno sostenuto l’efficacia e ne hanno letto i limiti devono essere letti necessariamente in contemporanea all’esperienza sul territorio, ai dati che veramente emergono dai Tribunali, all’incidenza dei provvedimenti sul recupero e/o allo smarrimento esistenziale dei minori protagonisti di storie di dolore familiare.

Sarebbe interessante approfondire l’efficacia degli strumenti che il sistema ci offre per interrogarci e capire se all’interno di un mutato sistema di interazione di valori e di conoscenze essi siano ancora validi o se necessitano di una rilettura – pensavo ad esempio all’approvazione, ancora ritardata, dei LIVEAS come strumento di tutela del cittadino, alle linee guida approvate dall’Ordine Nazionale degli assistenti sociali e dalle Procure dei Tribunali per i Minori sull’allontanamento familiare e sulla necessità di informazione del Minore, ancora alla disciplina dei collocamenti in Casa Famiglia e ai criteri di individuazione delle stesse allorché un minore coinvolto in un conflitto familiare “viene messo in protezione” e per questo sradicato dal suo contesto amicale-relazionale e scolastico e ospitato in territori lontanissimi, costretto a cambiare tutte le sue abitudini di vita, ANCHE QUELLE SANE, anche quando il collocamento è solo temporaneo, sostenuto esclusivamente dall’organizzazione interna della struttura.

Accettare che qualsiasi provvedimento, anche quello cautelare, incidera’ sulla vita e sullo sviluppo del minore , orientera’ certamente ad evitare ricadute negative in termini dell’altro emergente fenomeno del maltrattamento istituzionale.

Nata a Napoli il 24/08/55 si e’ laureata in giurisprudenza nel 1982, presso l’Universita’ di Napoli,  discutendo una tesi finale sperimentale sull’imputabilita’ dei tossicodipendenti alla luce della L. basaglia.
Segue il corso biennale del CRF di animatore di comunita’ psichiatrica discutendo la tesi finale Il nuovo concetto di salute mentale.
Segue master Psicologia della comunicazione
Segue il corso seminariale biennale Mediazione familiare, conflittualita’ di coppia e responsabilita’ genitoriale presso l’Universita’ degli Studi di Napoli, discutendo la tesi finale La mediazione familiare, storia e modalita’ di approccio (2003)
Segue il master in diritto di famiglia presso il CEIDA in Roma e discute la tesi finale La genitorialita’ giuridica e le liberta’ fondamentali(2005).

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Articoli dell'Avvocato Errico

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MASSIME della Cassazione Penale

CASSAZIONE PENALE: annullamento senza rinvio

La Corte di cassazione pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio se ritiene superfluo il rinvio e se, anche all’esito di valutazioni discrezionali, può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati o sulla base delle statuizioni adottate dal giudice di merito, non risultando perciò necessari ulteriori accertamenti di fatto.

Cass. pen. Sez. Unite, 30/11/2017, n. 3464

 

CASSAZIONE PENALE: Motivi di ricorso
In tema di ricorso per cassazione in materia penale, ricorre il vizio della mancanza, della contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza se la stessa risulti inadeguata, nel senso di non consentire l’agevole riscontro delle scansioni e degli sviluppi critici che connotano la decisione, in relazione a ciò che è stato oggetto di prova, ovvero di impedire, per la sua intrinseca oscurità ed incongruenza, il controllo sull’affidabilità dell’esito decisorio, sempre avendo riguardo alle acquisizioni processuali ed alle prospettazioni formulate dalle parti.

Cass. pen. Sez. V, 12/12/2017, n. 5180

 

CASSAZIONE PENALE: motivazione sentenza impugnata

Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata

Cass. pen. Sez. V, 04/12/2017, n. 5175

 

CASSAZIONE PENALE: misure cautelari reali motivi di ricorso
In tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge”, per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art.325, comma 1, c.p.p., rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice.

Cass. pen. Sez. III, 05/12/2017, n. 272

 

MARCHI: Contraffazione ed usurpazione del marchio

In materia di contraffazione di marchi e segni distintivi, non ricorre l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità di inganno dei consumatori. Il delitto di cui all’art.474 c.p., invero, è reato di pericolo, per la cui configurazione non serve la realizzazione della lesione del consenso negoziale dell’acquirente.

Cass. pen. Sez. II, 05/12/2017, n. 55079

 

MISURE DI PREVENZIONE: necessità dell’attualità della pericolosità sociale
Nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali agli indiziati di “appartenere” ad una associazione di tipo mafioso, è necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto (In motivazione la Corte ha precisato che solo nel caso in cui sussistano elementi sintomatici di una “partecipazione” del proposto al sodalizio mafioso, è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità). (Annulla con rinvio, App. Reggio Calabria, 01/04/2016)

Cass. pen. Sez. Unite, 30/11/2017, n. 111.

 

ARRESTO IN FLAGRANZA: esclusioni.

Lo stato di “quasi flagranza” non sussiste nell’ipotesi in cui l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte della vittima o di terzi, dovendosi in tal caso escludere che gli organi di polizia giudiziaria abbiano avuto diretta percezione del reato.

Cass. pen. Sez. IV, 30/11/2017, n. 39

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Mantenimento e spese straordinarie per i figli: le Linee Guida

Le Linee Guida del CNF e della Corte di Appello di Milano in materia di spese straordinarie. La fine di un conflitto?

