L’assegno divorzile

L’elisione del tenore di vita dai criteri di determinazione del quantum

 

Alla luce dell’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74 intervenuta ad innovare l’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 l’assegno divorzile costituisce una misura di solidarietà post-coniugale che, pertanto, non viene riconosciuto in virtù della causa di divorzio ma in quanto sussisteva un precedente matrimonio da cui, tuttavia, non scaturisce in maniera automatica.

All’assegno divorzile notoriamente viene attribuita una natura e funzione prettamente assistenziale nella misura in cui ha la funzione di assicurare al coniuge richiedente, che si trova in una situazione economica di inadeguatezza di mezzi, la possibilità di vivere in modo autosufficiente e dunque non più come parte di un rapporto matrimoniale.

E’ bene precisare, inoltre, che per inadeguatezza dei mezzi non si intende l’indigenza (Cass. civ., sent., 27 luglio 2005, n. 15728) pertanto, l’onere della prova avrà ad oggetto la mera non autosufficienza economica.

Posto questo iniziale e doveroso preambolo, ci affacciamo a illustrare come la sentenza in esame  è intervenuta a ribaltare un orientamento giurisprudenziale consolidato da quasi trent’anni, in base al quale il giudizio in merito all’adeguatezza dei mezzi economici del richiedente veniva compiuto con riferimento alla condizione socio-economica ed allo stile di vita della coppia all’epoca durante il matrimonio (Cass. civ., sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19446) raffrontata all’attuale situazione economica.

Pacificamente infatti l’assegno divorzile, per lungo tempo, è stato determinato con la finalità di consentire al coniuge richiedente di continuare a perseguire gli standard di vita analoghi a quelli goduti in costanza di matrimonio. Pertanto, il paramento cui sì è fatto riferimento, sino ad ora, per valutare l’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente è stato, appunto, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

La ratio della recente sentenza della Cassazione, di contro, parte dalla presa d’atto che il discioglimento del vincolo matrimoniale incide non solo sullo status personale dei coniugi – che tornano ad essere persone singole – ma anche sul piano dei loro rapporti economici.

Come anticipato, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, la Cassazione ha delineato un nuovo criterio interpretativo dell’art. 5 Legge 898/70. invitando il giudice a scindere l’accertamento  necessario al riconoscimento dell’assegno divorziale in due fasi distinte. Il coniuge richiedente, affinché ottenga l’attribuzione dell’assegno, deve necessariamente dimostrare la sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma (fase dell’an), ossia la mancanza di mezzi adeguati e l’oggettiva impossibilità di procurarseli. Solo il positivo accertamento sull’an consente di accedere alla seconda fase, quella diretta alla determinazione della misura dell’assegno ossia alla  determinazione del quantum sulla base della posizione economico-patrimoniale del coniuge richiedente.

Si rende quindi necessario un accertamento volto alla ricostruzione complessiva della posizione patrimoniale e reddituale del coniuge richiedente per stabilire se, quella attuale, lo ponga in una condizione che gli impedisca, con i mezzi di cui dispone, di condurre una esistenza libera e dignitosa.

Per quanto attiene al presupposto dell’indipendenza economica, costituiscono parametri di riferimento: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri connessi e del costo della vita nel luogo di  abituale dimora del richiedente l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso, al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

L’indagine sull’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sussistenza investe l’effettiva impossibilità di reperire mezzi tali da consentire il raggiungimento dell’autosufficienza economica, sulla base delle condizioni soggettive del richiedente (età, malattia, sesso…) e della effettiva e concreta capacità lavorativa da valutarsi tenendo conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in relazione a ogni fattore economico, sociale, individuale, ambientale, territoriale (Cass. civ., sez. I, sent., 26 febbraio 1998, n. 2087)

E’ bene ricordare che a tale convincimento la Suprema Corte non è giunta all’improvviso ma che la svolta segnata dalla sentenza in esame è frutto di un percorso intrapreso tempo addietro con le sentenze dei giudici di merito.

Il passo decisivo lo si deve al Tribunale di Firenze che nel 2013 ha dato una sferzata a questo iter sollevando l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 5 L. n. 898/90 innanzi alla Corte Costituzionale sul convincimento che il riconoscimento a favore dell’ex coniuge di un assegno parametrato al tenore di vita violasse il principio costituzionale di ragionevolezza.

A fondamento dell’eccezione il Tribunale aveva rilevato, tra il resto: 1) una contraddizione logico giuridica fra l’ “istituto del divorzio che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio” e il riferimento al tenore di vita che, di fatto, lo prolunga oltremodo; 2) il prolungamento dei vincoli economici derivanti da un matrimonio che non esiste più; 3) un interpretazione del matrimonio (e del divorzio) non adeguata ai mutamenti sociali nel frattempo intervenuti; 4) il  contrasto tra l’art. 5 l. n. 898/1970 (così come interpretato), la normativa europea e i Principles elaborati dalla Commissione Europea sul diritto di famiglia.

La Corte Costituzionale ha respinto la questione (Corte Cost., 11 febbraio 2015, n. 11)  rilevando come “il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile” ma solo uno degli altri criteri indicati dall’art. 5 Legge 98/70 che egualmente incidono nella determinazione dell’assegno.

La sentenza del Tribunale di Firenze non è rimasta priva di conseguenze in quanto tanto la Suprema Corte quanto i giudici di merito ne hanno riproposto le questioni giuridiche e la ratio argomentativa.

Tuttavia a segnare la svolta definitiva è stata la sentenza che qui ci occupa.

Nell’elidere dal discorso intorno all’assegno di divorzio il riferimento al “tenore di vita” come termine di paragone rispetto al giudizio di adeguatezza/inadeguatezza, la Corte ha seguito un iter logico preciso. Il tenore di vita caratterizza una situazione (il matrimonio) che, per effetto del divorzio, è venuta meno, cosicché non avrebbe senso perpetuare all’infinito un vincolo economico che, in questo modo, sarebbe la proiezione di un vincolo solidaristico cancellato.

Rimangono tuttavia alcune perplessità.

In primo luogo la Corte sembra essersi sostituito al legislatore attribuendo alla Riforma del 1987 una portata innovativa ben maggior di quella che effettivamente è possibile riconoscerle.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con  la pronuncia n. 11490-11492 del 1990, nel riconosce la natura esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio tuttavia non sganciò il diritto dal parametro del tenore di vita in quanto non intravide, nella riforma del 1987, la volontà del legislatore di superare questa dicotomia. La giurisprudenza di legittimità, infatti, pur prendendo atto della modifica del 1987, rilevò che il legislatore non aveva fornito un criterio nuovo per quantificare l’assegno stesso e pertanto affermò che potevano continuare ad applicarsi i criteri precedentemente vigenti, dando vita ad un sistema misto.

In particolare la Corte affermò che tale superamento avrebbe potuto verificarsi solo se la modifica “fosse stata approvata nel testo predisposto dalla Commissione Giustizia del Senato, nel quale l’adeguatezza dei mezzi era quella atta a consentire un “dignitoso” mantenimento, e cioè un livello non rapportabile a quello anteriore, conseguito in costanza di matrimonio, ma che doveva essere apprezzato secondo un criterio autonomo di sufficienza, evidentemente da commisurare alle esigenze e condizioni particolari del coniuge richiedente, in modo da assicurare un tenore di vita “normale” per soddisfare quelle esigenze e tener conto di quelle condizioni. L’iniziale formulazione del testo è stata – però – abbandonata in sede di approvazione della norma la quale non può più essere letta come se ancora contenesse il riferimento al “dignitoso” mantenimento.”

Di contro, la sentenza della Cassazione che qui esaminiamo non è riuscita a fornire argomentazioni altrettanto solide e tali da giustificare un’interpretazione così radicalmente lontana dal testo di legge.

Pur riconoscendo che la cancellazione del tenore di vita come parametro del giudizio di adeguatezza/indadeguatezza abbia una giustificazione condivisibile, allo stesso tempo è altamente legittimo il timore che ciò rischi di dare adito a situazioni di ingiustizia sociale in cui è proprio il soggetto debole del rapporto matrimoniale a non essere adeguatamente tutelato.

Piuttosto che un’elisione tout-court sarebbe più opportuno che i giudici di merito prendessero in considerazione tutti i criteri di determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento, fornendo una argomentazione puntuale e motivata, in modo da poter valutare caso per caso se il riconoscimento del diritto de quo rispecchi correttamente quella funzione assistenziale attribuita dalla norma.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli

Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Lo status di figlio – tra favor veritatis e favor legitimitatis

Il padre biologico e l’azione di disconoscimento

 

Nell’ordinamento italiano l’istituto della filiazione è disciplinato prevalentemente nel Codice Civile, al titolo VII del libro I, agli artt. 231 – 290 c.c..