Con la riforma del titolo IX capi I e II del primo libro del Codice Civile, il legislatore italiano è intervenuto nel modificare la materia dei rapporti di filiazione cancellando la figura del genitore affidatario in via esclusiva ed introducendo il principio della natura “meramente perequativa” dell’assegno di mantenimento, allo scopo di garantire la c.d. bigenitorialità posta a base dell’affidamento condiviso. Un aspetto che da sempre è stata foriero di discussioni giurisprudenziali e motivo di conflitto tra i coniugi è la questione relativa alle spese di mantenimento ordinario e straordinario, riguardo alla natura delle stesse ed alle modalità dell’esborso.

Ed è all’interno di tale diatriba che si inserisce il documento elaborato da CNF, così come quello della Corte d’Appello di Milano, con i quali si è cercato di fare chiarezza e di tracciare delle linee guida, appunto, per gli operatori del diritto coinvolti nelle vicende che seguono la crisi di un rapporto familiare.

Punto di riferimento imprescindibile sono gli  artt. 316 bis e 337 ter del Codice Civile che pongono come prioritario il perseguimento del benessere della prole minore o non autosufficiente.

Dunque, come noto, oltre alle spese ordinarie che attengono alla gestione quotidiana gestione dei compiti di cura, educazione e istruzione, va sempre affiancata la previsione di un’equa ripartizione delle spese straordinarie.

Queste ultime, solitamente, presuppongono un esborso più ingente rispetto all’assegno di mantenimento omnicomprensivo delle spese ordinarie e dunque, nel momento il cui il giudice ne determina la misura della contribuzione, è tenuto ad applicare il principio della natura perequativa dell’assegno di mantenimento ex art. 337 ter, IV comma c.c. in forza del quale ciascun genitore partecipi al mantenimento dei figli ed i genitori in modo proporzionale alle proprie risorse.

In merito all’obbligo di contribuzione il documento della Corte d’Appello di Milano assume una posizione più esplicita, affermando “il potere – dovere del genitore di cura degli interessi del figlio, contribuendo economicamente alla sua protezione, educazione ed istruzione, in continuità con quanto già accadeva prima della crisi familiare”.

Dunque, la contribuzione alle spese per le esigenze ordinarie della vita del minore (vitto giornaliero, mensa scolastico, canone di locazione, utenze e consumi, abbigliamento ordinario, compresi cambi di stagione, per la cancelleria scolastica ricorrenti nell’anno e l’acquisto di medicinali) si realizza mediante il versamento dell’assegno di mantenimento al genitore collocatario.

Mentre i versamenti aggiuntivi per le spese straordinarie si distinguono in diverse tipologie a seconda che siano “obbligatorie” – ossia quelle per le quali non è richiesta una previa concertazione – e quelle che sono subordinate al consenso di entrambi i genitori.

In via generale, nella giurisprudenza di legittimità si è consolidato il principio per cui non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese ordinarie, trattandosi di decisione di maggiore interesse per il figlio. A ciò consegue, pertanto, che sussiste a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.

Nelle ipotesi di mancata concertazione preventiva o successivo rifiuto al rimborso per la propria parte, spetta al giudice verificare se la spesa è stata effettuata nell’interesse del figlio ed alla successiva commisurazione rispetto alla utilità e sostenibilità della stessa in relazione alle condizioni economiche dei genitori.

L’importanza delle Linee Guida sta nell’aver definito preventivamente la natura delle spese extra sulla scorta di quanto canonizzato dalla giurisprudenza.

La Corte d’Appello di Milano, inoltre, individua un principio più generale per cui le spese extra sono tutte quelle che presentano almeno uno dei tre requisiti: voluttuarie (dato funzionale), occasionali (dato temporale) o gravose (dato quantitativo). Ulteriore requisito è che siano debitamente documentate.

A questo punto, si distinguono:

  • Le spese extra assegno obbligatorie, per le quali non è richiesta la previa concertazione e vengono individuate in: libri scolastici, spese sanitarie urgenti, spese per interventi chirurgici indifferibili sia presso strutture pubbliche che private, acquisto di farmaci prescritti ad eccezione di quelli da banco, spese ortodontiche, oculistiche e sanitarie effettuate tramite il SSN in difetto di accordo sulla terapia con specialista privato, spese protesistiche, spese di bollo ed assicurazione per il mezzo di trasporto quando acquistato con l’accordo di entrambi i genitori.
  • Le spese extra assegno, subordinate al consenso di entrambi i genitori: 1) scolastiche: iscrizioni e rette di scuole private, iscrizioni, spese ed eventuali spese alloggiative, ove fuori sede, di università pubbliche e private, ripetizioni, frequenza del conservatorio o scuole formative, spese per la preparazione di esami di abilitazione o alla preparazione di concorsi, viaggi di istruzione organizzati dalla scuola, soggiorni all’estero per motivi di studio, corsi di apprendimento per le lingue straniere (…); 2) spese di natura ludica o parascolastica: centri estivi, corsi di informatica, viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente senza i genitori, spese di acquisto e manutenzione straordinaria di mezzi di trasporto, conseguimento della patente presso autoscuola private; 3) spese sportive: attività sportiva comprensiva dell’attrezzatura e di quanto necessario per lo svolgimento dell’eventuale attività agonistica; 4) spese medico sanitarie: spese per interventi chirurgici, spese odontoiatriche, oculistiche e sanitarie non effettuate tramite SSN, spese mediche e di degenza per interventi presso strutture pubbliche o private convenzionate, esami diagnostici, analisi cliniche, visite specialistiche, cicli di psicoterapia e logopedia; 5) organizzazione di ricevimenti, celebrazione e festeggiamenti dedicati ai figli.