Il  nostro sistema giuridico prevede una serie di azioni giudiziali relative allo stato di figlio volte ad accertare la posizione giuridica della persona in rapporto ai suoi genitori, dunque sia per reclamare lo status di figlio, sia per contestarlo. La riforma della filiazione intervenuta tra il 2012 e il 2013 con la Legge n. 219/2012 ed il decreto legislativo n.154/2013 ha informato la disciplina al principio della unicità: lo stato giuridico di figlio è unitario (art. 315 c.c.), indipendentemente dal fatto che il progetto genitoriale si sia realizzato all’interno di una coppia legata da un vincolo coniugale o meno. In forza di tale principio tutte le forme di filiazione riconosciute dal nostro ordinamento (all’interno del matrimonio, fuori del matrimonio, adottiva) godono della medesima considerazione, relativamente alle situazioni giuridiche soggettive imputate al figlio ed alla sua posizione nella rete formale dei rapporti familiari (art. 74 c.c.). Ad una riconosciuta pluralità di stati familiari e di coppia si contrappone dunque l’unicità dello stato di filiazione (per cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”) che ha eliminato la differenziazione tra figli naturali (nati fuori dal matrimonio) e figli legittimi (nati al suo interno).

Tutta la disciplina è ispirata dalla ricerca di un bilanciamento tra due principi: il favor veritatis ed il favor legitimitatis.

La ricerca di tale equilibrio ha, come logico, informato anche gli interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione dove si è assistito al susseguirsi di oscillanti orientamenti.

Nello specifico, la Cassazione ha dapprima affermato il principio secondo il quale la verità biologica del concepimento costituisce solo uno degli elementi da tenere in considerazione per valutare la corrispondenza della azione di disconoscimento della paternità all’interesse del minore (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26767), successivamente, ha sancito il principio secondo il quale l’accertamento della verità biologica ha carattere di preminenza, in quanto strettamente legato alla tutela dell’identità personale del figlio (Cass. 15 febbraio 2017, n. 4020). Di recente, con la pronuncia del 3 aprile 2017, n. 8617 la Cassazione è tornata sui suoi passi, sancendo la necessità di valutare la corrispondenza all’interesse del minore della rimozione dello stato di filiazione acquisito alla nascita.

La sentenza in esame, nello specifico, tiene conto dei principi che governano l’accertamento della filiazione, anche alla luce della recente Riforma del 2012-2013, delle indicazioni provenienti dall’ordinamento sovrannazionale, sia internazionale che europeo, e risente dei progressi registrati sul piano tecnico e scientifico, che determinano un elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini sul DNA

Il diritto al riconoscimento di uno status filiale che corrisponda alla verità biologica trova le fondamenta nel fatto che l’identità genetica costituisce un elemento essenziale del diritto all’identità personale sancito negli art. 30 commi 1 e 4 della Costituzione Italiana e nell’art. 8 CEDU, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare. (Cass. 15 febbraio 2017, n. 4020).

Alla luce di ciò, la Cassazione ha riconosciuto al figlio il diritto (e la facoltà) di mantenere il cognome di cui era precedentemente titolare se questo rappresenti un tratto distintivo della sua identità personale e ciò in quanto il cognome ha perso col tempo quella dimensione legata all’ordine pubblico per assumere la connotazione di un bene legato alla persona.

Allo stesso tempo, vi sono pronunce della Cassazione che, sempre richiamandosi alla Costituzione, alla CEDU e all’art. 24 comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, sostengono che  la ricerca della verità biologica non gode di una preminenza assoluta, in quanto, nell’ottica di perseguire il superiore interesse del minore, è opportuno anche riconoscere una rilevanza alla certezza ed alla stabilità di quei rapporti affettivi sviluppatisi all’interno della famiglia in quanto anche su di essi si costruisce l’identità di figlio e non solo sul dato genetico. (tra le altre, Cass. 22 dicembre 2016, n. 26767).

La volontà del legislatore di perseguire un equilibrio tra l’interesse al mantenimento dello status di figlio e l’accertamento della verità della procreazione trova conferma nella vigente normativa in cui si prevede l’imprescrittibilità delle azioni di stato per il figlio che, in ogni tempo – anche da minorenne se rappresentato dal curatore – può decidere se proporle. Mentre prevede termini decadenziali per i genitori, seppure con opportuni distinguo.

Tra le sentenze che hanno dato il loro più significativo contributo alla questione rileva la n. 4020/2017, emessa all’esito di un procedimento instaurato con la richiesta da parte del sedicente padre biologico della nomina di un curatore speciale per il figlio minore affinché questi promuovesse azione di disconoscimento della paternità nei confronti del padre non biologico, ma coniugato con la di lui madre. Le circostanze portate a sostegno si fondavano sulla relazione che il sedicente padre biologico aveva intrattenuto con la madre del minore nel periodo del concepimento dello stesso. Il Tribunale, pur dichiarando inammissibile l’intervento in causa del sedicente padre biologico, con sentenza definitiva, giungeva a dichiarare che il minore non era il figlio del padre non biologico, marito della madre; decisione che veniva confermata anche in sede di appello.

La Corte di Cassazione con la suddetta sentenza ha confermato il ragionamento dei giudici di merito in quanto l’azione di disconoscimento di paternità proposta dal curatore speciale del minore infraquattordicenne era fondata sull’esistenza di una relazione sessuale, tra il sedicente padre biologico e la madre del minore nel periodo del concepimento dello stesso, confermata da tutte le parti in causa, nonché in forza della consulenza tecnica biologica che aveva accertato la non paternità del marito relativamente al figlio.

Con la sentenza in esame, la Corte sostanzialmente afferma che il favor veritatis non collide con il favor minoris in quanto la verità biologica costituisce una componente fondamentale dell’interesse del minore a veder garantito il diritto alla propria identità ed al riconoscimento di un rapporto di filiazione fondato sulla verità.

Inoltre, la Cassazione rileva che la sussistenza di un interesse del minore a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità avviene all’interno del procedimento che conduce alla nomina di un curatore speciale, non già nel momento dell’esame del merito della vicenda in quanto manca qualsiasi riferimento normativo in tal senso e risulta un’inutile duplicazione.

Molteplici sono le perplessità a riguardo. Innanzitutto, la nomina del curatore avviene con procedimento camerale definito con decreto motivato ai sensi dell’art. 737 c.p.c. Le sommarie informazioni da acquisire, nel caso che l’istanza provenga dal PM per il figlio infraquattordicenne, riguardano l’opportunità o meno di nominare un curatore che promuova l’azione di disconoscimento in nome e per conto del minore. Tuttavia appare evidente come, data la delicatezza della materia, l’interesse del minore possa essere effettivamente valutato solo all’esito di un giudizio di cognizione piena, e non all’esito di “sommarie informazioni” costituisce una fattispecie obbligatoria.

Pertanto, l’unico momento utile nel quale è possibile effettivamente valutare l’interesse del minore ad essere disconosciuto si verifica nel corso del giudizio di merito e non prima, all’interno del procedimento che conduce ad una nomina che avviene per legge.

Infine merita una riflessione la mancata previsione legislativa che legittima l’azione di disconoscimento da parte del padre naturale.

Il padre naturale può accertare il rapporto di filiazione naturale solo se prima è stato rimosso lo stato di figlio “matrimoniale” contrario alla verità biologica da parte dei soggetti indicati dall’art. 243 bis c.c. (madre, padre e figlio).

L’unico strumento riconosciuto al padre biologico è quello ex art. 244, u.c., c.c., ossia la possibilità di rivolgersi al PM affinché domandi la nomina di un curatore speciale che promuova il disconoscimento.

Nel caso oggetto d’esame è stato consentito al sedicente padre biologico di attivare un’azione che non è legittimato a promuovere direttamente ma che, per il mezzo di un curatore speciale, può promuovere senza limiti di tempo. La conseguenza ulteriore è che tale impostazione consente al PM di intervenire in maniera decisiva nei delicati assetti familiari in virtù del principio del favor minoris che, così come impostato dalla sentenza n. 4020/2017 trova ragion d’essere solo se si attribuisce preminenza alla conoscenza della verità ad ogni costo.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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La Legge Cirinnà sulle Unioni Civili

Lo scioglimento dell’unione e il diritto al mantenimento del partner più debole.

 

Dopo un lungo e travagliato iter parlamentare anche l’Italia si è dotata di una legge che permette a due cittadini dello stesso sesso di godere di diritti che, prima, era riservati alle sole coppie eterosessuali. L’introduzione del nuovo istituto nasce dalla necessità di rispondere alle pressioni interne, derivanti dalle plurime sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, e da quelle esterne, non solo quindi la legislazione europea ma anche le sentenza di condanna inflitte all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in ordine all’opportunità di riconoscere anche alle coppie dello stesso sesso un nucleo di diritti indiscutibili.

La legge n. 76/2016, meglio nota come Legge Cirinnà, al comma 11 dell’art. 1, prevede espressamente la costituzione della cosiddetta unione civile, con cui le parti acquistano gli stessi diritti ed assumono gli stessi doveri. Si tratta di una disposizione analoga a quella che l’art. 143, comma 1,  c.c. prevede per il matrimonio, come diretta emanazione dell’art. 29 Cost., in base al quale il matrimonio si basa sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

Tuttavia tra l’unione civile ed il  matrimonio sussistono peculiari differenze in relazione agli specifici doveri che sorgono dal vincolo. Come è noto, il comma 2 dell’art. 143 c.c. riconduce al matrimonio gli obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e coabitazione, di contro, il comma 3 dell’art. 1 della nuova legge prevede per entrambi gli uniti il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo. Si vede, quindi, come la legge non contempla, dunque, i doveri di fedeltà e di collaborazione, facendo solo riferimento, all’interno dell’unione civile, agli obblighi di assistenza e coabitazione. L’obbligo di fedeltà ha assunto, col tempo, un significato affievolito al punto che la giurisprudenza, nell’occuparsi dell’addebito della separazione in relazione alla sua violazione, ha richiesto la prova che l’adulterio abbia determinato la crisi coniugale e, dunque, l’intollerabilità della convivenza. Dalla mancata previsione di detto obbligo all’interno dell’unione civile non consegue che le parti non debbano considerarsi vincolate dall’impegno di un progetto condiviso ma detto impegno viene incanalato, appunto, nel quadro di un più generale dovere di assistenza materiale e morale. Nell’unione civile manca altresì il riferimento al dovere di collaborazione nell’interesse delle famiglia che, tuttavia, può essere ricondotto nel più generale obbligo di assistenza morale e materiale in proporzione alle proprie capacità di lavoro professionale e casalingo. Si legge, in questo passaggio, un chiaro riferimento ad un nuovo modello di famiglia in cui non è più concepibile la netta distinzione di ruoli (lavorativo e casalingo) che non appartiene più alla nostra epoca.

Un’ulteriore e rilevante differenza rispetto al vincolo coniugale e comunque strettamente connessa alla natura dei doveri che scaturiscono dall’unione civile è che la legge Cirinnà esclude la fase della separazione quale momento prodromico allo scioglimento dell’unione civile. In base ai commi 22, 23 e 24 dell’art. 1 della legge, l’unione civile si scioglie per alcune cause previste dalla legge sul divorzio (ad eccezione, in primis della pregressa separazione, non configurata), ma anche per dichiarazione, congiunta o disgiunta, di sciogliere l’unione stessa.

La mancata previsione della separazione preclude la possibilità che venga accertato l’addebito della crisi della coppia in caso di inottemperanza degli obblighi previsti.

Tuttavia, la violazione di quel reciproco impegno sancito per legge non resta senza conseguenze in quanto, sebbene non configuri un addebito, può certamente costituire motivo di risarcimento del danno da illecito endo-familiare, ove compromessi quei diritti – quali la salute, reputazione, libertà personale  – costituzionalmente garantiti. La giurisprudenza ha infatti ritenuto configurabile detto illecito, in presenza di condotte del coniuge contrastanti con i doveri che derivano dal matrimonio in quanto detti doveri si considerano espressione di principi generali di rispetto e solidarietà operanti anche all’interno di una convivenza more uxorio e dunque direttamente riconducibili all’impianto costituzionale e non quale mero rinvio all’art. 143 c.c. (Cass. 20 giugno 2013, n. 15481).

Non solo, le ragioni dello scioglimento dell’unione civile rilevano ai fine della determinazione dell’assegno “divorzile” che dovesse essere liquidato nella ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 5 l. n. 898/1970, in quanto la legge prevede tra i vari parametri di cui il giudice deve tenere conto nella quantificazione dell’assegno, rientrano pure “le ragioni della decisione”.

In effetti, la Legge n. 76/2016 – rinviando alle disposizioni vigenti in tema di matrimonio “per quanto compatibili” – al comma 25 dell’art. 1 regolamenta le possibili conseguenze di natura economica che possono derivare in capo ai soggetti di una unione civile nel caso di disgregazione.

E’ indubbio, pertanto, che la legge abbia voluto riconoscere al soggetto debole di una unione civile le medesime garanzie previste per il coniuge debole. Tuttavia la evidente non equiparabilità dell’unione rispetto al matrimonio non può non avere conseguenze sotto il profilo dell’an e del quantum dell’assegno spettante al soggetto debole dell’unione.

Relativamente all’an, al momento dello scioglimento dell’unione civile, il Tribunale adito può stabilire l’obbligo per uno degli uniti di somministrare periodicamente al partner un assegno quando quest’ultimo non abbia mezzi adeguati o comunque non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Non si tratta, pertanto, di una attribuzione automatica ma condizionata all’accertamento dell’assenza, in capo al soggetto richiedente l’assegno, di mezzi adeguati a garantirne il mantenimento o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive che dovrà essere valutata in concreto, tenuto conto delle condizioni soggettive (età, malattia) del richiedente alla luce di fattori economici, sociali, individuali, e territoriali.

Una volta accertata la sussistenza del diritto, la misura della relativa contribuzione verrà poi determinata considerando: a) le condizioni delle parti dell’unione; b) le ragioni della decisione; c) il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune; d) il reddito di entrambi, il tutto parametrato in relazione al criterio temporale della e) durata dell’unione civile.

E’ importante sottolineare come il riferimento al parametro c) consente di annoverare a tutti gli effetti l’unione civile in un concetto lato di famiglia, bene distante dall’accezione tradizionalmente intesa. Probabilmente alcune criticità emergeranno, di contro, rispetto ad altri due elementi: quello della durata dell’unione e quello delle ragioni dello scioglimento.

Infatti, se rispetto al criterio temporale, i giudici non potranno non far riferimento alla durata legale del vincolo, ci si chiede quale valore verrà attribuito, in sede di quantificazione dell’assegno, alla convivenza intervenuta prima della formalizzazione del vincolo, considerato l’enorme ritardo con cui il legislatore italiano è intervenuto a riconoscere le coppie same-sex.

Con riguardo poi alle “ragioni della decisione”, tale parametro – a prima lettura – potrebbe risultare incompatibile con la mancata previsione di un preventivo giudizio di separazione in cui venga valutata l’eventuale “colpa” per il dissolvimento dell’unione civile. Tuttavia, il parametro è congruente se considerato come meramente funzionale alla quantificazione della misura dell’assegno, per ricostruire una verità storica e non la colpa dell’eventuale obbligato. Il legislatore italiano, verosimilmente, non ha voluto introdurre nessun surrogato di accertamento di addebito per colpa sulla falsariga del divorzio in quanto il riferimento a tale parametro ha solo lo scopo di ricostruire le condotte dei singoli all’interno dell’unione civile per attenuare il diritto alla percezione di contributo economico ancorché tali apporti non vi siano stati in materia reciproca.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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La nuova “Legge Cinema”. I suoi incentivi e contributi

Incentivi fiscali e i contributi, il tax credit nel cinema e i contributi automatici e selettivi.

 

L’Italia e il cinema, un binomio imprescindibile prima che l’identità industriale del nostro Paese perdesse il suo carattere originario. L’azienda cinematografica ha, senza dubbio, assorbito, più di altri settori, la acclarata depressione industriale degli ultimi anni, sancita, nel caso di specie, non già da una scarsa capacità artistica ma piuttosto da un inadeguato sostentamento ai processi industriali utili ad elaborare e trasformare la materia prima e, successivamente, a favorirne la diffusione. Proprio per questo, la legge n. 220/2016 – rubricata “disciplina del cinema e dell’audiovisivo” – (che in questa sede chiameremo “nuova legge cinema”) porta con sé la realizzabilità di un mercato cinematografico e audiovisivo competitivo e ancor più il superamento di tutte le note critiche che hanno accompagnato la riferita depressione, attraverso la precisa e sistematica previsione di contributi e incentivi fiscali e attraverso una serie di regole speciali per le opere che beneficeranno dei vari incentivi governativi[1].