Il CNF ha, infine, stabilito che per le spese straordinarie per le quali è prevista la concertazione, il genitore manifesta la propria volontà con formale richiesta scritta avanzata all’altro (a mezzo sms, email, fax, pec, ecc…) che, a sua volta, dovrà manifestare un motivato dissenso, sempre per iscritto, entro venti giorni dalla data di ricevimento della richiesta in quanto, in caso di mancata risposta, il silenzio viene considerato come consenso. Per ottenere il rimborso della quota il genitore che ha anticipato la spesa è tenuto ad esibire e consegnare idonea documentazione entro un mese dalle stesse mentre il genitore che è tenuto al rimborso deve provvedere entro un mese dalla richiesta.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Privilegio dei crediti degli agenti costituiti in forma societaria in sede concorsuale

Agenti, sì alla concessione del credito in privilegio alle società di persone

 

Le SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza depositata il 16 dicembre 2013, hanno risolto un contrasto giurisprudenziale su una materia molto sentita dagli agenti.

Le pronunzie anche del giudice di legittimità, difatti, erano sempre state ondivaghe tra il doversi concedere il privilegio o meno ai crediti degli agenti costituiti in forma societaria per le provvigioni dell’ultimo anno del rapporto e per le indennità di fine rapporto.

L’articolo 2751 bis del c.c., difatti, al punto 3, prevede che detti crediti degli agenti beneficiano, nelle procedure concorsuali delle mandanti, quindi in ipotesi di fallimento o di concordato delle stesse, del privilegio, con preferenza quindi rispetto al soddisfacimento dei crediti chirografari.
Nonostante la nota sentenza della Corte Costituzionale del 2000 già di tenore negativo per gli agenti costituiti in forma di società di capitale e cioè s.r.l. e S.p.A. il giudice, ripetesi, anche quello di legittimità, alcune volte aveva affermato il principio che non bisognasse fare distinzione tra agente costituito in forma di ditta individuale da un lato e agente costituito in forma societaria dall’altro.

Con la pronunzia delle SS.UU. accennata sopra, l’assestamento è definitivo perlomeno su un lungo periodo, sino a eventuale nuovo indirizzo. Esse hanno statuito che ai crediti degli agenti costituiti in forma di società di capitale non va riconosciuto il privilegio, bensì solo l’inserimento nel ceto chirografario nelle procedure concorsuali delle loro preponenti.

Hanno contestualmente statuito che ai crediti delle agenzie costituite in forma di società di persone, va, invece, riconosciuto il privilegio in sede fallimentare.

L’esigenza di rappresentare tanto al fine di far porre attenzione a tutti gli agenti al riguardo invitandoli a considerare questo aspetto, di non poco conto, specie visti i tempi che viviamo laddove sono sempre di più le mandanti che arrivano allo stato di dissesto.

E’ appena il caso di ricordare come solo per i crediti privilegiati spesso vi sono speranze di soddisfazione totale o parziale, mentre per i crediti ammessi in chirografo le speranze sono pressoché nulle o scarse se non limitatamente, in casi fortunati, ad una soddisfazione parzialissima.
Nel costituire o modificare quindi la forma societaria con cui si opera, gli agenti costituiti in forma di società di capitale valutino con attenzione anche questa non trascurabile evenienza e considerino, assieme ovviamente a tutte le altre emergenze peculiari della propria attività, il caso di operare tramite altre forme societarie, come ad esempio quello della s.a.s., semmai trasformando la loro s.r.l. per non perdere il diritto alla eventuale indennità di fine rapporto maturata.

Pur non entrando troppo in tecnicismi della pronuncia delle SS.UU., viene qui sintetizzata la motivazione per far comprendere come la Cassazione è arrivata alla decisione.

Già da tempo la Cassaz. aveva esattamente individuato la ratio dell’art. 2751 bis, a seguito del suo inserimento nel codice ad opera della L. n. 426 del 1975, art. 2.

Infatti, ad esempio, la sentenza n° 8979 del 1993, aveva affermato che i limiti previsti dall’art. 2751 bis, anche alla luce dei lavori preparatori della citata L. n. 426 del 1975, nonché del raffronto con le altre ipotesi contemplate dai nn. 1-4 (crediti del lavoratore subordinato od autonomo, dell’agente, del coltivatore, ecc.), evidenziavano che obiettivo della norma era quello di assegnare un trattamento preferenziale ai diritti che avevano natura di compensi di attività sostanzialmente lavorative, in quanto frutto prevalentemente dell’esplicazione delle risorse fisiche od intellettuali di una persona, od anche di più persone, inserite e coordinate in una determinata struttura organizzativa, cioè quella societaria (cfr. Cass. n° 5640 del 21/10/1980).

Comparando tale motivazione con quella della Corte  Cost.le nella sentenza n. 1/2000 (che aveva denegato il privilegio alle società di capitali sia pure in fattispecie diverse dall’agenzia), sembrava però difficile contestare che la ratio dell’art. 2751 bis c.c. fosse comunque quella di riconoscere il privilegio ai crediti derivanti da prestazioni di attività lavorative subordinate o autonome, destinate direttamente al sostentamento del lavoratore.