La nuova legge cinema presenta, trai i suoi principali obiettivi, quello di voler realizzare un cinema “sostenibile”, dove la sostenibilità viene garantita da interventi pubblici e privati che trovano la loro fonte nell’industria cinematografica stessa, resa possibile proprio grazie alla costruzione di un sistema autonomo e autosufficiente.

Viene, per questo, istituito il “Fondo per il Cinema e l’audiovisivo”, un contenitore delle risorse economiche costituite, nella misura dell’11% e per un valore non inferiore a 400 milioni di euro annui, dal gettito IRES e IVA versato dai soggetti del cinema e dell’audiovisivo stessi. Tali risorse verranno utilizzate per la distribuzione dei diversi contributi previsti dalla legge cinema, tra i quali ricordiamo i contributi automatici e selettivi e il credito di imposta (tax credit).

Gli incentivi fiscali e i contributi.

Il punto centrale della legge è, così, costituito dalla progettazione di un nuovo sistema di finanziamento che trova la sua fonte nel settore di destinazione stesso. L’erogazione dei contributi, difatti, viene garantita proprio dall’operatività del sistema. Gli interventi esterni costituiscono un aspetto collaterale in grado di sostenere l’azienda cinematografica.

Negli ultimi anni, difatti, l’azienda cinematografica si è avvalsa di finanziamenti esterni stimolati dalla ricompensa del credito di imposta che ha generato un diverso modo di concepire il cinema e soprattutto un’ apertura del cinema stesso verso altre realtà produttive. Così, la nuova legge è finita per progettare un sistema mai concepito: la struttura progettata dalla nuova legge è, infatti, prevalentemente autonoma e in grado di autorigenerarsi e autoprodursi. Ma vediamo nel dettaglio quali sono gli incentivi fiscali e i contributi previsti e come questi interagiscono e operano nel sistema.

Il tax credit nel cinema.

Per tax credit si intende la possibilità, per ciascun investitore nel cinema e nell’audiovisivo, di veder ricompensato il proprio investimento, usufruendo del credito di imposta, in misura proporzionale al conferimento effettuato e nei limiti stabiliti dalla legge (la sua misura è pari, a seconda dei casi, a un minimo del 15 percento fino a un massimo del 40 percento). Tale credito può essere utilizzato esclusivamente in compensazione. La sua originaria previsione la rinveniamo nella legge finanziaria del 2008, alla quale seguono diversi decreti ministeriali (dal 2009 al 2015) utili ad estendere e disciplinare il beneficio fiscale. La nuova legge integra la previsione del tax credit nell’ambito di questo sistema autonomo, prevedendo, inoltre, in alternativa alla compensazione, la possibilità di cederlo a intermediari bancari (ivi incluso l’Istituto per il credito sportivo), finanziari e assicurativi. Tra l’altro, nel caso di cessioni a favore dell’Istituto per il credito sportivo, è anche possibile stipulare convenzioni che limitino la destinazione dei crediti ceduti al settore del cinema e dell’audiovisivo.

Intanto i soggetti che godono del detto beneficio sono soggetti che investono danari e/o servizi nel cinema e nell’audiovisivo e si distinguono in soggetti investitori che fanno parte del settore in discorso e soggetti investitori appartenenti ad altri settori o, in ogni caso, completamente estranei all’azienda cinematografica e audiovisiva: si distingue, infatti, il tax credit interno da quello esterno, volendo riferirsi proprio a questa preliminare differenza soggettiva. In secondo luogo e in merito alla natura dei soggetti investitori, questi possono essere sia persone fisiche che persone giuridiche. L’unica eccezione è costituita dall’ipotesi in cui l’apporto conferito abbia ad oggetto servizi e non risorse finanziarie, poiché, in questo caso, per soggetti investitori possono intendersi esclusivamente le persone giuridiche. Ma il discrimen rilavante tra i due tipi di investitori viene dato essenzialmente dal ruolo che rispettivamente rivestono nel sistema. Difatti, laddove l’investitore sia una società interna al settore ovvero, in via meramente esemplificativa, una società di post-produzione e l’ intervento finanziario e/o l’apporto di servizi vada a confluire in un proprio progetto, il ruolo di “investitore” ha una rilevanza giuridica solo ai fini dell’accesso al credito di imposta, in quanto, oltre ad apportare risorse, l’investitore è anche il proprietario del progetto finanziato (sia pure in forma associata). Può però anche aversi il caso in cui una società del settore investa in un progetto cinematografico altrui, di cui non pretende quote di diritti sul prodotto e di cui non intende condividerne le perdite: in questo caso il ruolo dell’investitore, ancorché interno al settore, è assolutamente identico a quello rivestito dall’investitore esterno di cui infra. Per facilitare questa ulteriore distinzione chiameremmo “investitore interno proprio” colui che investe in un proprio progetto (seppure la proprietà sia in forma associata) e “investitore interno improprio” colui che investe in un progetto altrui (privo, per questo, di diritti dominicali sul prodotto finale).

L’investitore esterno ovvero un soggetto imprenditoriale e/o una persona fisica non appartenente all’industria cinematografica e/o audiovisiva, può, a fronte di un investimento nel cinema e/o nell’audiovisivo, godere del credito di imposta alla sola condizione che sottoscriva un contratto di associazione in partecipazione agli utili ai sensi e per gli effetti degli artt. 2459 e ss. c.c. Ciò vuol dire che l’investitore esterno, a differenza dell’investitore interno proprio non entra nel vivo della produzione né tantomeno diventa proprietario di quote di diritti sul prodotto. Egli conferisce alla produzione un servizio ovvero una somma di danaro e partecipa ai ricavi netti in misura  proporzionale al conferimento. Pertanto, nel caso in cui un’azienda immobiliare abbia effettuato una spesa di € 10.000, in termini di investimenti, può ottenere un credito di € 3.000,00 che potrà utilizzare in compensazione, cedere e quindi, eventualmente, rinvestire nel settore.

Pertanto, con il tax credit esterno assistiamo a una tipologia di intervento complessa perché se da un lato l’investimento diretto deriva da altri sistemi, dall’altro, l’incentivo all’investimento stesso è strettamente correlata al funzionamento del sistema automatico del cinema e dell’audiovisivo. Del resto l’aspetto più interessante della nuova legge è l’interazione tra i diversi tipi di incentivi previsti e il loro ruolo attivo nel funzionamento dell’intero sistema. La legge tende ad integrare tutti gli interventi e a farli cooperare al fine di consentire ai prodotti di particolare qualità artistica di ottenere maggiori erogazioni che, a loro volta, andranno ad integrare il funzionamento di tutta la struttura. Pertanto, anche nel caso del tax credit sussiste una forte interazione tra investimento, beneficio e caratteristiche proprie del prodotto finanziato.

 I contributi automatici e selettivi.

Se con la disciplina del tax credit, sia esso interno che esterno, assistiamo a un contributo indiretto da parte dello Stato e ancor più a un mero sostegno al funzionamento del sistema automatico e autosufficiente, come previsto dalla nuova legge, con i contributi che lo Stato eroga direttamente a favore del cinema e dell’audiovisivo siamo di fronte alla forma diretta di incentivo alla industria di settore. La nuova legge cinema prevede infatti che il Fondo per il Cinema e l’audiovisivo accantoni risorse che derivano dal gettito erariale al fine di erogare, oltre il detto credito d’imposta, anche contributi automatici e selettivi.

Per contributi automatici si intendono le erogazioni economiche favorite alle imprese di settore che abbiano una posizione contabile presso il Ministero calcolate sulla base dei risultati economici, culturali e artistici oltre che di diffusione ottenuti. Per le opere cinematografiche si tiene conto prevalentemente degli incassi ottenuti nelle sale cinematografiche italiane, anche in relazione al rapporto fra gli incassi ottenuti e i relativi costi di produzione e di distribuzione. Per le opere audiovisive si tiene, invece, conto prevalentemente della durata dell’opera realizzata e dei relativi costi medi orari di realizzazione.

Per contributi selettivi si intendono i contributi a favore della scrittura, sviluppo, produzione e distribuzione nazionale ed internazionale di opere cinematografiche e audiovisive. Ai fini dell’erogazione si tiene conto del requisito oggettivo di opera prima e/o seconda e della complessità dell’opera in relazione alle modeste risorse utilizzate, nonché della particolare qualità artistica del prodotto.