Questa linea interpretativa, fondata sulla così individuata ratio della novella del 1975 (che richiama anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 2000), è stata sostanzialmente seguita da molte pronunce successive alla sentenza costituzionale, sia pure anche emesse in fattispecie diverse dall’agenzia, nelle quali, conformemente a detta ratio, i criteri per il riconoscimento della prelazione ai crediti considerati da tale articolo discendono sempre da applicazioni specifiche del principio costituzionale di tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”, di cui all’art. 35 Cost , che – com’è noto – si riferisce non soltanto al lavoro subordinato, tipico od atipico, ma anche a quello parasubordinato ed a quello non subordinato (professionisti, artigiani, componenti di imprese familiari, soci di cooperative, ecc.), come pure, nei casi dubbi, il criterio della “prevalenza” o della “preminenza”  del fattore lavoro rispetto al capitale.

Per contro – quantomeno in linea generale -, nelle società di capitali, le somme che rappresentano il corrispettivo dell’attività prestata (nella specie, provvigioni e indennità di fine rapporto per lo svolgimento dell’attività di agenzia) spettano alla società e non al socio e costituiscono non già un compenso del lavoro prestato ma una eventuale remunerazione del capitale conferito, sicchè le provvigioni spettanti a società siffatte, che esercitino l’attività di agente, risolvendosi in “utili” di tale attività di impresa, sono crediti estranei rispetto alla complessiva ratio giustificatrice della prelazione riconosciuta dall’art. 2751 bis c. c. n. 3.

A conclusione di tale ragionamento le SS.UU. hanno enunciato il principio di diritto che la disposizione, di cui all’art. 2751 bis c.c. n° 3, secondo la quale “hanno privilegio generale sui mobili i crediti riguardanti: … 3) le provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia dovute per l’ultimo anno di prestazione e le indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo” -, deve essere interpretata, in conformità con l’art. 3 Cost., ed in sintonia con la ratio dello stesso art. 2751 bis c.c., nel senso che il privilegio dei crediti ivi previsto non assiste i crediti per provvigioni spettanti alla società di capitali che eserciti l’attività di agente.

 

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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MASSIME in tema di Agenzia

Cass. Civ. Sez. lavoro Sent., 24-07-2007, n. 16347

AGENZIA (CONTRATTO DI) – SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO – INDENNITÀ – IN GENERE – Indennità di cessazione del rapporto – Criteri di determinazione

In relazione ai criteri di quantificazione dell’indennità in caso di cessazione del rapporto di agenzia, l’art. 17 della direttiva 86/653/CEE del Consiglio del 18/12/’86, relativa al coordinamento del diritto degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti – come interpretato dalla sentenza della Corte di giustizia Cee, 23/3/’06, in causa C-465/04 – non impone un calcolo analitic0, bensì consente l’utilizzo di metodi di calcolo diversi e, segnatamente, di metodi sintetici, che valorizzino più ampiamente il criterio dell’equità e, quale punto di partenza, il limite massimo di un’annualità media di provvigioni previsto dalla direttiva medesima. Ne consegue che l’art. 1751 cod. civ. deve interpretarsi nel senso che l’attribuzione dell’indennità è condizionata alla permanenza, per il preponente, di vantaggi derivanti dall’attività di promozione degli affari compiuta dall’agente, e anche alla rispondenza ad equità dell’attribuzione, in considerazione delle circostanze del caso concreto ed in particolare delle provvigioni perse da quest’ultimo.        

FONTI Mass. Giur. It., 2007;CED Cassazione, 2007

                  

Cass. Civ. Sez. lavoro Sent., 05/09/2007, n. 18586

AGENZIA  (CONTRATTO DI)  PROVA IN GENERE (MAT. CIV.)
Esibizione di documenti

L’art. 1749 cod. civ., nel testo modificato dall’art. 2 del d.lgs. n.303 del 1991, ha riconosciuto il diritto dell’agente di esigere che gli siano fornite tutte le informazioni, in particolare un estratto dei libri contabili, necessarie per verificare l’importo delle provvigioni liquidate. Conseguentemente, in relazione a tale precisa garanzia normativa, non appare conforme a diritto la reiezione, come nella specie, dell’istanza dell’agente mirante, indipendentemente dall’espletamento di consulenza tecnica, all’acquisizione della documentazione in possesso solo del preponente, indispensabile per sorreggere, sul piano probatorio, attraverso precisi dati quantitativi, l’allegazione relativa all’aumento del numero dei clienti e del volume degli affari nel corso degli anni; né è imputabile alla parte la carenza di indicazione di tali dati quantitativi, derivando dall’inadempimento dell’obbligo di informazioni posto dalla legge a carico del preponente.                                     