La particolarità dei summenzionati contributi sta certamente nella loro origine, essendo questa strettamente correlata al sistema e in grado di rigenerarsi grazie a nuove produzioni che trovano il loro slancio proprio nelle erogazioni pubbliche. La struttura del sistema progettata dalla nuova legge ha, pertanto, i caratteri di un circuito elettrico e la sua principale energia la si rinviene, esclusivamente, nell’espressione artistica. Per il momento è chiaro che la prospettazione del riferito meccanismo opera esclusivamente in via teorica, in quanto, come già sostenuto dal Prof. Avv. Cesare Galli (cfr. nota 1), risulta difficile prevedere cosa effettivamente accadrà.

Note conclusive.

A conclusione di questa breve indagine sul tema, si comprende la ratio della legge finalizzata prevalentemente a conferire piena autonomia al settore. Pensiamo, infatti, al caso in cui l’azienda di produzione cinematografica Alfa – che ha ottenuto investimenti esterni per la produzione di un Film Gamma e contributi automatici proprio per le particolari caratteristiche del Film Gamma – intenda utilizzare i contributi automatici per finanziare il progetto Delta di un giovane autore. In questo caso il progetto Delta viene finanziato dall’azienda Alfa, in misura esattamente corrispondente alla somma erogata come contributo automatico per il Film Gamma. A fronte del finanziamento l’azienda Alfa potrà accedere al beneficio del tax credit – di qui ottenere un credito da utilizzare in compensazione o che potrà cedere e ottenere una corrispondente somma in danaro – mentre il giovane autore non solo riuscirà a realizzare il suo progetto ma potrà ottenere i c.d. contributi selettivi, utili, eventualmente, a finanziare la realizzazione di una nuova idea. Con la realizzazione di tutte queste ipotesi ci troviamo di fronte a un modello perfetto di sistema automatico e autosufficiente.

Un sistema in grado di autoalimentarsi e in grado di rigenerare le risorse che in esso confluiscono costituisce certamente il paradigma di una realtà efficiente, in grado di svilupparsi e raggiungere elevati livelli di competitività. Del resto lo scopo della nuova previsione normativa è proprio quello di realizzare un cinema “sostenibile” e competitivo.

[1] sul punto v. Prof. Avv. Cesare Galli “La nuova legge sul cinema introduce regole speciali per i diritti di proprietà intellettuale sulle Opere Agevolatein Marchi e Brevetti Web – Sezione Angolo del Professionista, che analizza l’importante interazione e la necessità di coordinamento tra la legge sul diritto d’autore e le nuove regole previste nelle ipotesi di “Opere Agevolate”.

Paola Carmela D’Amato, nata ad Avellino il 5 luglio 1984, avvocato civilista, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II di Napoli.
Dopo una proficua collaborazione con lo Studio legale Sparano ha iniziato l’attività professionale in proprio fondando lo Studio legale D’Amato e dedicandosi, prevalentemente, al diritto della proprietà industriale ed intellettuale.
E’ iscritta nell’elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato.
Assiste diverse aziende campane nella tutela dei marchi.
Assiste aziende di produzione cinematografica nella stipula di contratti e nella gestione legale dei prodotti cinematografici.

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Vendite giudiziarie: cosa sono?

Acquisto di un immobile all'asta: vendita con incanto o senza incanto

 

Le vendite giudiziarie derivano da procedure attivate presso i Tribunali al fine di ricavare determinate somme di denaro dalla vendita di compendi immobiliari, per soddisfare i creditori. L’Asta Giudiziaria è dunque lo strumento utilizzato dai Tribunali per vendere in maniera forzata i beni immobili, al fine di soddisfare i creditori precedenti. Per garantire l’assoluta trasparenza ed imparzialità di questa modalità di vendita, la legge prevede che le Aste si svolgano secondo il criterio della “ gara al miglior offerente”.

  • Tutti possono partecipare alle vendite giudiziarie, con esclusione dell’esecutato o del fallito
  • Non occorre l’assistenza di un legale o altro professionista (ma è consigliata)
  • Oltre al prezzo di aggiudicazione si pagano i soli oneri fiscali (IVA o Imposta di Registro), con le agevolazioni di legge ( 1° casa, imprenditore agricolo, ecc.)
  • La vendita non è gravata da oneri di mediazione
  • L’acquisto è sicuro in quanto il trasferimento dell’immobile viene ordinato dal Giudice ed effettuato dal Tribunale a mezzo del Decreto di Trasferimento.

Partecipare ad un’asta giudiziaria per l’acquisto di un immobile è molto semplice. Scelto l’immobile, l’offerente consulterà l’avviso di vendita pubblicato sul sito internet per sapere se dovrà partecipare ad una vendita senza incanto o ad una vendita con incanto. Nel caso di vendita senza incanto, l’offerente dovrà predisporre una domanda scritta contenente i seguenti dati: Tribunale; Giudice dell’esecuzione; numero di procedura; data ed ora dell’asta.

  • generalità dell’offerente (nome e cognome del partecipante, data e luogo di nascita, stato civile, regime patrimoniale)
  • numero e descrizione del lotto per cui s’intende partecipare, reperibili nell’avviso di vendita;
  • l’importo offerto per l’acquisto dell’immobile scelto, mai inferiore al prezzo base d’asta;
  • la cauzione, pari al 10% del prezzo offerto

Alla domanda devono essere sempre allegati, a pena d’ irricevibilità, gli assegni circolari non trasferibili a titolo di cauzione e di anticipo spese. Per intestare correttamente gli assegni circolari, occorre esaminare l’avviso di vendita pubblicato sul sito, ove è contenuta l’indicazione dell’intestazione al Giudice dell’Esecuzione, o al Giudice Delegato ovvero al Professionista Delegato. La domanda corredata da un marca da bollo di €14.62, unitamente agli assegni circolari, deve essere inserita in busta chiusa e sigillata, senza che all’esterno sia indicato il nome dell’offerente. E’ importantissimo che la busta contenente l’offerta venga depositata entro la data e l’ora indicata nell’avviso di vendita quale termine ultimo di presentazione.

L’inosservanza del termine, comporterà l’inammissibilità dell’offerta con la conseguente impossibilità di partecipare all’asta. 

Il deposito dovrà essere effettuato presso la cancelleria del Tribunale, in caso di vendita davanti al Giudice, ovvero presso lo studio del Professionista (Notaio, Avvocato, Commercialista) in caso di vendita delegata. Nella vendita senza incanto, essendo l’offerta segreta, la busta che la contiene, sarà aperta il giorno della vendita dal Giudice dell’esecuzione ovvero dal Professionista delegato. Nell’ipotesi di unico offerente, il Giudice procederà ad aggiudicare l’immobile in suo favore, anche se l’offerente non è fisicamente presente; in caso di pluralità di offerte, ritenute valide, il Giudice invece procederà ad una gara tra gli offerenti che potranno rilanciare. L’aggiudicazione verrà disposta a favore di colui che ha offerto il prezzo più alto, definito migliore offerente

Partecipare ad una vendita con incanto

Le modalità di partecipazione sono molto simili. Anche in tale ipotesi è necessario predisporre la domanda di partecipazione, contenente tutti gli elementi previsti per la vendita senza incanto. Identici sono le modalità ed i luoghi di deposito.

La fondamentale differenza consiste nel fatto che l’offerta non è segreta e pertanto la domanda di partecipazione consiste in una istanza, per la presentazione della quale non devono essere osservati i requisiti di segretezza richiesti per la vendita senza incanto.

Anche nella vendita con incanto, all’istanza, in bollo, va allegato l’assegno circolare a titolo di cauzione pari al 10% del prezzo base d’asta previsto in avviso.

In buona sostanza nella vendita con incanto non si offre, si chiede di partecipare ad un’asta pubblica.

Nel caso di più offerte, si svolgerà un gara con rilanci minimi ed all’esito del rilancio più alto il giudice dichiarerà l’aggiudicazione.

Nella vendita con incanto l’aggiudicazione è provvisoria, potendo altri soggetti interessati, entro 10 giorni dall’aggiudicazione, aprire la fase del rincaro presentando un’offerta in aumento.

Avvocato presso il Consiglio dell’Ordine di Napoli.Diritto civile, in particolare nel contenzioso, procedure esecutive immobiliari, diritto comunitario, arbitrato e mediazione nazionale ed internazionale, diritto di famiglia, risarcimento del danno nell’ambito della responsabilità medica.

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Scioglimento anticipato della comunione legale

Separazione dei coniugi: quando si ha lo scioglimento anticipato della comunione dei beni?

 

L’ingresso nel nostro ordinamento della legge 55/2015 la cosiddetta legge sul “divorzio breve” oltre a ridurre i termini i termini per la presentazione della domanda diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ha portato una seconda novità che riguarda lo scioglimento anticipato della comunione legale.

L’art. 2 modifica l’art. 191 c.c. inserendo un’ulteriore comma che prevede lo scioglimento della comunione legale: in caso di separazione giudiziale, nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, in caso di separazione consensuale, dalla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione dei coniugi dinanzi al presidente, purché successivamente omologato.

Fino ad oggi la comunione legale si scioglieva con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o del decreto di omologa della separazione consensuale.

Lo scioglimento ha efficacia ex nunc, quindi non retroagisce fino al momento della domanda di separazione personale.

Questa modifica legislativa consente pertanto ai coniugi di definire fin da subito i rapporti patrimoniali tra coniugi in regime di comunione legale evitando così una serie di situazioni negative: che il patrimonio comune rimanesse immobilizzato, almeno per tutta la durata del giudizio di 1° grado per la separazione giudiziale, se non addirittura per altri due gradi di giudizio;  che gli acquisti compiuti da un solo coniuge in questo lasso di tempo potevano cadere in comunione, anche se i coniugi ormai non coabitavano più ed era venuta meno la comunione morale e spirituale che li univa; che un coniuge potesse disporre dei beni comuni sottraendo sostanze al patrimonio familiare.

A tal proposito lo stesso articolo della legge di riforma stabilisce che l’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione sull’atto di matrimonio.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Il sovraindebitamento incolpevole

Piano del consumatore: strumento per una rinnovata serenità familiare

 

Tantissimi sono i casi di cittadini italiani che con sacrifici hanno realizzato il desiderio di garantire un “tetto coniugale” al proprio nucleo familiare impegnandosi con un contratto di mutuo ipotecario; per tanti motivi si sono poi trovati nell’incolpevole impossibilità di pagare le rate del mutuo, accedendo spesso anche nel violento mondo dei piccoli finanziamenti, del tutto illusori per una concreta ripresa, anzi spessissimo fonte di aggravio anche di preoccupazioni: versando, in ultimo, in uno stato di sovraindebitamento.

Il Tribunale di Napoli nel 2015 e di recente nel marzo del 2017 ha accolto le richieste di due famiglie “liberandole” dal peso di debiti non più sostenibili, autorizzando il pagamento di rate finalmente commisurate a quanto effettivamente è risultato per loro pagabile nel mantenimento di   una dignitosa esistenza, anche con riduzione, riscontrandone i presupposti di legge, del complessivo debito e soprattutto consentendo una ripresa della vita nel rispetto delle regole e degli impegni assunti.

Gli artefici di tali risultati sono l’avvocato al quale si sono affidati i coniugi e il gestore della crisi (cioè il soggetto terzo previsto per legge che agisce quale Organismo di Composizione della Crisi – OCC) con l’innegabile abnegazione di magistrati che hanno creduto nella Legge n.3 del 2012.

Entrambi i provvedimenti si articolano in una parte iniziale definibile “descrittivo- ricognitiva” nella quale i magistrati riportano quanto illustrato nella proposta dal consumatore, come detto, redatta dall’avvocato con l’assistenza dell’OCC, supportata da idonea documentazione relativamente alla situazione debitoria da raffrontarsi con i beni e i redditi del proponente (cd. attivo).

Massima attenzione è stata posta dall’avvocato nel descrivere e documentare la sussistenza dei presupposti di legge (art. 7, co. 2, L. 3/2012) che il magistrato ha accuratamente verificato: “ l’istante ha dichiarato: a) di non essere soggetto alle procedure concorsuali vigenti e previste dall’ art.1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, in quanto persona fisica che non ha mai svolto attività di impresa; b) di non aver fatto ricorso, nei precedenti cinque anni, alla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento ex L. 3/2012 mediante proposta di accordo ( e, quindi, di non aver subito uno dei provvedimenti di cui agli artt. 14 e 14 bis); c) di essersi manifestato un perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il proprio patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina non solo la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ma anche la definitiva incapacità di adempierle ( art. 6, 2 co. Lett a) “.

Ulteriore presupposto è il sussistere per i coniugi consumatori di uno stato di sovraindebitamento, intendendo per esso, “la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente”.

Nel primo caso il consumatore «stante la perdita del lavoro, da alcuni anni versava in una situazione di grave crisi finanziaria, con un costante trend negativo, da cui l’impossibilità di adempiere tutti i pagamenti e a tutte le obbligazioni contratte nei confronti dei creditori».

Immediatamente dopo, nell’impostazione della proposta, è stato rimarcato “L’attivo destinabile alla procedura”, rappresentando in esso la sua concreta descrizione (art. 8, co.1 , L . 3/2012, laddove afferma che « la proposta di accordo  di piano del consumatore prevede la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma…».)

Un impegno altamente professionale da parte dell’avvocato e dell’OCC ha consentito ai magistrati di svolgere con puntualità le dovute indagini confermative sulla ragionevolezza della proposta e sulla mancanza di colposità da parte dei proponenti così da fissare, nel rispetto del termine massimo di 60 giorni, la prevista udienza.

Nella peculiare procedura a tutela dei consumatori è volutamente esclusa una fase di negoziazione con i creditori e diviene essenziale il controllo sulla legalità, sulla fattibilità e sulla convenienza del Piano o meglio di meritevolezza etica della condotta debitoria.

A mio parere, il tema della meritevolezza e/o diligenza impiegata dal debitore nell’assumere volontariamente le obbligazioni è particolarmente rilevante e deve risultare da una corretta impostazione della proposta introduttiva. Occorre dare compiutamente conto della situazione patrimoniale e differenziarla in attivo e passivo (entrambe da descrivere analiticamente e da documentate) per consentire le dovute verifiche sulla sussistenza della capacità patrimoniale del debitore a far fronte alla rata del mutuo al momento della stipulazione dello stesso (finalizzate a garantire un tetto coniugale, in alternativa al pagamento di un canone di locazione). La diligenza del debitore è desumibile dai regolari versamenti sino all’ anno corrispondente alla perdita del lavoro.

In tal modo il teorico concetto di diligenza di cui ai sensi dell’ art.9, co. 3bis, lett a), L.3/2012 assume una sua precisa coloritura: a) gli obblighi pecuniari devono essere contratti con la ragionevole prospettiva di poterli adempiere; b) tale prerogativa deve non essere solo iniziale, ma deve mantenersi nell’esecuzione del rapporto ed interrompersi solo per un comprovato e giustificato motivo sopravvenuto; c) che le obbligazioni sono assunte per uno scopo meritevole.  Tale diligenza del consumatore può ritenersi, quindi, alla base anche dell’espressa previsione del sindacato di “meritevolezza” del debitore di cui al successivo art. 12 bis, co. 3, L. 3/2012.

Tale impostazione è confermata nel primo provvedimento dove è, infatti, precisato: può, quindi, anche ai sensi dell’ art. 12 bis, co. 3 affermarsi che il debitore non ha assunto le obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere, e che non ha colposamente determinato il sovraindebitamento anche per mezzo di ricorso al credito non proporzionato alle proprie capacità patrimoniali”.

La più recente ordinanza del Tribunale di Napoli del 2017 affronta anche un’ulteriore delicato profilo della legge (art.8 co.4 L.3/2012). Il magistrato con estremo coraggio afferma che detto comma “non può essere inteso nel suo senso letterale di obbligare i proponenti al pagamento dei debiti privilegiati entro un anno al massimo dall’omologa del piano … in quanto altrimenti verrebbe del tutto frustata l’operatività della normativa a sostegno della composizione delle crisi da sovraindebitamento, almeno per quanto riguarda il paiano del consumatore” .

Gli innumerevoli sforzi per rendere applicabile la normativa alle primarie esigenze di coloro che aspirano a mantenere la casa pagando rate effettivamente sostenibili (e non certo con il limite massimo di dodici mesi come letteralmente è scritto) hanno raggiunto l’auspicato risultato. Il comune spirito di chi ne è stato partecipe (avvocati – OCC e magistrato) è stato quello da sempre idealizzato e cioè che si entri nel cuore della disciplina da applicare e che di essa se ne svolga una lettura orientata alla sua reale e logica applicazione, superando anche contraddizioni di natura meramente formale.

In entrambi i casi si è avuto un successo anche in termini temporali perché le rispettive definitive ordinanze di omologazione sono state depositata pochi giorni dopo l’udienza dando una tempestiva risposta di giustizia. Con esse si sono autorizzati i proponenti a “ liberarsi” dai propri debiti, mediante il pagamento degli stessi per un importo inferiore e rateizzato nel tempo, con il vantaggio di far definitivamente cessare le richieste di pagamento fin troppo spesso invasive e demoralizzanti per chi sa di non avere colpe.