FONTI Mass. Giur. It., 2007;CED Cassazione, 2007; Impresa, 2007, 10, 1416 RIFERIMENTI NORMATIVI CC Art. 1749 CPC Art. 210 DLT 10/09/1991, n. 303, art. 2
Conformi : Cass. civ. Sez. I, 17/1/’06, n. 789 V. anche: Cass. civ. Sez. lavoro, 22/11/’03, n. 17762

   

TRIBUNALE DEL LAVORO DI NAPOLI G.L. D.ssa SCELZA                                                                         Sent. n° 18652 del 20.6.2006   All’agente spetta il danno in seguito al comportamento non collaborativo della preponente

All’agente è dovuto il risarcimento del danno perchè: a) il rapporto si è risolto per esclusiva colpa della società preponente; b) per il fatto che la società preponente non inviava gli estratti conto e le fatture clienti. c) per aver consegnato all’agente un campionario scadente con prodotti spesso afflitti da vizi e difetti. d) perché affidava lo stesso campionario ad altro agente nella zona di competenza dell’agente. II danno è stato quantificato in via equitativa. Non è stato concesso il danno biologico non perché non dovuto ma, secondo il giudice, non provato sufficientemente il nesso di causalità tra patologia e comportamento della preponente.

                          

Cass. civ., Sez. lavoro, 29/12/1990, n. 12223

I.R.R. INDENNITA’ RISOLUZIONE CONTRATTO

AGENZIA (CONTRATTO DI)

E’ dovuta (PRO MANIBUS ALL’AGENTE) l’indennità di scioglimento del contratto, che è dovuta – in tutto od in parte – dal preponente, ove il medesimo non abbia provveduto a versare all’Enasarco, per l’accreditamento sul conto dell’agente, tenendo conto che è onere del proponente – il quale eccepisca essere tale indennità dovuta dall’Enasarco – provare di aver regolarmente assolto al suddetto obbligo contributivo.

FONTE Mass. Giur. It., 1990

 

 Trib. Bari Sez. II, 04/07/2012

AGENZIA (CONTRATTO DI)

In seno al contratto di agenzia, ai fini dell’accoglimento della domanda di pagamento delle provvigioni maturate in favore dell’agente, è necessario che siano indicati in maniera idonea e sufficiente a consentirne l’identificazione, i contratti che l’agente assume siano stati conclusi per il suo tramite, non potendosi considerare assolto l’onere probatorio dalla mera produzione degli ordini raccolti. Ai sensi dell’art. 1749 c.c., infatti, il diritto dell’agente alla provvigione per la conclusione degli affari che non abbiano avuto esecuzione per causa imputabile al preponente, presuppone l’effettiva conclusione del contratto. Ne deriva che non sussiste il diritto alla provvigione nel caso in cui la proposta dell’agente non sia stata seguita dall’accettazione del preponente il quale, nell’esercizio della libertà di impresa, non è vincolato dall’attività dall’agente e può legittimamente rifiutare le proposte salvo che tale rifiuto sia pregiudiziale e sistematico.

FONTI Dir. e Pratica Lav., 2013, 11, 737

                                  

Corte di Giustizia UE

L’agente ha diritto all’indennità di clientela se l’inadempimento è avvenuto dopo il recesso
Direttiva 86/653/CEE – Agenti commerciali indipendenti – Scioglimento del contratto di agenzia da parte del preponente – Diritto dell’agente ad un’indennità

L’art. 18, lett. a), della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, osta a che un agente commerciale indipendente venga privato della sua indennità di clientela qualora il preponente dimostri l’esistenza di un inadempimento di tale agente, verificatosi dopo la notifica del recesso dal contratto mediante preavviso e prima della scadenza di quest’ultimo, che avrebbe potuto giustificare un recesso immediato dal contratto in parola.

Sent. 465 c- 04 del 23/3/’06

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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MASSIME della Cassazione Penale

ART.572 C.P.: MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

 Il reato di maltrattamenti  integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), idonei a cagionare nella vittima durevoli sofferenze fisiche e morali.

Cass. pen. Sez. III, 21/02/2017, n. 16543

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il delitto previsto dall’art.572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza.

Cass. pen. Sez. VI, 08/02/2017, n. 10901

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il delitto di maltrattamenti è una fattispecie necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.

Cass. pen. Sez. VI, 06/04/2016, n. 24375

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: Elemento oggettivo (materiale) della condotta.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche da atti non costituenti in sè reato,  del resto, anche semanticamente, il termine “maltratta” non evoca in sè la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all’art.572 c.p.  (per questa affermazione cfr. Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013, P., Rv.256962; per interessanti fattispecie applicative, v. Sez. 2, n. 10994 del 06/12/2012, dep. 2013, T., Rv. 255175, nonchè Sez. 6, n. 8396 del 07/06/1996, Vitiello, Rv. 205563).

Cass. pen. Sez. VI, 10/03/2016, n. 13422.

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

La condotta di maltrattamenti contro familiari o conviventi può consistere anche nella privazione pressoché totale del sostegno economico ai danni della persona offesa, a maggior ragione se unita ad ulteriori condotte vessatorie di altro genere. Non può invece rientrare nella fattispecie di cui all’art.572 c.p. la costrizione del coniuge al rapporto sessuale: il rapporto di coniugio non comporta alcun diritto a pretenderne la consumazione contro la volontà del consorte, ragion per cui il predetto comportamento integra pienamente il delitto di violenza sessuale ex art.609 bis c.p.

Cass. pen. Sez. III, 19/01/2016, n. 18937

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti.

Cass. pen. Sez. VI, 28/06/2017, n. 40959

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: DICHIARAZIONI DELLA PERSONA OFFESA

Le regole dettate dall’art.192, comma 3, c.p.p., non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Nel reato di maltrattamenti di cui all’art.572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari. Nel reato abituale il dolo non richiede infatti – a differenza che nel reato continuato – la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice.