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Avv. Giuseppe Sparano, nato a Napoli il 18.2.1965
Laureato nel 1987 con lode, presso l’Università Federico II di Napoli
Iscritto all’Albo degli Avvocati di Napoli dal 22.2.1991 -patrocinio presso le Corte Superiori.
Dottore di ricerca in Diritto delle Imprese in crisi –  Università Federico II di Napoli
Docente di Diritto Commerciale corso in “Diritto dei contratti d’impresa” nelle Scuole di Specializzazione delle Professioni Università Federico II di Napoli e Università Vanvitelli (già  Seconda Università di Napoli).
Presidente dei Collegio dei probiviri della Camera degli Avvocati Civili di Napoli (già segretario e tesoriere)

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Divorzio: dopo quanto tempo posso richiederlo

Quanto tempo deve trascorrere dalla separazione prima di poter chiedere il divorzio?

 

Con l’ingresso nel nostro ordinamento della legge 55/2015 la cosiddetta legge sul “divorzio breve” il legislatore ha ridotto i termini per la presentazione della domanda diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Se prima della riforma occorreva attendere 3 anni a decorrere dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale, oggi l’art 1 della nuova legge stabilisce che:

1. Se c’è stata una separazione giudiziale

si riduce da tre anni a dodici mesi il termine per la presentazione della domanda diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

2. Se c’è stata una separazione consensuale, anche nel caso in cui c’è stata trasformazione da giudiziale in consensuale:

si riduce a sei mesi il termine per la presentazione della domanda diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Perché la separazione consensuale abbia effetto è necessaria sia omologata dal Tribunale che provvede in camera di consiglio su relazione del Presidente.

In entrambi i casi :

  • il termine decorre dalla comparsa dei coniugi di fronte al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale;
  • resta in piedi il requisito della durata della separazione, protrattasi ininterrottamente nel periodo richiesto per la proposizione della domanda, resta in vita.

Va detto che nel caso in cui venga a verificarsi un’interruzione della separazione, e il coniuge convenuto non voglia divorziare, spetta alla parte convenuta formulare  tale eccezione.

3. Se c’è stata separazione raggiunta a seguito di convenzione di negoziazione assistita

Anche in questo caso, pur non essendo specificato nel testo di legge, il termine è di sei mesi che decorre dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da avvocati ovvero

dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile.

L’art. 3 della legge, infine, disciplina la fase transitoria e prevede che tali norme si applicano alle domande di divorzio proposte dopo l’entrata in vigore della legge, anche quando sia pendente a tale data il procedimento di separazione personale che è presupposto della domanda.

Riferimenti normativi

Legge 55/2015 (divorzio breve)

Articolo 1
1. Al secondo capoverso della lettera b) del numero 2) dell’articolo 3 della legge 1o dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, le parole: «tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale» sono sostituite dalle seguenti: «dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale».

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Coniuge divorziato e TFR

Una donna già separata legalmente dal marito ha diritto a richiedere, in sede di divorzio, una percentuale del TFR percepito dal marito prima della richiesta di divorzio?

 

La risposta è negativa.

L’art. 12 bis l. n. 898/1970 prevede che solo il coniuge titolare di un assegno di divorzio possa chiedere e ottenere il 40% dell’indennità totale di fine rapporto percepita dall’altro coniuge e riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

La giurisprudenza, in maniera uniforme, ha interpretato la norma nel senso di ritenere che l’ex coniuge cui sia riconosciuto un assegno di divorzio ha diritto alla quota del TFR, come sopra calcolata, solo se e quando questo è stato percepito dopo l’instaurazione del giudizio di divorzio (Cass. civ. 29 ottobre 2013, n. 24421Cass. 14 novembre 2008, n. 27233 )

Del resto qualora l’ex coniuge abbia percepito il TFR,  dopo la separazione ma prima del deposito del divorzio, in sede divorzile si terrà conto di questa circostanza  ai fini delle capacità economiche dell’obbligato all’assegno (Cass. 10 marzo 2005, n. 5283 ; Cass. civ. 29 luglio 2004, n. 14459)

Conseguentemente nel caso in esame nel quale il marito ha percepito  l’indennità di fine rapporto dopo la separazione ma prima del deposito del divorzio, la moglie non avrà alcun diritto sul TFR percepito dal marito, il cui importo dovrà, però, essere correttamente valorizzato – in concorso con gli altri elementi di cui all’art. 5 ln. 898/1970 – nel giudizio sull’an e sul quantum dell’assegno di divorzio.

Riferimenti normativi :

* Art. 12-bis. l.n. 898/1970

  1. Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.
  2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio

* Art. 5. l.n. 898/1970

  1. Il tribunale adito, in contraddittorio delle parti e con l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, accertata la sussistenza di uno dei casi di cui all’art. 3, pronuncia con sentenza lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ed ordina all’ufficiale dello stato civile del luogo ove venne trascritto il matrimonio di procedere alla annotazione della sentenza.
  2. La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio.
  3. Il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela.
  4. La decisione di cui al comma precedente può essere modificata con successiva sentenza, per motivi di particolare gravità, su istanza di una delle parti.
  5. La sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti. Il pubblico ministero può ai sensi dell’art. 72 del codice di procedura civile, proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.
  6. Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
  7. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Il tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione con motivata decisione.
  8. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.
  9. I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria.
  10. L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.
  11. Il coniuge, al quale non spetti l’assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell’ente mutualistico da cui sia assistito l’altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze .

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984 presso l’Università Federico II di Napoli.
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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La tutela del diritto d’autore per la creazione di ricette culinarie

La giurisprudenza italiana sulle ricette culinarie, la tutela delle ricette ex se e la paternità della ricetta.

 

  1. La giurisprudenza italiana sulle ricette culinarie

È possibile tutelare le ricette culinarie? Si tratta di una domanda tutt’altro che oziosa, alla luce dell’importanza che il settore food ha assunto nell’economia nazionale.

Della questione si è occupata, almeno in parte, una decisione giurisprudenziale – la sentenza del Tribunale di Milano n.9763/2013 – dalla quale conviene prendere le mosse, al fine di analizzare la fattispecie.

I giudici meneghini si sono, infatti, pronunciati in senso favorevole alla possibilità che anche una ricetta culinaria possa rientrare nel novero delle opere tutelate dalla legge del diritto d’autore. Questo assunto, però, merita di essere filtrato attraverso la verifica dell’esistenza di importanti presupposti: come la sentenza in parola ritiene, infatti, la tutela autorale può rinvenirsi esclusivamente nella forma espressiva delle ricette. Pertanto, la ricetta, rectius la sua forma espressiva, ai fini di una tutela, deve assumere le caratteristiche di un elaborato creativo.

Per elaborazione creativa si intende un’elaborazione che abbia un riconoscibile apporto creativo, suscettibile di manifestazione nel mondo esteriore: la creatività, ai fini di una rilevanza giuridica, deve, pertanto, estrinsecarsi in una determinata forma espressiva (cfr. sul punto Cass. n. 9854/2012; Cass. n. 15496/2014; Cass. n.20925/2005).

Nel caso sottoposto alla cognizione del Tribunale di Milano, la controversia aveva ad oggetto l’edizione di un libro di ricette che presentava contenuti espressivi di proprietà di terzi. Invero, l’autore del libro aveva provveduto – senza averne l’autorizzazione – a inserire nella sua opera alcune ricette come esattamente descritte da una terza persona nel suo blog di cucina. Pertanto, il libro di ricette presentava contenuti creativi di proprietà altrui e per questo si concretava una violazione sic et simpliciter della legge sul diritto d’autore.

Ciò che ha fatto propendere i giudici verso una tutela autorale della ricetta in discorso non è stato, quindi, il singolare metodo di preparazione, né tantomeno la realizzazione in sé della ricetta riprodotta, quanto, piuttosto, la forma espressiva utilizzata per descriverne il processo.

  1. La tutela delle ricette ex se

È chiaro, quindi, che il caso di specie non risponde in maniera esaustiva al dubbio circa l’estensione tout court della tutela autorale alle ricette di cucina. Tutt’altro. Dalla pronuncia in discorso sembrerebbe ricavarsi proprio l’assunto contrario ovvero l’assenza della possibilità di una tutela autorale per le ricette che non abbiano avuto una particolare, nonché creativa, forma espressiva.

Ma questa conclusione potrebbe non essere completamente esatta, dal momento che, a chi scrive, appare che anche ulteriori elementi debbano essere presi in considerazione.

Innanzitutto, occorre comprendere, da un punto di vista tassonomico, cosa si intenda per “ricetta culinaria”, potendosi tale lemma riferire al mero processo di preparazione ovvero al metodo di integrazione degli ingredienti o, ancora, al modo in cui viene espressa la ricetta stessa o, infine, al prodotto finale quale sintesi di tutto ciò. Ci si chiede, a questo punto, cosa accada nel momento in cui una ricetta di un prodotto originale non abbia avuto una propria elaborazione artistica, se non nella fase della realizzazione/esecuzione. È chiaro che il problema inerente alla tutela di una ricetta culinaria, intesa come momento di ideazione del procedimento di preparazione, afferisce al binomio ideazione/realizzazione (del resto una ricetta di un prodotto particolare altro non è che l’elaborazione di un’idea che dovrà poi essere concretata). E se, da un lato, il nostro ordinamento non prevede una tutela autorale per le idee in quanto tali, dall’altro, la fase che precede la realizzazione dell’opera e quindi l’elaborazione dell’idea, riscontra un’unanime esigenza di tutela (pensiamo, ad esempio, alla ormai indiscussa tutela autoriale del format di un programma televisivo).

Ma a questo importante passaggio dobbiamo senz’altro aggiungerne un altro: ai fini di una tutela autoriale è necessario che l’oggetto della tutela stessa presenti il carattere della creatività e della novità. Ora, nel caso di una ricetta e quindi di una elaborazione di idee, come si può effettivamente riscontrare il carattere creativo? È davvero sempre necessario che la ricetta abbia una forma esteriore creativa? È sufficiente che la creatività venga riscontrata nell’originalità relativa alla combinazione di determinati ingredienti?

È risaputo che l’elaborazione di idee, per ottenere tutela, deve presentare un livello minimo di compiutezza espressiva, al di là del contenuto originale e creativo. Pertanto, le ricette, per quanto originalissime, non possono concorrere alla tutela autorale semprechè non assumano altre forme espressive alle quali l’ordinamento estende – in maniera indiscussa – la tutela.

In tal senso, occorre considerare anche il carattere, per dir così, percettivo delle ricette. Le ricette – come osservato dalla migliore dottrina (cfr. A. Musso, Diritto d’autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2008, p. 54) – non sono associate alle facoltà di vista e udito che, storicamente, hanno rappresentato il discrimen concettuale e cognitivo delle opere ricomprese nell’ambito del diritto d’autore.

Alla luce di tale considerazione, si comprende il motivo che induce ad accordare protezione all’aspetto creativo di un blog di ricette, o ad un testo scritto che contenga l’indicazione per la preparazione di piatti, e non alle ricette in sé. Si comprende che la originale combinazione di ingredienti utilizzati per la realizzazione di un particolare piatto non è di per sé suscettibile di tutela.

A questo punto dovrebbe, quindi, concludersi per l’impossibilità di una tutela autorale per le ricette di cucina, in quanto si riscontrerebbe una tutelabilità solo laddove la ricetta sia trasposta in un testo scritto o in una presentazione orale, sempreché coperte dal diritto d’autore.

  1. La paternità della ricetta

Il problema, come si accennava, si pone di fronte al caso in cui sia necessario tutelare la ricetta in sé, perché, ad esempio, c’è una contestazione in merito alla sua paternità.

Per semplificare la nostra indagine sul punto, pensiamo al caso di un prodotto di pasticceria originale, denominato “A” e ideato dal pasticciere Tizio. Pensiamo inoltre che Tizio non abbia provveduto a scriverne la ricetta ed abbia, invece, provveduto a registrare il marchio e/o il disegno. Pensiamo infine che un altro pasticciere, Caio, assegni alla ricetta del prodotto “A” una forma espressiva creativa: quale tutela possiamo accordare al pasticciere Tizio?

Il quesito non è di pronta soluzione, in quanto molteplici sono gli aspetti da considerare. Invero, nel caso immaginato, il pasticciere Tizio, che ha ideato e realizzato per prima il dolce “A”, non ha provveduto a dare alla sua ricetta forma espressiva e ha, invece, ritenuto idoneo, al fine di evitare rivendicazioni da parte di terzi, provvedere a registrare il nome di “A” come marchio della sua impresa e provvedere a registrare il disegno del prodotto. In questo modo, però, ha certamente favorito la tutela della proprietà industriale – distintamente – del marchio e/o del disegno di “A”. In realtà marchio e disegno rappresentano parti di “A” ma non lo integrano totalmente e, ancor meno, integrano la sua idea. È certo, tuttavia, che il pasticciere Tizio abbia prodotto per primo il dolce denominato “A”, che presenta quella determinata forma esteriore, come descritta nel disegno registrato. Il pasticciere Caio, di contro, ha provveduto, per primo, a scrivere la ricetta di “A” in una originale raccolta.

Stando a quanto detto sinora, la forma originale di scrittura di Tizio trova certamente tutela autorale, nonostante contenga ricette ideate da terzi. Le pretese di Tizio possono, senz’altro, trovare terreno fertile sul piano della proprietà industriale. Pertanto, le posizioni dei due pasticcieri sono entrambe tutelabili ma sotto due diversi profili ed è proprio questa distinzione dei profili che rende impossibile un contrasto giuridicamente rilevante. Pertanto, da un lato, si dovrà accordare tutela autorale a Caio per il suo scritto e, dall’altro, tutela industriale a Tizio per la sua accertata proprietà. In nessuno dei due casi è però data rilevanza alla ricetta di “A” e alla sua paternità.

Si deve dare atto che propendere per una soluzione di questo tipo è alquanto fuorviante, sempreché legally correct. Questo perché la forma espressiva creativa che consente alla ricetta di essere tutelata non deve necessariamente riguardare il momento dell’elaborazione dell’idea, ma può riguardare anche il momento finale ovvero quello in cui viene data esecuzione. Questo sembrerebbe possibile esclusivamente nel caso in cui, vincendo le resistenze di cui sopra, un prodotto culinario possa essere equiparato a un’opera architettonica o a un’opera fotografica. Difatti, questo tipo di opere riscontrano una tutela autorale certamente per la loro forma esteriore ma è chiaro che, laddove siano stati utilizzati particolari processi di lavorazione o particolari materiali, il lavoro finale ingloba tutte le fasi precedenti e crea una sintesi dell’opera che fa senza dubbio capo al suo autore finale (nel caso in cui non si tratti di un’opera collettiva). Seguendo questa logica, dunque, “A”, quale prodotto complesso, realizzato per primo da Tizio, sintetizza tutte le fasi utili alla sua realizzazione e costituisce esso stesso la forma espressiva creativa ultima che è indubbiamente meritevole di tutela. In questo modo Tizio sarà l’autore indiscusso di “A” se e solo se ad “A” possa estendersi tutela proprio come un’opera architettonica e al tempo stesso l’autore di tutti i processi utilizzati per la sua realizzazione, sempreché originali e creativi.

Pertanto, se pure lo scritto di “F” ha un suo spazio vitale parallelo rispetto a quello di “T” (il primo vede la tutela autorale dello scritto e il secondo la tutela della proprietà industriale del marchio e del disegno e, nel caso in cui si riesca a individuare nella ricetta in sé un’opera meritevole di tutela, anche tutela autorale) avendo “F” utilizzato nella sua opera originale un contenuto rilevante giuridicamente di proprietà di “T”, deve inevitabilmente subire la difesa in termini di proprietà intellettuale e, quindi, riconoscere la paternità della ricetta esclusivamente in capo a “T”, proprio come quando in un’opera cinematografica si utilizza un brano musicale di altri a suo completamento.

Questo potrebbe costituire uno slancio interpretativo utile a fondare una pretesa di tutela autorale per le ricette in sé che, altrimenti, rimarrebbero sempre irrilevanti per la proprietà intellettuale, nonché prive del carattere della creatività.

Paola Carmela D’Amato, nata ad Avellino il 5 luglio 1984, avvocato civilista, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II di Napoli.
Dopo una proficua collaborazione con lo Studio legale Sparano ha iniziato l’attività professionale in proprio fondando lo Studio legale D’Amato e dedicandosi, prevalentemente, al diritto della proprietà industriale ed intellettuale.
Assiste diverse aziende campane nella tutela dei marchi.
Assiste aziende di produzione cinematografica nella stipula di contratti e nella gestione legale dei prodotti cinematografici.

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