Cass. pen. Sez. VI, 06/10/2017, n. 49997

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Nel reato di maltrattamenti familiari possono essere riconosciute le attenuanti generiche di cui all’art.62 bis c.p. ai genitori che, per la loro inadeguatezza etno-culturale, ritengono consentite punizioni corporali sul figlio minore che nel Paese di origine (Marocco) non costituiscono illecito, allorquando la loro incapacità culturale non gli ha permesso di rendersi conto della patologia diagnosticata al figlio stesso a causa dei loro atti, nonché per la loro incapacità di gestirne i suoi comportamenti oppositivi e provocatori (ricondotti, pur sbagliando, ad aspetti caratteriali) che si proponevano di contenere con metodi non certamente consentiti ed erroneamente ritenuti educativi.

Cass. pen. Sez. VI, 15/02/2017, n. 10906

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: INCONFIGURABILITA’

In un contesto familiare di continua conflittualità, ove alla veemenza verbale ed alla collera del marito la moglie risponde con capacità reattiva e non con un supino atteggiamento, non può configurarsi il delitto di maltrattamenti in famiglia.

Cass. pen. Sez. VI, 13/11/2015, n. 5258

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: INCONFIGURABILITA’

Le condotte criminose poste in essere nei confronti del familiare convivente integranti percosse ed umiliazioni in danno del medesimo, ma prive del connotato dell’abitualità, in quanto verificatesi nell’ambito di un rapporto conflittuale, e di volta in volta commesse quale (abnorme) reazione occasionata da specifici comportamenti posti in essere dalla vittima, e, dunque, non come espressione della volontà di determinare in questa un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita, non risultano sussumibili nel reato di maltrattamenti in famiglia, ma integrano distinti episodi autonomamente rilevanti (nella specie di percosse, di lesioni, ed eventualmente di diffamazione, tuttavia non perseguibili per difetto o rimessione accettata di querela).

Cass. pen. Sez. VI, 19/04/2017, n. 27088

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: Rapporti familiari di fatto – Cessazione della convivenza – Configurabilità del reato – Condizioni – Ragioni

In tema di reati contro la famiglia, è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. Peraltro, il reato persiste anche in caso di separazione legale, tenuto conto del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dall’obbligo di convivenza e di fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, atteso che la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie incriminatrice di cui all’art.572 c.p., la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività vessatoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque dipendente.

Cass. pen. Sez. VI, 13/12/2017, n. 3356

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il delitto di cui all’art.572 c.p. sussiste in caso di reiterate condotte vessatorie poste in essere in costanza di separazione legale o di fatto, in presenza della quale persistono i doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarietà sociale sorti dal rapporto coniugale.

Cass. pen. Sez. VI, 01/02/2017, n. 10932

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

In tema di reato di maltrattamento, la cessazione della convivenza da parte di un uomo – non legato con la donna maltrattata da rapporto di coniugio – non consente di qualificare la prosecuzione della condotta persecutoria nell’ambito del reato di cui all’art.572 c.p., dovendosi tale parte della condotta qualificare nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 612 bis, comma 2, c.p..  (Ferma l’eventualità ben possibile di un concorso apparente di norme che renda applicabili (concorrenti) entrambi i reati di maltrattamenti e di atti persecutori, il reato di cui all’art. 612 bis c.p. diviene idoneo a sanzionare con effetti diacronici comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulerebbero dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale. Ciò che può valere, in particolare (se non unicamente), in caso di divorzio o di “relazione affettiva” definitivamente cessata, giacchè anche in caso di separazione legale (oltre che di fatto) questa S.C. ha affermato la ravvisabilità del reato di maltrattamenti, al venir meno degli obblighi di convivenza e fedeltà non corrispondendo il venir meno anche dei doveri di reciproco rispetto e di assistenza morale e materiale tra i coniugi (cfr.: Cass. Sez. 5, 1.2.1999 n. 3570, Valente, rv. 213515; Cass. Sez. 6,27.6.2008 n. 26571, rv. 241253) (conforme Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A., Rv. 267942)).

Cass. pen. Sez. VI, 27/06/2017, n. 35673

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il reato di maltrattamenti in famiglia si configura anche a seguito della cessazione della convivenza e in presenza della separazione, qualora l’attività persecutoria si contestualizzi in ambito familiare. Ciò in quanto, il vincolo coniugale non viene meno con la separazione legale, ma si attenua soltanto, posto che rimangono integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione tra coniugi. Ne discende che laddove la condotta criminosa incida sui rapporti familiari, la separazione non esclude il reato di cui all’art.572 c.p.

Cass. pen. Sez. II, 05/07/2016, n. 39331

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

La cessazione della convivenza non esclude, per ciò stesso, la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della coppia quando il rapporto personale di fatto sia stato il risultato di un progetto di vita fondato sulla reciproca solidarietà ed assistenza, la cui principale ricaduta non può che essere il derivato rapporto di filiazione.

Cass. pen. Sez. VI, 20/04/2017, n. 25498

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la permanenza del complesso di obblighi verso il figlio implica il permanere in capo ai genitori, che avevano costituito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e di reciproco rispetto). (Rigetta, App. Ancona, 04/07/2016)

Cass. pen. Sez. VI, 20/04/2017, n. 25498.

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: “mobbing” – Configurabilità del reato – Condotta del datore di lavoro attuata con modalità vessatorie verso il dipendente – Configurabilità del reato di cui all’art.572 c.p. e/o del reato previsto e punito dall’art.571 c.p. – Differenze.

In tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art.571 c.p. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art.572 c.p. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (nella specie, lancio di oggetti verso il dipendente e imposizione di stare seduto per lungo tempo davanti alla scrivania del datore di lavoro senza svolgere alcuna funzione). Integra il delitto di cui all’art.572 c.p. la realizzazione, da parte del datore di lavoro, di pratiche persecutorie realizzate in un contesto lavorativo caratterizzato da parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro, di abitudini di vita proprie e fisiologiche alle comunità familiari per la stretta comunanza di vita, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.

Cass. pen. Sez. VI, 28/09/2016, n. 51591

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di una funzionaria comunale). (Rigetta, App. Palermo, 09/01/2013).

Cass. pen. Sez. VI, 19/03/2014, n. 24642 (rv. 260063)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche vessatorie realizzate ai danni di un lavoratore dipendente al fine di determinare l’emarginazione (cd. mobbing), anche dopo le modifiche apportate dalla legge 172 del 2012, possano integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia soltanto quando s’inquadrino nel contesto di un rapporto che – per le caratteristiche peculiari della prestazione lavorativa ovvero per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro – comporti relazioni intense e abituali, una stretta comunanza di vita ovvero una relazione di affidamento del soggetto più debole verso quello rivestito di autorità, assimilabili alle caratteristiche proprie del consorzio familiare. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la sussistenza del delitto in parola, per essersi verificate le condotte vessatorie nel contesto di un’articolata realtà aziendale, caratterizzata da uno stabilimento di ampie dimensioni e da decine di dipendenti sindacalizzati). (Annulla senza rinvio, App. Milano, 13/03/2013).

Cass. pen. Sez. VI, 05/03/2014, n. 13088 (rv. 259591)

 

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di cui all’art.572 c.p., anche nel testo modificato dalla legge n.172 del 2012 esclusivamente se, il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Nella specie, la Corte pur escludendo la configurabilità del delitto di maltrattamenti, ha annullato con rinvio la sentenza assolutoria perché il giudice valutasse se i disturbi ansioso-depressivi lamentati dalla vittima potessero integrare il delitto di lesioni personali). (Annulla ai soli effetti civili, App. Milano, 02/10/2012)

Cass. pen. Sez. VI, 28/03/2013, n. 28603 (rv. 255976)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un ATER nei confronti di una dipendente). (Annulla in parte senza rinvio, App. L’Aquila, 25/11/2010)

Cass. pen. Sez. VI, 11/04/2012, n. 16094 (rv. 252609)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

 Il delitto di maltrattamenti può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. (Annulla senza rinvio, App. Lecce, 08/01/2010)

Cass. pen. Sez. VI, 28/03/2012, n. 12517 (rv. 252607)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi in una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare. (Fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell’ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del reato previsto dall’art.572 c.p.). (Annulla con rinvio, Ass. App. Salerno, 06/10/2010)

Cass. pen. Sez. VI, 10/10/2011, n. 43100 (rv. 251368)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la sussistenza del reato in relazione alle vessazioni subite dalla dipendente ad opera di un dirigente di un’ azienda di grandi dimensioni). (Rigetta, App. Torino, 31 gennaio 2006)

Cass. pen. Sez. VI, 06/02/2009, n. 26594 (rv. 244457)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art.572 c.p., l’esistenza, in una casa di cura e ricovero per anziani, di un generalizzato clima di sopraffazione e violenza nei confronti degli assistiti non esime dalla rigorosa individuazione dei distinti autori delle varie condotte, in quanto il carattere personale della responsabilità penale impedisce che il singolo addetto, in mancanza di addebiti puntuali che lo riguardano, possa essere chiamato a rispondere, sia pure in forma concorsuale, del contesto in sé considerato, anche nel caso in cui da tale contesto egli tragga vantaggio. (Annulla senza rinvio, Trib. lib. Brescia, 22/09/2015)

Cass. pen. Sez. VI, 10/12/2015, n. 7760 (rv. 266684)

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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CASSAZIONE CIVILE, SEZ. UNITE, 20 SETTEMBRE 2017, N.21854

FATTO E DIRITTO

Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ha chiesto tra numerosi punti se il Giudice del Tribunale di Salerno con provvedimento 19-20 settembre 2013 – ed anche con altri provvedimenti successivi- ha ritenuto che con riferimento  agli effetti sul procedimento di esecuzione forzata, il provvedimento favorevole reso dal pubblico ministero, ai sensi della L.44 del 1999, art.20 comma 7, come modificato dalla Ln.3 del 2012, art. 2 costituirebbe “condizione necessaria ma non sufficiente ai fini della sospensione del procedimento esecutivo, rientrando per sempre nella sfera delle competenze istituzionali del giudice dell’esecuzione il potere di valutare la sussistenza dei presupposti per la sua sospensione”

In presenza di un simile provvedimento la parte istante, cioè il debitore, evidentemente di esso beneficiario, avrebbe potuto reagire e, quindi, sollecitare una ridiscussione della questione:

  • o impugnando il provvedimento ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ., cioè con opposizione agli atti esecutivi, siccome incidente sul quomodo dell’esecuzione per il tramite del rifiuto di dar corso degli effetti del provvedimento sulla “sospensione” di cui al comma 7;
  • ovvero alternativamente, pur in presenza dell’espressa esclusione, da parte del giudice dell’esecuzione, che l’istanza fosse stata introduttiva di un’opposizione ai sensi dell’art. 615 o 617 cod. proc. civ. e, dunque, della sua fase sommaria, siccome individuata dai paradigmi degli artt. 616 e 618 cod. proc. civ.:  reclamare comunque al Collegio ai sensi dell’art. 624, secondo e quarto comma, cod. proc. civ., sostenendo il contrario e, quindi, introdurre, dopo la decisione sul reclamo, la fase di merito di una di dette opposizione, secondo un’opzione ammessa dalla giurisprudenza di questa Corte (a partire da Cass. (ord.) n. 22033 del 2011); introdurre questa fase senza reclamare (sempre secondo quella opzione).

Per quanto attiene ai due provvedimenti, sempre del Tribunale di Salerno, ma in composizione collegiale, che risultano emessi in sede di reclamo ai sensi dell’art. 624 cod. proc. civ., si rileva che:
–  in uno di essi il reclamo è stato dichiarato inammissibile – dopo che il Tribunale ha motivato la tesi della vincolatività del provvedimento prefettizio, espressamente dichiarato doversi prendere atto dello stesso e, quindi della sospensione dei termini – perché il provvedimento reclamato, con cui il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di sospensione dalla debitrice esecutata, aveva invece escluso invece quella vincolatività, non sarebbe stato riconducibile all’ambito dell’art. 624 cod. proc. civ., ma sarebbe stato solo un provvedimento di quel giudice sull’esecuzione, come tale suscettibile di opposizione ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ.;
– nell’altro provvedimento, invece, risultando negata dal giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza reclamata, la vincolatività dell’effetto del provvedimento del Pubblico Ministero in un giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., il Tribunale salernitano, ribadendo l’avviso contrario al riguardo, ha accolto il reclamo e dichiarato l’intervenuta sospensione degli atti esecutivi.

Mentre nel primo caso, l’indicazione come mezzo di impugnazione dell’opposizione agli atti, avrebbe implicato la possibilità di introduzione ad iniziativa della parte interessata di un simile giudizio sull’assunto che comunque l’originaria istanza integrava quell’opposizione, nel secondo, essendo pacifico che l’istanza era stata proposta in seno ad un giudizio ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., parimenti si sarebbe potuto introdurre il giudizio a cognizione piena.

In conclusione, la Suprema Corte sancisce che i giudici di merito avrebbero dovuto attenersi ai seguenti principi di diritto:
“Il Giudice dell’esecuzione cui sia stato trasmesso il provvedimento del Pubblico Ministero che, sulla base dell’elenco fornito dal prefetto, dispone la “sospensione dei termini” di una procedura esecutiva a carico del soggetto che ha chiesto l’elargizione di cui alla L. n. 44 del 1999, non può sindacare Né la valutazione con cui il Pubblico Ministero ha ritenuto sussistente il presupposto della provvidenza sospensiva, Né l’idoneità della procedura esecutiva ad incidere sull’efficacia dell’elargizione richiesta dall’interessato.
Spetta invece al Giudice dell’esecuzione sia il controllo della riconducibilità del provvedimento del Pubblico Ministero alla norma sopra citata, sia l’accertamento che esso riguarda uno o più processi esecutivi pendenti dinanzi al suo ufficio, sia la verifica che nel processo esecutivo in corso o da iniziare decorra un termine in ordine al quale il provvedimento di sospensione possa dispiegare i suoi effetti”.

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Cassazione civile , 27 febbraio 2013, n.4847, sez. un.

Al coniuge superstite spettano sempre i diritti d’uso e di abitazione sulla casa familiare

Successione legittima e necessaria – Successione del coniuge superstite – Diritto di abitazione e di uso spettanti al coniuge del de cuius ex art. 540, comma 2, c.c. – Successione legittima – Attribuzione quantitativa aggiuntiva rispetto alla quota di cui agli art. 581 e 582 c.c. – Sussistenza – Riduzione delle porzioni secondo la disciplina del concorso prevista dall’art. 553 c.c. – Applicabilità – Esclusione – Fondamento.

 

In tema di successione legittima, spettano al coniuge superstite, in aggiunta alla quota attribuita dagli art. 581 e 582 c.c., i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, di cui all’art. 540 comma 2 c.c., dovendo il valore capitale di tali diritti essere detratto dall’asse prima di procedere alla divisione dello stesso tra tutti i coeredi, secondo un meccanismo assimilabile al prelegato, e senza che, perciò, operi il diverso procedimento di imputazione previsto dall’art. 553 c.c., relativo al concorso tra eredi legittimi e legittimari e strettamente inerente alla tutela delle quote di riserva dei figli del “de cuius”.

 

 

Nota

la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, nella sentenza n. 4847 del 27 febbraio 2013 ha affermato che nella successione legittima i diritti di abitazione e di uso sulla casa adibita a residenza familiare riconosciuti al coniuge si configurano come prelegati ex lege, che si cumulano alla quota prevista dagli artt. 581 e 582 c.c.. Ne deriva che il valore capitale di tali diritti attribuiti al coniuge viene detratto dalla massa ereditaria, che viene poi divisa tra tutti i coeredi secondo le norme sulla successione legittima non tenendo conto di tale attribuzione.

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